A. Anselmo – Cura e pubblica amministrazione: l’originale apporto delle teorie femministe

Recensione a A. Pioggia, “Cura e Pubblica amministrazione. Come il  pensiero femminista può cambiare in meglio le nostre amministrazioni”,  Il Mulino, 2024.

di Antonella Anselmo 

L’opera di Alessandra Pioggia, “Cura e Pubblica amministrazione. Come il pensiero femminista può cambiare in meglio le nostre amministrazioni[1] colpisce per l’originalità del metodo e la novità degli esiti. Tra le principali questioni avanzate dalla critica femminista nei confronti dell’assetto istituzionale e delle modalità di produzione delle norme, vi è la convinzione che queste ultime siano espressione, formale e sostanziale, del potere maschile e patriarcale come ordine fondante l’organizzazione delle società. In altri termini la circostanza che la sfera pubblica, specie in epoche precedenti al riconoscimento del diritto di voto alle donne, sia stata riservata esclusivamente agli uomini, ha determinato come effetto indiretto che i sistemi giuridici fossero espressione della visione maschilista in ordine al rapporto tra i consociati, e dunque reiterassero una visione stereotipata e rigida dei ruoli sessuali. Per millenni, all’interno dei parlamenti, sono mancati del tutto lo sguardo e la voce delle donne. Tale lacuna del diritto è stata celata, e dunque è risultata difficilmente percettibile. Il velo che ha reso concreta l’invisibilità delle donne è stato anche di tipo linguistico, coniugando forma del linguaggio giuridico e sostanza discriminatoria. L’uso da parte del legislatore del termine “uomo” nell’asserito significato neutro e simbolico, è stato invero un errore formale nell’uso della lingua italiana, priva del genere neutro, errore consentito, reiterato e assimilato nel tempo, perché fondato su ragioni politiche, socio-economiche. Le teorie femministe, che costituiscono un mosaico quanto mai variegato e differenziato, hanno destrutturato tutti i saperi ufficiali, incluso il diritto, svelandone le logiche di forza che caratterizzano nel profondo le relazioni interpersonali. In particolare hanno prodotto l’idea, con la giurista Carol Smart[2], che il diritto sia sessista, maschile, sessuato. Che la produzione di norme sia fatto androgino lo scriveva anche Frances Olsen[3],  studiosa di spicco dei critical legal studies. Per tale ragione la lex, dato storico, umano e relativistico, non coincide con justitia, in quanto la prima è espressione dei meccanismi di dominio sociale. La forma più diffusa di oppressione è quella agita nei confronti delle donne. In questa prospettiva di pensiero, con assoluta originalità, Alessandra Pioggia svela i nessi tra gli esiti delle teorie femministe e la possibilità di una rilettura del diritto amministrativo. Impresa non facile, considerato che quest’ultimo è il settore del diritto maggiormente condizionato dal retaggio storico del potere, inteso come espressione di supremazia, ordine costituito, dominio sociale e politico. E la stessa scienza del diritto amministrativo, trattando di materie assai contigue al potere e all’indirizzo politico, per mantenersi sul piano della fredda scientificità e oggettività, ha spesso risentito dell’assenza di esplorazioni interdisciplinari e di interesse per la società. La ragione è intuibile. L’ amministrazione nasce come braccio esecutivo del potere sovrano, garantita dal suo giudice – il Consiglio di Stato – che in origine è l’organo consultivo a vantaggio esclusivo della Corona. Lo spartiacque che segna una vera e propria rivoluzione culturale, che coinvolge anche la pubblica amministrazione, non più lo stato-apparato  ma la comunità democratica, e rivisita il rapporto della cittadinanza con i pubblici poteri, è rappresentato dalla Costituzione repubblicana. Fondamentale in tal senso è l’inserimento del principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, comma 2, della Costituzione. A fronte di tali passaggi storici, le teorie femministe, grazie alla mutata cornice di fonte costituzionale, introducono prospettive innovative che rendono l’amministrazione il luogo delle opportunità per una società migliore e per l’effettività dei diritti e delle libertà. L’Autrice prende le mosse dall’analisi del generale sentimento di insoddisfazione per l’amministrazione, ammalata da anni nonostante le continue riforme che hanno tentato di raggiungere