Corpi ibridi, tempi dissonanti: il social freezing tra autonomia cyborg e ritardo strutturale

Stefania Doglioli*




1. Introduzione: la soluzione individuale a un problema collettivo
Recentemente, diverse Aziende Sanitarie Locali (ASL) in Italia, con la Puglia in prima linea, hanno iniziato a offrire contributi economici per la crioconservazione degli ovociti per motivi non medici, una pratica nota come social freezing. Questa iniziativa, che mira a rendere la tecnologia più accessibile a donne con un ISEE inferiore a 30.000 euro, ha riacceso un dibattito complesso che va ben oltre la mera dimensione sanitaria. Il social freezing non è semplicemente una nuova opzione medica, ma un potente sintomo sociale. Esso rappresenta una soluzione tecnologica, individuale e medicalizzata, applicata a un problema che è invece collettivo e strutturale: la profonda dissonanza temporale tra la velocità con cui le donne hanno conquistato lo spazio pubblico e la cronica lentezza con cui la cultura, il welfare e il mercato del lavoro si adattano a questa trasformazione. Questa dinamica solleva un’importante questione, che questa analisi intende esplorare: se la tecnologia, presentata come strumento di liberazione, non rischi di asseverare e rinforzare, anziché risolvere, le disuguaglianze strutturali esistenti o se esistano altre variabili intervenienti capaci di darci chiavi di lettura originali e meritevoli di approfondimento.

2. Il corpo obsoleto e il doppio gap temporale
Per comprendere la portata del social freezing, trovo interessante inquadrarlo in una cornice teorica che metta in relazione biologia, tecnologia ed evoluzione sociale. Credo infatti che la scelta di crioconservare i propri ovociti emerga all’intersezione di due profondi scarti temporali che definiscono la condizione femminile nella tarda modernità.
L’artista e teorico della performance Stelarc negli anni ’90 ha introdotto il concetto di “corpo obsoleto” per descrivere l’inadeguatezza del corpo biologico umano rispetto all’ambiente tecnologico e informativo che esso stesso ha creato. Secondo Stelarc, il corpo, nella sua configurazione evolutiva, è troppo lento, fragile e limitato per le velocità e le complessità del mondo contemporaneo. Di fronte a macchine più precise, potenti e durevoli, il corpo deve essere riprogettato, aumentato e integrato con la tecnologia per superare la propria obsolescenza biologica.
Questa prospettiva offre una chiave di lettura potente se applicata al corpo femminile nel capitalismo contemporaneo. L’orologio biologico, ovvero il declino della fertilità che si intensifica significativamente dopo i 35 anni, rende di fatto il corpo femminile obsoleto all’interno di un sistema socio-economico che esige il massimo investimento formativo e professionale proprio durante gli anni di picco della fertilità. La temporalità biologica della riproduzione femminile è strutturalmente incompatibile con la temporalità lineare e ininterrotta richiesta dai percorsi di carriera, modellati su un paradigma maschile e privo di responsabilità di cura. In questo contesto, il social freezing emerge come una protesi tecnologica: un intervento che non attende i tempi lenti dell’evoluzione biologica, ma riprogetta la timeline riproduttiva del corpo per renderla compatibile con le esigenze della macchina professionale.
La donna che oggi considera il social freezing si trova al crocevia di un doppio gap, una duplice dissonanza temporale.

Il primo gap, teorizzato da Stelarc, è quello tra la lenta evoluzione biologica e la rapidissima evoluzione tecnologica. La tecnologia offre soluzioni immediate a limiti che la biologia supererebbe, forse, solo in tempi evolutivi.

Il secondo gap, di natura socio-culturale, è quello tra la rapida avanzata delle donne nello spazio pubblico (istruzione, lavoro, politica) e la stagnazione di una cultura sessista e di strutture organizzative rigide, pensate da uomini per uomini.
Le donne, all’interno del nostro attuale sistema, vivono la pressione congiunta di una biologia non sincronizzata con le esigenze professionali e di un ruolo sociale non supportato da adeguate infrastrutture culturali e di welfare. La tecnologia, offrendo un sostegno a una cultura apparentemente lenta e inadeguata, se immutata, rischia di diventare un alibi per l’inazione. Fornendo una via di fuga individuale e tecnologica, il social freezing attenua la pressione collettiva su istituzioni, aziende e partner maschili affinché intraprendano il difficile ma necessario percorso di cambiamento strutturale. La soluzione tecnologica, pensata per risolvere un problema, rischia così di perpetuarlo, alleviandone i sintomi più acuti per una minoranza privilegiata.
Per evitare una narrazione semplicistica che dipinge le donne come vittime passive di questo sistema, è utile ricorrere al Manifesto Cyborg di Donna Haraway. Il cyborg è una creatura ibrida di organismo e macchina, una figura che trasgredisce i confini tradizionali tra natura e cultura, umano e tecnologico. La donna che sceglie il social freezing è una perfetta cyborg harawayana. È una fusione di:
● Organismo: i suoi ovociti, il suo sistema endocrino, il suo corpo sottoposto a stimolazione ormonale.
● Macchina: la tecnologia di vitrificazione, i farmaci, le sonde ecografiche, i laboratori di crioconservazione.
● Informazione: il potenziale genetico, le statistiche di successo, i dati della riserva ovarica.

