Uno sguardo sul d.d.l. n. 2528 del 2025: in particolare, il nuovo delitto di femminicidio

*SOFIA BRASCHI

1. Introduzione

La Commissione Giustizia della Camera sta esaminando il d.d.l. n. 2528 del 2025, recante “Introduzione del delitto di femminicidio e altri interventi normativi per il contrasto alla violenza nei confronti delle donne e per la tutela delle vittime”. Il provvedimento, approvato all’unanimità dal Senato lo scorso 23 luglio, costituisce l’esito della convergenza di maggioranza e opposizione su un testo che ha in parte modificato la proposta di legge originariamente presentata dal Governo.

Secondo le parole dei proponenti, la legge risponde all’intento di contrastare «il fenomeno di drammatica attualità delle condotte e manifestazioni di prevaricazione e violenza commesse nei confronti delle donne»; a questo fine, prevede alcune innovazioni sul piano del diritto sia sostanziale che processuale[1]. Le prime essenzialmente consistono nell’introduzione del reato di femminicidio e di quattro circostanze aggravanti speciali, che nella loro formulazione ricalcano la nuova fattispecie di cui all’art. 577-bis c.p. e sono applicabili ai delitti di maltrattamenti, lesioni, interruzione di gravidanza non consensuale e violenza sessuale[2]. Fra le seconde si possono invece ricordare il rafforzamento dei diritti di informazione della vittima nei procedimenti per reati tipicamente espressione di violenza domestica e di genere e l’introduzione, per le fattispecie più gravi, di una presunzione di adeguatezza delle misure cautelari custodiali.

La novità che fuori dal Parlamento ha suscitato maggiore dibattito è rappresentata dall’introduzione della fattispecie di femminicidio. Mentre, infatti, alcuni studiosi e operatori si sono espressi favorevolmente, evidenziando la capacità dell’incriminazione di riconoscere la «strutturale, diffusa, interiorizzata e normalizzata discriminazione e subordinazione» delle donne, poste alla base della loro uccisione[3], altri hanno invece criticato la scelta di «differenziare i generi in modo discriminatorio», arrivando persino a prospettare possibili rilievi di legittimità costituzionale[4]. A fronte di una simile divisione, è sul fondamento politico-criminale e sull’ambito di applicazione del nuovo reato che conviene incentrare questa breve riflessione.

2. Il fondamento politico-criminale del nuovo art. 577-bis c.p.

Il nuovo art. 577-bis c.p. al co. 1 punisce con la pena dell’ergastolo «chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di odio o di discriminazione o di prevaricazione o come atto di controllo o possesso o dominio in quanto donna, o in relazione al rifiuto della donna di instaurare o mantenere un rapporto affettivo o come atto di limitazione delle sue libertà individuali». Al co. 2 dispone l’applicabilità delle circostanze aggravanti di cui agli artt. 576 e 577 c.p.; ai co. 3 e 4 prevede una deroga all’art. 69 c.p., fissando in ventiquattro e quindici anni la pena minima nei casi di prevalenza rispettivamente di una o più circostanze attenuanti.

Per ricostruire il fondamento politico-criminale dell’incriminazione conviene partire dalla relazione di accompagnamento al d.d.l., la quale motiva l’introduzione del reato di femminicidio con «l’estrema urgenza criminologica del fenomeno» e il suo peculiare disvalore: secondo il Governo, tali elementi consentirebbero invero di giustificare la sottoposizione delle condotte in esame a un trattamento più severo di quello previsto per le comuni ipotesi di omicidio.