obiettivi di efficienza, efficacia, trasparenza, economicità. La dispersione scolastica, le lunghe liste di attesa necessarie per l’ottenimento delle prestazioni sanitarie, le persistenti condizioni di povertà, malattia, abbandono sociale sono testimonianza del fallimento di molte azioni amministrative, pur in presenza di apposite norme di legge per il contrasto alle richiamate condizioni di vulnerabilità e svantaggio sociale. L’alternativa femminista consente di delineare in modo diverso l’apparato amministrativo, i suoi compiti e il rapporto con la comunità, attraverso una parte destruens, di critica, e una successiva parte construens, propositiva. Mostrando una comprensione profonda delle varie correnti di pensiero che hanno caratterizzato i singoli movimenti femministi nelle diverse epoche storiche, l’Autrice indaga le ragioni di critica al diritto sessuato ponendo come parametro il concetto di giustizia. In primo luogo viene messa in discussione l’impostazione neocontrattualista, con particolare riferimento all’elaborazione di John Rawls[4]. Secondo il filosofo statunitense, per il raggiungimento della giustizia sociale occorre immaginare un velo di ignoranza, ossia una condizione in cui la formazione delle regole che sostengono il patto sociale sia limitata alla situazione originaria dei contraenti, indipendentemente dalla posizione che questi assumono concretamente nella società e nelle relazioni interpersonali. Non conoscendo la futura posizione nella società i contraenti potranno elaborare regole che contemperano libertà e giustizia sociale e redistributiva. Gli approcci critici del femminismo alla teoria rawlsiana si basano essenzialmente su tre aspetti: il carattere falsamente neutrale, l’individualismo e l’astratto razionalismo che caratterizzano tale impostazione. Innanzi tutto, come sostiene Susan Moller Okin[5] si immaginano gli individui in modo falsamente neutrale, trattandosi viceversa di uomini, bianchi e indipendenti, per tale ragione in grado di partecipare attivamente alla vita pubblica. La mancata considerazione dei rapporti esistenti all’interno del nucleo familiare porta ad una distorsione prospettica. In secondo luogo si rimprovera a Rawls di considerare l’individuo esclusivamente sotto il profilo individualistico ed egoistico dell’homo oeconomicus, sicché l’idea di giustizia che ne scaturisce è limitata al solo ambito economicistico e redistributivo. Illuminanti in tal senso sono gli scritti di Martha Nussbaum[6], espressamente richiamati nell’opera in commento. Infine l’astratto razionalismo d’impronta kantiana è  messo in discussione attraverso la visione di Carol Gilligan[7] che afferma come l’individuo razionale, slegato da qualsiasi tipo di relazioni, rappresenti una vita “scheletrica”, irreale: “solo quando alle vite scheletriche di questi personaggi ipotetici viene aggiunta carne e sostanza diviene possibile valutare l’ingiustizia sociale che i loro problemi possono riflettere e immaginarsi la sofferenza individuale che il loro presentarsi può denunciare”. Altro importante contributo all’elaborazione del concetto di giustizia scaturisce dalle teorie femministe, occidentali e non, che si sono occupate dell’uguaglianza. L’eguaglianza è dunque intesa non come omologazione e via per la realizzazione di situazioni identiche, ma come parità e contestuale riconoscimento e valorizzazione delle differenze. Il rischio dell’approccio solo formale dell’eguaglianza risiede nel condurre all’annullamento delle diversità e delle differenze, prime tra tutte quelle di genere, che caratterizzano la singola personalità, non solo in senso intimistico, ma anche nella sua proiezione e percezione sociale. E proprio la lettura costituzionalmente orientata delle norme di azione, che governano l’operato della pubblica amministrazione in un contesto democratico, dovrebbe portare ad attuare, nelle azioni pubbliche, l’art. 3 comma 2 della Costituzione. Se è vero che è “compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, occorre che al divieto di discriminazione e alla parità di trattamento, in senso formale, si accompagni il dovere di valutare caso per caso le “condizioni personali e sociali” del singolo individuo. La considerazione del dato personale e concreto, contrapposto all’universalismo disincarnato e razionale che permea le radici dell’ordinamento giuridico, è un chiaro traguardo dell’elaborazione femminista: il personale è politico. Con riferimento al metodo dell’autocoscienza collettiva, come strumento della lotta femminista dei primi anni settanta, Carol Hanish scriveva “È politico dire le cose così come sono, dire quello che penso veramente della mia vita invece di quello che mi è stato sempre detto di dire”.