Questa donna vive sul confine labile tra il suo corpo naturale e le esigenze culturali del lavoro e della società. Haraway ci insegna che il cyborg, pur essendo “la prole illegittima del militarismo e del capitalismo patriarcale”, è anche “estremamente infedele alle sue origini”. Utilizza gli strumenti del padrone per ritagliarsi uno spazio di autonomia, per quanto parziale e condizionato. La donna-cyborg non è una vittima da demonizzare, né un’eroina dell’empowerment da celebrare acriticamente. È un’agente che naviga in un sistema contraddittorio, usando la tecnologia come una Medusa moderna: una figura ctonia, radicata nella materialità del corpo e della terra, che usa uno sguardo tecnologico per non restare pietrificata dalle strutture patriarcali.

3. Le ragioni del congelamento: un’analisi intersezionale delle motivazioni

L’analisi delle ragioni che spingono le donne verso il social freezing rivela come quelle che vengono definite scelte personali o sociali siano, in realtà, la diretta conseguenza di fallimenti sistemici. Un approccio intersezionale è cruciale per comprendere come classe, istruzione e norme di genere modellino la scelta.

Gli studi sociologici e le indagini di settore sono concordi nell’identificare un nucleo ricorrente di motivazioni. Le principali sono:

L’assenza di un partner stabile: Questa è costantemente indicata come la ragione primaria per cui le donne ricorrono alla crioconservazione degli ovociti.

La ricerca di stabilità professionale ed economica: La necessità di posticipare la maternità a una fase della vita percepita come più sicura e tranquilla è un fattore determinante.

Le pressioni della carriera: L’inconciliabilità tra le tappe di un percorso professionale ambizioso e la finestra fertile biologica spinge molte a “mettere in pausa” la riproduzione.

La mancanza di un sistema di supporto adeguato: L’assenza di un welfare statale, comunitario o familiare robusto che possa sostenere la genitorialità in età più giovane.

Inquadrare queste motivazioni come puramente personali è un errore analitico e politico. Esse sono il prodotto di precise condizioni strutturali.

La mancanza di un partner, ad esempio, non è un semplice problema individuale di sfortuna sentimentale. Ricerche specifiche hanno collegato questo fenomeno al reversed gender gap in education (il divario di genere invertito nell’istruzione). Le donne altamente istruite, che costituiscono il principale gruppo di utenti del social freezing, si confrontano con un bacino più ristretto di partner che soddisfano le aspettative sociali tradizionali (ad esempio, essere ugualmente o più istruiti e con un reddito simile o superiore). Il successo educativo e professionale delle donne si scontra con la persistenza di norme patriarcali nella formazione delle coppie, creando un dilemma strutturale, non personale.

Allo stesso modo, il social freezing si rivela una tecnologia fortemente stratificata per classe. La procedura ha costi significativi, che in Italia variano dai 3.000 ai 7.000 euro per un ciclo, a cui si aggiungono i costi dei farmaci (spesso non coperti dal SSN) e le tariffe annuali di mantenimento. Questo costo elevato agisce come

4. Libertà sotto anestesia? Una critica femminista all’autonomia riproduttiva

La narrazione dominante presenta il social freezing come una scelta di empowerment e libertà. Tuttavia, alcune analisi femministe critiche svelano alcune ambiguità e contraddizioni che si celano dietro i concetti di “scelta” e “autonomia” in questo contesto.

