“C’è ancora domani…”- Riflettendo sulla cittadinanza politica femminile

FRANCESCA RESCIGNO*

L’uscita e il meritato successo del bel film di Paola Cortellesi “C’è ancora domani” ha attirato l’attenzione generale sull’emancipazione e in particolare sulla cittadinanza politica femminile e mi hanno indotto a riflettere sul compimento di questo cammino.

Dopo la vittoria, alle elezioni del 25 settembre 2022, Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia è stata nominata Presidente del Consiglio, divenendo la prima donna italiana a ricoprire questo ruolo ed è anche la più giovane esponente del nuovo esecutivo, un governo, che a dire il vero, sinora non è sembrato particolarmente interessato al bilanciamento tra i sessi.

La c.d. “rivoluzione rosa” alla Presidenza del Consiglio è iniziata con la nota polemica linguistica legata ad una circolare con cui si chiedeva di rivolgersi alla Meloni utilizzando la formula “il Signor Presidente del Consiglio”, poi rettificata mantenendo semplicemente il maschile e cioè “il Presidente del Consiglio”. La questione ha tenuto banco per diversi giorni sui quotidiani, così come tra gli esperti (e le esperte) di grammatica e linguaggio, mentre molti, tra cui la stessa Presidente, hanno cercato di minimizzare quanto avvenuto, sottolineando come la critica nascondesse in realtà un’inopportuna ideologia femminista delle opposizioni. Certamente la diatriba aveva anche ragioni politiche, tuttavia è al contempo evidente come, in questo caso, sia stata proprio la Presidente a favorire un utilizzo ideologico del linguaggio, poiché, se è pur vero che ognuno e ognuna può farsi chiamare come desidera, la lingua italiana è chiara e la declinazione femminile dei ruoli istituzionali è quella che rispetta la grammatica (come precisato dalla Treccani), mentre l’insistenza a farsi chiamare al maschile denota un posizionamento ideologico, come se solo la declinazione maschile fosse in grado di comunicare autorità e prestigio[1].

L’arrivo di una donna alla Presidenza del Consiglio dopo 74 anni di vita repubblicana rappresenta certamente un momento importante, ma è necessario riflettere se questo avvenimento dimostri il pieno compimento della cittadinanza politica femminile o se invece la strada non sia ancora incompiuta. Il punto di partenza per questa riflessione è l’articolo 24 dello Statuto Albertino, poi Carta fondamentale del nuovo Regno unito, che recitava: “Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche civili, e militari, salve le eccezioni determinate dalle Leggi”. Proprio sull’interpretazione di questa disposizione si fondava la celebre sentenza Mortara che respinse il ricorso del Procuratore del Re contrario all’iscrizione di dieci maestre marchigiane nelle liste elettorali dei rispettivi Comuni di residenza[2], visto che l’articolo 24 affermava l’eguaglianza dei “regnicoli” davanti alla legge attribuendo loro i diritti civili e “il nome di regnicoli comprende i cittadini dei due sessi”. Purtroppo, il ragionamento della Corte di Ancona si scontrò con l’interpretazione restrittiva (Sentenza n. 833 del 1906) della Corte di cassazione che riportò la questione nell’alveo della presunta normalità del tempo, cioè l’esclusione delle donne dalle liste elettorali e dalla vita politico-istituzionale del Paese[3]. Ad essere determinante per l’ingresso delle donne italiane nella vita pubblica fu la Seconda guerra mondiale e la data simbolo è giustamente il 2 giugno 1946: giornata di rinascita per gli uomini e le donne italiani, ma con una particolare connotazione femminile, perché le donne finalmente conquistano uno spazio da cui erano sempre state ingiustamente escluse.  

Dal 1946 al 2022 sono trascorsi tanti anni, e le donne italiane hanno cercato di conquistare effettivamente la cittadinanza politica; pronunce della Corte costituzionale, così come interventi normativi, hanno segnato questo cammino e ha senso domandarsi se oggi esso sia compiuto[4]. I dati relativi alle ultime elezioni politiche (2022) evidenziano come la rappresentanza femminile sia in calo per la prima volta del 1996 e, in quasi tutti i gruppi parlamentari, gli uomini siano in maggioranza rispetto alle donne[5]. In verità il ragionamento politico è ancor più articolato se si pensa che le donne che riescono ad emergere a livello politico-istituzionale sono, nella maggioranza dei casi, donne conservatrici, donne cioè che preferiscono prendere le distanze dal connotato di genere e dalle battaglie femministe, gestendo il potere al maschile.

Se da un lato l’effetto simbolico della prima donna alla Presidenza del Consiglio, è certamente di grande impatto, così come il fatto che la segreteria del principale partito di opposizione sia stata conquistata da un’altra giovane donna, dall’altro, non sembra che si sia affermato un modello diverso di gestione del potere, e forse proprio per questo le donne progressiste risultano meno credibili rispetto a quelle conservatrici, poiché, ancora oggi, l’unico modello di potere vincente è quello maschile (se non maschilista), cioè un modello portatore di “valori tradizionali” assai spesso patriarcali.  

Donne leader di partito, donne ai vertici delle cariche istituzionali, non significa dunque necessariamente politiche women friendly, e nemmeno elaborazione di una cultura politica volta a valorizzare l’elemento femminile. Manca ancora un modello culturale politico femminile: questo non significa sostenere l’esistenza di una politica maschile e di una femminile, ma semplicemente sottolineare che ciò che fino ad oggi si è ritenuto un modello politico “neutro” in realtà è stato e continua ad essere elaborato e condotto solo da uomini (o da chi si finge uomo). Rompere lo stereotipo della politica al maschile significa essere capaci di pensare un modello alternativo, capace anche di valorizzare i talenti e le competenze femminili troppo a lungo ignorati.

Insomma, mi pare che la frase “c’è ancora domani”, risulti adeguata rispetto all’affermazione di una reale cittadinanza politica femminile.

Auguriamoci solo che questo domani non sia troppo distante dal nostro oggi.


[1] Sull’uso sessista della lingua cfr. A. Sabatini, Il sessismo nella lingua italiana, per la Presidenza del Consiglio dei Ministri e Commissione Nazionale per la Parità e le Pari Opportunità tra uomo e donna, Roma, 1987.

[2] Sulla vicenda delle maestre marchigiane cfr. M. Severini, Dieci donne. Storia delle prime elettrici italiane, Macerata, 2012.

[3] Cfr. Corte di cassazione, 15 dicembre 1906, n. 883, in Giurisprudenza Italiana, 1907, III, 1 ss.

[4] Solo per citare alcuni passaggi essenziali dell’emancipazione politica femminile si ricordano le Sentenze della Corte costituzionale n. 33 del 1960 e n. 422 del 1995. Ed anche le Leggi n. 66 del 1963; n. 81 e n. 277 del 1993 e la Legge costituzionale n. 1 del 2003.

[5] Soprattutto le pluricandidature hanno influito negativamente sulla presenza femminile in Parlamento. Si tratta della possibilità per il candidato o candidata di presentarsi in massimo cinque collegi plurinominali e in un collegio uninominale. Il problema sorge quando ad usufruire di più candidature è una donna che gareggia sia per l’uninominale che come capolista in più di un collegio: così, se viene eletta nell’uninominale, nelle altre posizioni proporzionali in cui era stata candidata entreranno i secondi in lista che, per rispetto all’alternanza di genere, devono essere obbligatoriamente uomini, vanificando (o aggirando) l’intento paritario della normativa.

*Professoressa associata di Istituzioni di Diritto Pubblico e Diritto delle Pari Opportunità, Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali – Università di Bologna.

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