L’omicidio di Giulia Cecchettin ha portato il femminicidio al centro del dibattito pubblico. In Italia i dati sono molto preoccupanti: si contano circa 150 femminicidi all’anno.
Sul tema negli ultimi anni il legislatore è intervenuto a più riprese. Si può ricordare la l. n. 69/2009 (c.d. codice rosso), che ha introdotto nuove figure di reato e inasprito la pena di reati preesistenti; la legge di riforma del processo penale, n. 134 del 2021, che ha ampliato le tutele per le vittime di violenza domestica e di genere; e la legge n. 122 del 2023, che interviene sulla procedura da seguire nei procedimenti per delitti di violenza domestica e di genere. L’orribile delitto di Vigonovo ha però fortemente scosso le coscienze e spinge a riflettere circa la sufficienza e l’adeguatezza degli interventi fino ad ora realizzati.
È necessario un nuovo intervento del legislatore? Se sì, quali misure bisognerebbe introdurre?
Non ritengo che il femminicio di Giulia Cecchettin metta in evidenza carenze normative e dunque l’esigenza prioritaria di riforme legislative.
Tale prospettiva è confermata dal report sullo stato dell’attuazione della Convenzione di Istanbul in Italia, redatto da parte della Commissione GREVIO, datato 2020 (sinora l’unico nei confronti del nostro paese). La Commissione infatti esprime apprezzamento, nel complesso, per il tessuto normativo italiano, definito addirittura in taluni aspetti “solido”; vengono inoltre messi in luce alcuni miglioramenti, già avvenuti, e viene riscontrata qualche criticità, anche molto grave, ma circoscritta, cui il legislatore nazionale ha già cercato di fare fronte da allora.
Tra gli interventi successivi al 2020, merita di essere segnalata la modifica al codice di procedura civile ad opera del d.lgs. n. 149 del 2022, che ha portato all’introduzione, nel Capo III del Titolo IV bis (Norme per il procedimento in materia di persone, minorenni e famiglie), di una nuova sezione, intitolata Della violenza domestica o di genere. Viene così regolato con norme ad hoc il giudizio di separazione o scioglimento del matrimonio, in cui una delle parti alleghi di essere vittima di violenza agita dal partner o dall’ex partner, o alleghi che il figlio minore abbia assistito alla violenza suddetta.
Questa modifica è molto importante: troppo spesso la vittima è, ancora oggi, chiamata a dover affrontare un nuovo tipo di violenza, che viene agita, dopo la domanda di separazione, attraverso il personale coinvolto nel giudizio, privo di una formazione adeguata per arginare adeguatamente le domande del coniuge violento, strumentali a tenere la vittima sotto il suo controllo.
Il tentativo di conciliazione, l’intervento del mediatore, l’assunzione di prove, la disposizione di consulenze tecniche d’ufficio, volte a verificare le capacità genitoriali della madre vittima di violenza, sono potenziali veicoli di nuova violenza, su cui la riforma ha tentato di intervenire. Le misure introdotte nella sezione del codice di procedura civile mirano infatti ad evitare un secondo fronte di violenza verso la donna in occasione di quei momenti.
Le conseguenze di questo fenomeno, definito vittimizzazione secondaria, sono sempre gravi e colpiscono anche i minori che assistono alla violenza o la subiscono: per farvi fronte, le nuove norme richiedono ad esempio che i consulenti tecnici d’ufficio siano scelti tra quelli competenti in ambito di violenza di genere o che il giudice, quando dispone indagini a cura dei servizi sociali, indichi nel provvedimento le allegazioni di abusi o violenze e le misure necessarie per tutelare la vittima e i minori.
Ancora, merita di essere citata la Legge 5 maggio 2022, n. 53 (Disposizioni in materia di statistiche in tema di violenza di genere), che ha introdotto, sempre su spinta della commissione Grevio, una disciplina sulla raccolta di dati e informazioni sulla violenza di genere, coinvolgendo l’ISTAT, ad esempio, nonché le strutture sanitarie pubbliche, e richiedendo l’acquisizione di dati da parte di forze dell’ordine e uffici giudiziari, previa adozione di regolamenti ministeriali ad hoc: misurare il fenomeno della violenza, come noto in larga parte sommerso, è ineludibile, per comprendere dove e come agire attraverso, tra le altre cose, le politiche sociali di prevenzione e protezione.
