Francesca Rescigno*
Ci risiamo, eccoci nuovamente nel turbinio di un dibattito sociale, politico e giuridico concernente la capacità decisionale delle donne e la gestione del proprio corpo e quindi della propria salute. Dopo aver consentito la presenza dei gruppi antiabortisti nei consultori, dopo l’incredibile introduzione del reato universale della gestazione per altri, il nuovo oggetto di interesse è il c.d. ‘social freezing’.
Con il termine social freezing si intende la crioconservazione degli ovociti a scopo precauzionale, cioè una pratica clinica che permette di preservare la fertilità delle donne che desiderano posticipare la maternità.
È possibile distinguere tra il ‘freezing clinico’ che avviene quando viene proposto di crioconservare gli ovociti a donne che devono sottoporsi a cicli di chemioterapia o radioterapia a causa di un tumore della pelvi o a interventi demolitivi sugli annessi che incideranno irrimediabilmente sulla capacità riproduttiva. La stessa tecnica viene spesso proposta anche a chi ha in famiglia precedenti di menopausa precoce.
Accanto a queste ipotesi basate su ragioni evidentemente cliniche, esiste il ‘social freezing’ per tutte le donne che per motivi personali, al di fuori quindi di qualsiasi patologia, vogliono preservare la fertilità e ricercare una gravidanza più avanti nel tempo, quando potrebbero verificarsi difficoltà di concepimento spontaneo a causa delle variazioni ormonali legate proprio all’età.
La procedura consiste nel prelievo di ovociti dopo una stimolazione ovarica, seguita dalla loro vitrificazione (un congelamento rapido) per un uso futuro in trattamenti di fecondazione assistita.
Al di fuori dei casi strettamente medici, dove tale tecnica rappresenta come evidenziato l’unico modo per superare situazioni patologiche e sperare di potere comunque realizzare il desiderio di maternità, negli altri casi il social freezing offre alle donne la possibilità di superare il naturale declino della fertilità legato all’età, consentendo di posticipare la maternità grazie all’utilizzo di ovociti prelevati e conservati in giovane età e quindi più fertili, senza subire la pressione del c.d. ‘orologio biologico’.
Naturalmente non è tutto oro ciò che luccica, ed è necessario evidenziare che si tratta di una procedura costosa che al momento in Italia non è fornita dal sistema sanitario per motivi ‘sociali’ e il tasso di successo non è garantito per cui potrebbe comunque accadere che la gravidanza, malgrado gli ovociti giovani, rimanga un miraggio.
Rispetto ai costi di questa procedura e al fatto che non sia al momento garantita dal SSN, si evidenzia la decisione del giugno 2025 della Regione Puglia, la quale nell’ambito delle politiche di tutela del diritto alla genitorialità e della procreazione e anche nel tentativo di arginare il crescente calo demografico, ha disciplinato le modalità di accesso alle tecniche di preservazione della fertilità per fini sociali, prevedendo la possibilità di accedere al contributo massimo di € 3.000,00, a tutte le donne di età compresa tra i 27 e i 37 anni, residenti in Puglia da almeno 12 mesi, con un ISEE ordinario non superiore a € 30.000 che si rivolgano a centri di Procreazione Medicalmente Assistita (PMA) pubblici o privati accreditati, inseriti nel registro nazionale autorizzato dal Ministero della Salute. Si tratta della prima Regione in Italia che decide di finanziare con denaro pubblico questa pratica considerandola nell’ottica dell’affermazione della libertà riproduttiva delle donne ed investendo 900.000 euro per il triennio 2025-2027.
La decisione della Regione Puglia ha suscitato un dibattito politico e giuridico sulla pratica slegata da ragioni cliniche e soprattutto sull’eventualità che lo Stato la possa in futuro garantire a livello nazionale. A tale proposito giova ricordare ad esempio l’esperienza francese che con la Legge sulla bioetica (Loi n. 1017 del 2021) ha riconosciuto a tutte le donne tra i 29 e i 37 anni la possibilità di accesso alle strutture pubbliche per il congelamento degli ovuli.
Riflettere su questa metodologia significa riflettere sul fatto che la scienza va avanti e le biotecnologie aiutano la vita di ognuno di noi ad essere più lunga e meno dolorosa. Quando il 25 luglio 1978, in Gran Bretagna (in Italia abbiamo dovuto attendere il 23 maggio 1984), nacque Louise Brown, la prima bimba ‘in provetta’ e cioè tramite fecondazione in vitro (FIV), ci fu chi gridò allo scandalo, alla compromissione dell’ordine naturale delle cose, evidenziando che ‘si tentava di strappare a Dio il potere misterioso e sublime della vita’ (…).
In realtà la FIV e tutte le tecniche di Procreazione Medicalmente Assistita non hanno certo causato la fine della sessualità e della riproduzione, ma hanno semplicemente aggiunto possibilità a chi, per varie ragioni, decide di farvi ricorso.