Concentrando l’attenzione sul primo rilievo, a esso si è criticamente opposto il numero esiguo delle vittime di questa estrema forma di violenza, che, soprattutto ove posto in comparazione con quello proprio dei paesi che hanno storicamente sperimentato il ricorso ad apposite previsioni volte a sanzionare il femminicidio, rivelerebbe la mancanza di una valida giustificazione dell’incriminazione[5]. Sotto altro profilo, non si è poi mancato di evidenziare che, in seguito soprattutto alla scelta della l. 19 luglio 2019, n. 69, c.d. Codice rosso, di “blindare” le circostanze aggravanti speciali correlate all’esistenza di una relazione fra la vittima e l’autore (art. 577 co. 1 n. 1 e co. 2 c.p.), la maggior parte dei femminicidi verrebbe già di fatto assoggettata alla pena dell’ergastolo, così emergendo la natura essenzialmente simbolica della nuova previsione[6].

Rimandando al prossimo paragrafo l’individuazione della effettiva portata innovativa dell’art. 577-bis c.p., si può adesso osservare che la prima obiezione non coglie pienamente nel segno: anche a non voler considerare che i femminicidi corrispondono a una percentuale significativa della quota complessiva degli omicidi realizzati nel nostro Paese, è noto che il fenomeno di cui parliamo manifesta una particolare resilienza, essendo stato solo limitatamente toccato dalla generale decrescita che ha interessato le morti violente[7]. Da tale angolazione, la scelta di introdurre un’apposita incriminazione volta a dare visibilità agli omicidi animati da ragioni di genere potrebbe risultare tutt’altro che priva di legittimazione. È, infatti, sì vero che rispetto a questa tipologia di condotte la previsione di incrementi sanzionatori esibisce una assai limitata efficacia deterrente; tuttavia, non si può dimenticare che il diritto penale assolve anche a una funzione di orientamento culturale, che risulta particolarmente preziosa proprio laddove si tratti di reati fondati su norme diffuse a livello sociale. 

Un discorso un po’ più articolato, invece, s’impone con riferimento alla scelta del legislatore di comminare la pena dell’ergastolo. Da un lato, infatti, l’introduzione di una norma in grado di intercettare le ipotesi di violenza domestica meritevoli di maggior riprovazione potrebbe rimediare al difetto di ragionevolezza dell’art. 577 co. 3 c.p., che, finalizzato ad assicurare l’effettivo assoggettamento a una pena più severa degli omicidi animati da motivi di genere, commessi in danno di persona legata da una relazione pregressa o attuale, risultava però suscettibile di trovare applicazione anche «a fatti eterogenei rispetto a quelli presi di mira dal legislatore»[8]. Dall’altro lato, però, non si può trascurare che la previsione della pena dell’ergastolo contrasta con l’esigenza, più volte riconosciuta dalla Corte costituzionale, di assicurare l’individualizzazione del trattamento sanzionatorio, consentendo al giudice di graduare la pena in relazione al disvalore oggettivo e soggettivo del fatto concretamente realizzato. Se, infatti, una simile esigenza può teoricamente trovare soddisfazione grazie all’applicazione delle circostanze attenuanti, è anche vero però che i commi 3 e 4 del nuovo articolo 577-bis c.p. impongono di limitare l’effetto derivante dall’eventuale integrazione di una circostanza[9]. In definitiva, bisogna riconoscere che la nuova incriminazione determina un irrigidimento della risposta sanzionatoria, che si pone in tensione col principio di proporzione.

Riassumendo, la scelta di dare particolare visibilità al fenomeno del femminicidio punendolo con una specifica incriminazione può giustificarsi alla luce della necessità di promuovere un cambiamento culturale; assai poco convincente, invece, è l’idea di ricorrere ad automatismi volti ad assicurare l’effettiva sottoposizione di queste condotte alla pena dell’ergastolo. Ciò chiarito a livello generale, per esprimere un giudizio definitivo sull’opportunità dell’intervento del legislatore non si può prescindere dall’analisi della formulazione del nuovo reato e dalla considerazione del relativo disvalore: guardiamo quindi brevemente agli elementi costitutivi dell’art. 577-bis c.p.