Il processo di social freezing rappresenta innanzitutto una profonda medicalizzazione del corso di vita femminile. Un problema di natura socio-economica, la mancanza di supporto alla genitorialità, l’inflessibilità del mondo del lavoro, la lentezza del cambiamento culturale, viene trasformato in un problema medico, la cui soluzione è localizzata interamente all’interno del corpo della singola donna. Questo percorso implica fasi altamente invasive: stimolazione ormonale con farmaci, monitoraggi ecografici e prelievi ematici costanti, e un intervento chirurgico di prelievo ovocitario (pick-up) in anestesia o sedazione profonda. Il corpo femminile diventa il sito su cui intervenire per correggere uno sfasamento che è invece di natura sociale e politica.

Il dibattito femminista sull’autonomia in condizioni di oppressione è qui centrale. La decisione di congelare i propri ovuli è un’espressione genuina di autonomia riproduttiva o è piuttosto una scelta vincolata, l’opzione “meno peggiore” in un contesto privo di alternative migliori? Le donne si trovano in una posizione di doppio rischio: da un lato, subiscono i costi (fisici, emotivi, economici) del conformarsi alle norme pronataliste attraverso una procedura invasiva; dall’altro, affrontano i costi del non conformarsi, come il rischio di non avere figli e lo stigma sociale associato. In questo quadro, l’autonomia appare più come la gestione di un rischio imposto dall’esterno che come una libera espressione di sé.

Il paesaggio emotivo del social freezing è complesso. Se da un lato la procedura viene vissuta come un atto di empowerment che dona libertà e serenità, dall’altro è fonte di notevole stress, ansia e vulnerabilità. Un rischio psicologico significativo è la falsa sensazione di sicurezza che la tecnologia può indurre. Gli studi indicano che una larga maggioranza delle pazienti (72%) sovrastima i tassi di successo della procedura, che non offre alcuna garanzia di una futura gravidanza.

A questo si aggiunge un bias cognitivo e culturale specifico, legato a una forma particolare di ageismo: la convinzione, diffusa nella fascia d’età tra i 20 e i 30 anni, che esista un dopo idealizzato, tipicamente intorno ai 40 anni, in cui le difficoltà attuali saranno magicamente appianate: una carriera stabile, una situazione economica sicura, relazioni affettive mature. Tuttavia, questa proiezione si scontra con una realtà sociale in cui la precarietà lavorativa e affettiva si è dilatata nel tempo, estendendosi ben oltre il primo quarto dell’esistenza. Il rischio concreto è che, giunte a 40 anni, le condizioni strutturali che avevano motivato la crioconservazione siano rimaste immutate, se non peggiorate. In questo scenario, la tecnologia si trasforma da promessa di libertà a fonte di una profonda frustrazione, un’aspettativa tradita che si aggiunge alle fragilità specifiche di quella fase della vita.

Il rimpianto, in questo contesto, assume una valenza sociologica. La società esercita un’enorme pressione sulle donne riguardo all’età giusta per la maternità, stigmatizzando sia le madri troppo giovani sia quelle considerate troppo anziane. Il social freezing agisce come una risposta a questa pressione, ma al contempo la rafforza. Le ricerche psicologiche mostrano che il rammarico legato alla crioconservazione non riguarda tanto l’atto in sé, quanto le pressioni sociali e le circostanze personali che lo hanno reso necessario. Il dolore emotivo diventa quindi un dato sociologico, un indicatore della violenza strutturale di un sistema che costringe le donne a scommesse individuali e ad alto rischio per realizzare un progetto di vita che dovrebbe essere socialmente sostenuto.

5. Ristrutturare lo spazio, non solo la timeline: lavoro, cura e comunità

La vera soluzione, se mai esistessero vere soluzioni in sociologia, potrebbe non risiedere nell’adattare tecnologicamente il corpo femminile a un sistema disfunzionale, ma nel ristrutturare quel sistema, pur lasciando questa possibilità nel tempo della transizione, magari, mi piacerebbe, accompagnandola con opportunità di coaching femminista e non giudicante.

In questa visione l’accelerazione del cambiamento deve avvenire a livello organizzativo, culturale e politico, spostando il focus dall’individuo alla collettività.

Il mondo del lavoro contemporaneo rimane la radice del problema. Come documentato da Luisa Pogliana, la cultura manageriale è ancora prevalentemente androcentrica, costruita su modelli di leadership e di performance che ignorano o penalizzano le responsabilità di cura e creano barriere occulte per le donne. La sua metafora delle Donne senza guscio descrive perfettamente la condizione di vulnerabilità delle donne manager in queste strutture, costrette a sviluppare strategie individuali di sopravvivenza. Per loro, il social freezing può apparire come una corazza tecnologica necessaria. Dati concreti come la motherhood penalty (la penalizzazione salariale e di carriera per le madri) e le difficoltà di reinserimento dopo il congedo di maternità dimostrano che il luogo di lavoro è strutturalmente ostile alla genitorialità, producendo così la necessità di posticiparla.