In quest’ambito di progresso biomedico si colloca la pratica del social freezing, un metodo che si confronta semplicemente con quelle che sono oggi le esigenze di molte giovani donne, donne che studiano, lavorano, desiderano fare carriera e che pur non escludendo la realizzazione della maternità la collocano in un momento della propria vita non sempre concorde rispetto all’impietoso orologio biologico. Si tratta di emancipazione o di un’illusione? Esistono aziende che coprono i costi della pratica per le proprie impiegate, una sorta di benefit aziendale che spostando in avanti il momento della maternità rende le donne più produttive e appetibili per il mondo del lavoro. Domandiamoci se è grave rendere le donne più allettanti per il mercato del lavoro, e per rispondere vale la pena ricordare che il tasso di occupazione femminile in Italia è il più basso dell’intera Unione Europea, con circa il 55% delle donne occupate, contro una media europea del 69,3%. Le donne italiane combattono con la segregazione occupazionale, il divario retributivo, la scarsità di servizi di supporto alla famiglia e un carico sproporzionato di lavoro non retribuito. Questo stato di cose si riflette impietosamente sull’indice di natalità del nostro Paese che, secondo gli ultimi dati ISTAT, continua a diminuire: nel 2024 le nascite sono state 369.944, con un calo del 2,6% rispetto all’anno precedente (una contrazione di quasi 10mila unità), mentre i dati provvisori del 2025 vedono 13mila nascite in meno rispetto allo stesso periodo del 2024, affermando senza tema di smentita che le politiche dei bonus non convincono a fare figli.
Considerando questo stato di cose, quale mai potrebbe essere il rischio insito nel social freezing?
Si discute sul fatto che esiste un ‘momento giusto’ per la maternità legato al ciclo della fertilità della donna, per cui utilizzare tecniche volte a falsare questo tempo induce le donne a credere di poter rimandare indefinitamente una scelta biologica, anziché concentrarsi sulla definizione dell’equilibrio tra vita professionale e privata; ci sarebbe insomma un surrettizio rischio di condizionamento delle donne, inconsapevolmente portate a ‘scimmiottare’ modelli maschili di efficienza e pronte a dimenticare la loro ‘essenziale funzione familiare’.
Ritengo che il nucleo della riflessione sia proprio nella presunta innata incapacità femminile di prendere decisioni in scienza e coscienza rispetto alla gestione del proprio corpo e della propria salute. Proviamo a domandarci perché mai le donne dovrebbero avere bisogno del consiglio delle associazioni antiabortiste una volta che si trovano in un consultorio per interrompere una gravidanza? Ed anche come mai le donne non sono in grado di capire che la gestazione per altri ‘offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane’ (Sentenza Corte Costituzionale n. 272 del 2017) e così continuano, in varie parti del mondo ove tale pratica è legittima ad essere madri gestanti e madri intenzionali, senza riportare alcun trauma; e ancora le donne che decidono di essere sex workers non capiscono che vendere sesso è quasi sempre determinato “da fattori che condizionano e limitano la libertà di autodeterminazione dell’individuo, riducendo, talora drasticamente, il ventaglio delle sue opzioni esistenziali. Può trattarsi non soltanto di fattori di ordine economico, ma anche di situazioni di disagio sul piano affettivo o delle relazioni familiari e sociali, capaci di indebolire la naturale riluttanza verso una “scelta di vita” quale quella di offrire prestazioni sessuali contro mercede” (Sentenza Corte Costituzionale n. 141 del 2019).
Insomma, ogni volta che si tratta del corpo delle donne, del sesso delle donne e ancor più della funzione riproduttiva delle donne, dobbiamo arrenderci al fatto che le donne non capiscono. Nel 1900 lo psichiatra Moebius constatava la naturale deficienza fisiologico-mentale della donna (cfr. P. J. Moebius, Über den phisiologische Schwachsinn des Weibes, 1900), sono passati 125 anni (il Global Gender Gap index, afferma che, al ritmo attuale, ne servono almeno 123 per il raggiungimento della parità di genere a livello globale) ma sembra che, oggi come allora, parte della nostra cultura continui a credere all’innata inferiorità femminile. Moebius scriveva che era bene per la donna restare nei limiti fissati dalla natura che, per proteggerne la funzione essenziale e cioè la maternità, la vuole sottomessa, schiava, subordinata. Per quanto queste affermazioni ci possano apparire grottesche ed arcaiche forse vale la pena riflettere sul fatto che, ancora oggi, seppure utilizzando un linguaggio più elegante e politically correct, si continua a cercare di confinare le donne entro ‘limiti naturali’ che non devono essere sovvertiti da esseri sostanzialmente ‘deficienti’.
Fortunatamente la scienza sembra non conoscere pregiudizi e il progresso bio-medico (magari inconsapevolmente) appare women friendly più di ogni rivoluzione culturale e giuridica e ha nel tempo consegnato alle donne il possesso dei propri corpi e la gestione della maternità. Il social freezing è un’opzione offerta dalla scienza alle donne che possono approcciarsi alla maternità con i propri tempi, più serenamente e con maggior consapevolezza. Si tratta di sovvertire l’ordine naturale? Nemmeno gli antibiotici sono naturali e non lo sono la chemioterapia, la dialisi, il trapianto degli organi, volare su un jumbo o parlare con persone a emisferi di distanza grazie ai nostri smartphone. Non tutto ciò che non è naturale va quindi censurato e stigmatizzato, il problema infatti non è tanto allontanarsi da ciò che è naturale, quanto riconoscere alle donne la capacità di decidere per sé, e credo si possa affermare che grazie al social freezing si sia aggiunto un nuovo tassello al mosaico dell’empowerment femminile.
*Professoressa associata di Istituzioni di Diritto Pubblico e Diritto delle Pari Opportunità, Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali – Università di Bologna.