3. L’ambito di applicazione del nuovo art. 577-bis c.p.

L’art. 577-bis c.p. configura un’ipotesi speciale di omicidio, i cui elementi specializzanti consistono, oltre che nel genere femminile del soggetto passivo, nelle motivazioni della condotta omicida, qualificata «come atto di odio o di discriminazione o di prevaricazione», ovvero «di controllo o possesso o dominio in quanto donna», nonché nell’essere la stessa commessa «in relazione al rifiuto della donna di instaurare o mantenere un rapporto affettivo o come atto di limitazione delle sue libertà individuali».

Mentre, dunque, sul versante attivo, a differenza di quanto previsto da altre legislazioni[10], l’art. 577-bis c.p. non contiene limitazioni, su quello passivo la sua applicazione va circoscritta ai fatti commessi in danno di persone dotate dei caratteri sessuali femminili, eventualmente in seguito a un intervento di rettificazione. 

Fatta questa precisazione, volendo mettere a fuoco la capacità innovativa della previsione, si può anzitutto affermare che la nuova norma consente di sanzionare più severamente i femminicidi che hanno una matrice misogina, così sopperendo alla mancata estensione della circostanza aggravante di cui all’art. 604-ter c.p. ai fatti commessi per finalità di odio o discriminazione per motivi fondati sull’identità di genere. Al riguardo, occorre peraltro ricordare che l’art. 11 lett. p) della Direttiva 1385/2024 impone agli Stati di considerare come circostanza aggravante la finalizzazione del reato «a punire la vittima», fra l’altro, per l’orientamento sessuale e il genere: stando così le cose, il d.d.l. in esame avrebbe potuto rappresentare l’occasione per una più ampia riflessione sulle norme del codice penale poste a tutela del principio della pari dignità sociale (artt. 604-bis e 604-ter c.p.), che il nostro legislatore è attualmente chiamato a modificare.

Una chiara proiezione verso fatti di violenza domestica sembra invece connotare i restanti elementi utilizzati per tipizzare il femminicidio. Il rilievo vale, in particolare, per il riferimento alle finalità di “controllo”, “possesso” e “dominio”, nonché “limitazione delle libertà individuali”, ovvero ancora alla correlazione del fatto con il rifiuto della donna di mantenere un rapporto affettivo; rispetto a questi casi, tendenzialmente destinati a ricadere già entro l’ambito di applicazione delle circostanze aggravanti di cui all’art. 577 co.1 n. 1 e co. 2 c.p. e del divieto di bilanciamento stabilito dal già ricordato art. 577 co. 3 c.p., l’introduzione dell’art. 577-bis c.p. avrà un valore essenzialmente simbolico[11]. Un discorso non dissimile vale per le ipotesi di femminicidio che originano dal rifiuto di intraprendere una relazione: benché non riconducibili entro l’ambito applicativo delle disposizioni appena rammentate, sul piano empirico simili forme di violenza tendono a essere precedute dalla commissione del delitto di atti persecutori, potendo perciò già determinare l’irrogazione dell’ergastolo ai sensi dell’art. 576 n. 5.1 c.p. 

In definitiva, sul piano pratico la principale innovazione derivante dall’introduzione dell’art. 577-bis c.p. consisterà nell’aggravamento della pena attualmente prevista per i femminicidi di matrice misogina: trova dunque conferma la natura essenzialmente simbolica della previsione.

Così brevemente ricostruito il perimetro operativo del nuovo art. 577-bis c.p., prima di concludere questa breve riflessione è opportuno evidenziare che la disposizione si pone in tensione con alcuni principi garantistici fondamentali. In aggiunta a quanto rilevato nel paragrafo che precede, occorre invero sottolineare che essa non soddisfa a pieno le esigenze di conoscibilità del precetto penale inerenti al principio di precisione; particolarmente delicata, sotto il profilo in esame, è la possibilità di qualificare un atto come forma di “dominio” sulla persona in virtù del suo “essere donna” o di “limitazione delle libertà individuali”. Entrambe queste locuzioni, se intese in maniera pregnante finiscono di fatto per ricadere all’interno della finalità di discriminazione; se intese in maniera meno intensa, invece, risultano prive di qualsiasi capacità di selezione. Sotto altro profilo, non si può poi fare a meno di osservare che la disposizione individua il disvalore del femminicidio essenzialmente sul piano soggettivo, del movente perseguito dall’autore: senonché, anche trascurando che la psicologizzazione del fenomeno insita in una simile operazione risulta poco coerente con il senso della tematizzazione della violenza contro le donne come violenza di genere, è indubbio che una simile impostazione risulta di difficile verificabilità processuale e reca un vulnus al principio di colpevolezza.