[8] L’ulteriore evoluzione di alcune correnti di idee approda al femminismo intersezionale, che considera necessariamente la coesistenza di diversi e molteplici fattori discriminanti. I movimenti femministi afroamericani hanno contribuito a mettere in luce come il percorso verso l’emancipazione e l’empowermentdelle donne muti in modo considerevole a seconda dei contesti storici, sociali, etnici, educativi ecc. L’intersezione tra i diversi fattori porta ad accentuare le diseguaglianze sociali, rendendo spesso impossibile l’effettivo esercizio dei diritti e delle libertà, pur formalmente riconosciute dalla legge. Ora, da tale complessa e sia pur non esaustiva indagine delle elaborazioni di pensiero delle donne, scaturisce in modo del tutto originale il concetto di cura. Dal pensiero di M.S. Giannini deriva la teoria secondo la quale la discrezionalità amministrativa non è altro che comparazione tra diversi interessi pubblici e non, la tutela dei quali scaturisce dalla produzione di norme ad opera dello Stato pluriclasse, retto dal suffragio universale. Tuttavia, sebbene le amministrazioni siano chiamate a rispettare la legge e le indicazioni provenienti dagli apparati politici, le stesse si trovano a scegliere tra i diversi interessi definendo, in ultima battuta, l’interesse pubblico “in concreto”. A questo si giunge dopo un confronto tra i diversi interessi in gioco, pubblici e privati, che emergono nel caso di specie, conformandosi alle indicazioni concernenti l’interesse pubblico primario nonché ad altri principi e regole giuridiche. E proprio nella nozione di etica dello Stato e cura dell’interesse pubblico concreto emerge il nesso possibile con l’elaborazione femminista, aspetto chiaramente evidenziato dall’Autrice. Nel pensiero di Carol Gilligan e Joan C. Tronto[9] si delinea infatti una concezione di cura della persona non astratta e universale, ma viva, incarnata, calata nella realtà sociale e familiare, spesso posta in condizioni di vulnerabilità, sia pur mutevoli nel tempo (la malattia, l’infanzia, la vecchiaia, la povertà). Nei casi concreti è lasciato uno spazio all’amministrazione – la discrezionalità amministrativa – entro il quale è possibile operare la scelta tra più soluzioni possibili, parimenti legittime. Ebbene, la modalità della scelta, in concreto, può essere orientata secondo gli approdi sulla cura delle teorie femministe. La cultura della cura si articola in più fasi: l’interessarsi a, il prendersi cura, il prestare cura e il ricevere cura. L’amministrazione, che si dedica anche alla micro-organizzazione dei propri uffici, può divenire  motore attivo di realizzazione della giustizia sociale e dell’effettiva realizzazione dei diritti e delle libertà proclamati in via astratta e formale dall’ordinamento giuridico. Né si pongono rischi di lesione del principio di legalità. Il criterio della cura, come il criterio della trasparenza, della ragionevolezza e dell’imparzialità, non è un criterio arbitrario e scisso dal dato normativo, ma discende dai principi fondamentali della costituzione: la solidarietà, la dignità della persona e l’eguaglianza sostanziale. Dunque la cura, nel significato più profondo ed etico elaborato dalle teorie femministe, entra a pieno titolo tra i compiti della Repubblica per l’attuazione dei valori costituzionali.   


[1] Il Mulino, 2024. 

[2] Feminism and the Power of Law, Routledge, 2015. 

[3] Feminist Legal Theory I: Foundations and Outlooks, Darmouth Publishing/NYU Press 1995.

[4] A Theory of Justice, Harvard University Press, 1971.

[5] Gender, Justice and the Family, N.Y., Basic Book, 1989.

[6] Rawls and feminism, in The Cambridge Companion to Rawls, ed. Samuel Freeman, Cambridge, UK: Cambridge University Press, 2003.

[7] Con voce di donna. Etica e formazione della personalità, Milano, Feltrinelli, 1987.

[8] Notes from the Second Year: Women’s Liberation” (1970)

[9] I confini morali. Un argomento politico per l’etica della cura, Diabasis, 2006. 

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