Fermo restando che, nonostante i passi in avanti, la legislazione italiana è tutt’ora perfettibile, per imprimere un cambio di marcia nel contrasto alla violenza di genere pare importante convogliare le energie su altri fronti, che, in modo integrato, consentano di attuare in modo effettivo il quadro legislativo.
Abbiamo già visto che gli operatori coinvolti nella tutela della donna sono influenzati, come sempre accade, dal contesto sociale e culturale, riflettendo gli stereotipi diffusi nella società. Più in particolare, il problema si pone perché non solo il contrasto alla violenza, ma anche il suo riconoscimento da parte delle autorità preposte a proteggere la vittima è ostacolato dalla cultura di cui siamo impregnati (es. forze dell’ordine che sminuiscono i fatti, riportandoli alla cornice del conflitto tra partner, giungendo in taluni casi a suggerire alla coppia di rappacificarsi).
Allo stesso tempo, l’uomo che agisce violenza nei confronti della donna può fare leva sulla diffusa accondiscendenza nei suoi confronti, sulla frequente dipendenza economica della donna, sul senso di colpa in essa indotto dal contesto sociale o familiare, per la scelta di interrompere la relazione violenta o denunciare i fatti, sul rischio che eventuali figli vengano, in ragione di una diffusa colpevolizzazione della donna e di nuovo della trasversale difficoltà a riconoscere la violenza, affidati al padre violento o collocati presso enti.
Fermo restando che notevoli passi avanti si sono registrati, specie nella giurisprudenza della Cassazione (cfr. da ultimo e a titolo di esempio le sentenze n. 12066 del 2023 e n. 14247 del 2023), occorre quindi lavorare sulle conoscenze degli interpreti, chiamati ad applicare un tessuto normativo avanzato, nonchè di tutte le autorità e figure professionali chiamate a intervenire: avvocati, psicologi, assistenti sociali, per esempio. Ecco perchè sono prioritari programmi di formazione obbligatori e con capillare diffusione sul territorio nazionale.
Inoltre, è ineludibile assicurare un finanziamento stabile agli enti pubblici e ai centri antiviolenza privati, che da decenni si occupano di accogliere, sostenere e accompagnare la vittima (e l’eventuale prole) nel percorso verso l’uscita dalla violenza. I progetti dei centri antiviolenza privati e le politiche sociale degli enti pubblici sono costruiti al fine di sostenere su tutti i fronti la vittima e renderla indipendente dall’uomo maltrattante: non possono essere interrotti perché e quando finiscono i fondi, ma devono essere offerti in modo continuativo. Stesso discorso deve valere per i complessi percorsi trattamentali volti a dotare l’uomo maltrattante di un “corrimano”, per non commettere recidiva.
La morte di Giulia Cecchettin, in conclusione, ha portato alla ribalta del dibattito dell’opinione pubblica il seguente e cruciale interrogativo: se esista un legame tra violenza di genere e persistente subalternità del genere femminile rispetto a quello maschile all’interno della società.
La sorella di Giulia ha fatto riferimento al “patriarcato” come causa del fenomeno, mettendo in luce su larga scala che la violenza di genere è endemica alla nostra società e suscitando proprio per questo polemiche e dissensi.
Al di là dell’incidenza di problemi di natura psichiatrica, che gli addetti ai lavori negano, è emerso che non siamo attrezzati e che, un po’ come durante la pandemia, il tema della violenza di genere, di cui il femminicidio costituisce la forma più grave ed efferata, non è una emergenza, ma una urgenza.
Da qui l’ultimo fronte su cui occorre agire prioritariamente: la violenza di genere essere trattata anche attraverso la prevenzione, mediante l’educazione scolastica e universitaria alla parità di genere, proprio per mettere in condizione le giovani generazioni di riconoscere la violenza, i suoi fattori di rischio, nonché avere gli strumenti per chiedere e dare aiuto.
Lo sforzo attraverso l’educazione e la formazione professionale verrebbe vanificato se isolato nell’ambito scolastico e universitario: se i mass media, i social e la comunicazione istituzionale dovessero continuare a collocare la donna su un piano inferiore al genere maschile, un cambiamento sarebbe utopistico.
Non si deve quindi tornare a discutere di questo grave fenomeno in modo discontinuo e solo sull’onda di fatti di cronaca particolarmente devastanti e gravi.
Le energie, che occorre mettere in campo sono quindi prevalentemente altre rispetto alla legislazione, e partono dalla consapevolezza che il cammino per l’attuazione della parità di genere è ancora lungo.