4. Conclusioni

All’esito dell’analisi del d.d.l. n. 2528/2025 si può concludere che trasfondere la realtà del femminicidio all’interno di una fattispecie penale è operazione tutt’altro che agevole e perciò facilmente destinata a naufragare[12]. D’altra parte, il concetto di femminicidio è nato per mettere in luce come la violenza nei confronti delle donne, lungi dall’essere un fatto isolato e occasionale, costituisce invece un fenomeno radicato sul piano sociale; in un sistema liberale, però, il diritto penale deve giudicare i fatti di reato nella loro individualità, assumendo la colpevolezza dell’autore come argine invalicabile alle esigenze di generalprevenzione. Per tale ragione, è anzitutto alla politica che spetta attivarsi per rimuovere i fattori di ordine economico, culturale e istituzionale che concorrono a determinare la violenza nei confronti delle donne; dal diritto penale è possibile aspettarsi solamente una assai limitata capacità di prevenzione. 

Poche speranze devono dunque essere riposte sul d.d.l. attualmente in discussione, che contiene pressoché esclusivamente misure di politica criminale; al contempo, deve essere motivo di preoccupazione la circostanza che il nuovo art. 577-bisc.p. si ponga in tensione coi principi di legalità, colpevolezza e proporzione. È chiaro, infatti, che da tale angolazione la norma determina un’involuzione del nostro diritto penale, capace di fomentare atteggiamenti di ostilità nei confronti delle misure di contrasto alla violenza di genere contro le donne; in ogni caso, essa mette in ombra la realizzazione degli obiettivi di giustizia sociale che sono alla base della stessa elaborazione del concetto di femminicidio. 


[1] Atti Parlamentari – Senato della Repubblica, n. 1433, p. 3.

[2] In aggiunta a quanto riportato nel testo, si segnala che il d.d.l. estende l’ambito di applicazione del reato di maltrattamenti alle condotte realizzate da persona «non più convivente nel caso in cui l’agente e la vittima siano legati da vincoli nascenti dalla filiazione», così recependo un orientamento diffuso in giurisprudenza, e prevede l’applicazione per questo reato della confisca obbligatoria dei beni strumentali: vd. Atti Parlamentari – Camera dei deputati, n. 2558, art. 1.

[3] P. Di Nicola Travaglini, Il femminicidio esiste ed è un delitto di potere, in Sist. pen., 2025, 5, p. 27; in dottrina, in favore della previsione C. Pecorella, Perché può essere utile una fattispecie di femminicidioivi, 2 giugno 2025; in un’analoga prospettiva A. Massaro, Riflessioni sul disegno di legge in materia di femminicidioivi, 25 giugno 2025. 

[4] M. Donini, Perché non introdurre un reato di femminicidio che c’è già, in Sit. pen., 18 marzo 2025; in senso critico, con diversità di sfumature, G. Fiandaca, Cari prof. di diritto penale, è ora di protestare contro il delitto di femminicidioivi, 11 marzo 2025; M. Pelissero, Il disegno di legge sul femminicidio: una proposta di puro populismo penale che distoglie dalle vere questioni culturali di genere, in Dir. pen. proc., 2025, p. 557 ss.; nonché Il reato di femminicidio presentato dal Governo: le ragioni della nostra contrarietà, in documento sottoscritto da oltre settanta studiose di diritto penale, in Sist. pen., 28 maggio 2025. Preoccupazioni relative alla tenuta costituzionale della previsione sono state espresse anche dall’Associazione Nazionale Magistrati (vd. i Pareri resi il 15 maggio e il 14 ottobre 2025).