L’accelerazione del cambiamento organizzativo non è un’utopia, ma una possibilità concreta già in atto in aziende che hanno compreso come il supporto alla genitorialità sia un investimento strategico e non un costo. Queste aziende stanno superando le inadeguate politiche statali, dimostrando che modelli alternativi sono possibili e vantaggiosi.

Il cambiamento organizzativo deve ovviamente essere sostenuto da un più ampio cambiamento culturale. È necessario promuovere attivamente la genitorialità condivisa come norma sociale. L’attuale legislazione italiana sul congedo di paternità, con soli 10 giorni obbligatori, è palesemente insufficiente e simbolica di una visione che delega ancora quasi interamente la cura alla madre. Le iniziative aziendali che offrono congedi paritari non sono solo benefit, ma potenti atti culturali che dimostrano come il settore privato, in questo caso, stia guidando un cambiamento che le istituzioni pubbliche faticano a recepire. Ma non si tratta solo di coppie, anche la genitorialità singola può essere supportata da sistemi organizzativi capaci di delega e aperti a sperimentare nuove concezioni del lavoro.

6. Una conclusione aperta: non fermare la tecnologia, accelerare la cultura

Di fronte a un fenomeno così complesso, la tentazione di una soluzione semplice come il divieto è forte, ma vorrei insinuare il dubbio che sia errata. Proibire il social freezing sarebbe un classico esempio di bias di genere nella regolamentazione: è più facile intervenire per controllare e limitare il corpo femminile e le sue scelte riproduttive che intraprendere il complesso e oneroso compito di riformare le strutture economiche e sociali.

Un divieto non sarebbe un atto neutro, ma un’azione politica specifica sui corpi delle donne, che rafforzerebbe una cultura sessista che trova sempre più legittimo legiferare sulla loro autonomia piuttosto che sfidare i sistemi dominati dagli uomini.

Come ci ricorda la sociologia femminista, il corpo non è un’entità puramente biologica, ma un fatto sociale: un campo di battaglia su cui si scontrano valori e interessi politici. Ciò che viene permesso o proibito riguardo al suo uso è il risultato di una negoziazione culturale e politica. In questo senso, la crescente accettazione del social freezing a fronte di un contemporaneo e aggressivo attacco al diritto all’aborto non è una contraddizione casuale. Suggerisce piuttosto una politica di tipo familista, che vede il corpo femminile come uno strumento al servizio di un obiettivo politico, la natalità, e non come il luogo di una soggettività autonoma. Tuttavia, cadere nella trappola del divieto significherebbe rispondere a una prevaricazione con un’altra, riaffermando l’idea che sia legittimo intervenire dall’esterno per limitare la volontà di una donna sul proprio corpo. La terza via, la più complessa, ma autenticamente rispettosa della volontà delle donne, è quella di estendere la disponibilità del nostro corpo ad ogni forma possibile e allo stesso tempo combattere affinché ogni scelta sia la più consapevole e meno condizionata possibile.

Il social freezing non è il problema, ma un sintomo critico delle irrisolte contraddizioni della nostra società su genere, lavoro, tempo e cura. È una tecnologia che, come un reagente chimico, rende visibili le fratture e le dissonanze del nostro tessuto sociale. Per questo, deve essere un catalizzatore per un dibattito più profondo e urgente.

L’appello finale, quindi, non è fermare la tecnologia, ma accelerare la cultura. È necessario lavorare sulla consapevolezza delle giovani donne, fornendo informazioni corrette e non illusorie sui limiti e le possibilità di questa tecnica. È imperativo accelerare il cambiamento culturale verso una genitorialità che veda la cura come una responsabilità dell’intera comunità. Ed è cruciale accelerare il cambiamento organizzativo, affinché i luoghi di lavoro diventino spazi inclusivi e flessibili, capaci di accogliere le esigenze di tutta. L’obiettivo è creare una società in cui il social freezing possa essere, per chi lo desidera, una vera scelta di autonomia corporea, e non una costosa e dolorosa necessità per la sopravvivenza professionale. Questo richiede una nuova alleanza, programmata e intenzionale, tra possibilità tecnologica, evoluzione culturale e politiche pubbliche femministe.

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  • https://ilsalvagente.it
  • Mondo Fertilità. (n.d.). “Social Freezing, Puglia prima Regione a introdurre un contributo
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* PhD in Sociologia.

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