[5] Così M. Donini, Perché non introdurre un reato di femminicidio, cit.; per approfondimenti sui paesi che hanno introdotto fattispecie precipuamente volte a sanzionare il femminicidio, con particolare riferimento al continente sudamericano, E. Corn, Il femminicidio come fattispecie penale. Storia, comparazione, prospettive, Editoriale Scientifica, 2017, p. 113 ss.

[6] C. Pasini, Il nuovo delitto di femminicidio: alcune riflessioni sulla proposta di legge alla luce di un’indagine empirica sulla recente giurisprudenza della Corte d’Assise di Milano, in Sist. pen., 2025, 10, p. 110 ss., la quale peraltro non prende posizione in ordine all’opportunità del ricorso a scopo simbolico all’incriminazione.

[7] La sede non consente di approfondire la questione; sul punto, ci limitiamo quindi a osservare che il numero delle donne uccise da partner o ex partner ha subito nel tempo variazioni assai minori di quello corrispondente al totale delle vittime di omicidio (passando da 72 nel 2004 a 81 nel 2014 e a 59 del 2024, contro le 711 vittime di omicidio nel 2004, 476 nel 2014 e 300 nel 2024 ): cfr. i dati riportati da ISTAT, Vittime di omicidio secondo la relazione con l’omicida – Anni 2003-2023 e quelli raccolti dal Servizio Analisi Criminale, Omicidi volontari, p. 2 del documento pubblicato il 23 dicembre 2024. Sul tema vd. già A. Ceretti-R. Cornelli, Omicidi e uccisioni violente nel mondo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2016, p. 1238 ss.

[8] Corte cost., 10 ottobre 2023, n. 197, che ha dichiarato illegittimo l’art. 577 co. 3 c.p. «nella parte in cui vieta al giudice di ritenere prevalenti le circostanze attenuanti di cui agli artt. 62, primo comma, numero 2), e 62-bis c.p.».

[9] Particolarmente problematico dal punto di vista del principio di proporzione è il trattamento riservato ai casi di concorrenza di una circostanza attenuante, per i quali, stante il combinato disposto degli artt. 577-bis co. 3 e 23 c.p., troverà applicazione la pena fissa di ventiquattro anni di reclusione.

[10] Si guardi nella prospettiva in esame agli artt. 390-bis e 390-ter del codice penale cileno; per maggiori dettagli, e per alcuni approfondimenti relativi alle problematiche inerenti all’identificazione dei soggetti attivi e passivi del femminicidio, A. Perin, Giustizia egualitaria e cultura della colpevolezza: la sanzione del «motivo di genere» nel diritto penale cileno, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2022, 3, p. 34 ss. Nel nostro ordinamento, la mancata tipizzazione del soggetto attivo e l’ampiezza delle nozioni impiegate per individuare il movente dell’autore potranno far dubitare dell’applicabilità del nuovo art. 577-bis c.p. alle aggressioni realizzate da donne e persone transgender.

[11] Un effettivo aumento di pena dovrebbe invero interessare solamente i fatti realizzati in danno dell’ex partner, oggi assoggettati alla sanzione della reclusione da ventiquattro a trent’anni, e quelli per i quali non dovrebbe poter più operare il divieto di bilanciamento di cui all’art. 577 co. 3 c.p.

[12] Sul punto da ult. R. De Paolis, Le asimmetrie nelle asimmetrie. Profili penali delle diseguaglianze di genere negli squilibri di potere, Giappichelli, 2025, p. 129 ss.; in questo senso già E. Corn, Il femminicidio, cit., p. 229.

*Ricercatrice in Diritto penale presso l’Università di Pavia

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