Al via la X legislatura europea 

ADRIANA CIANCIO*

1. Sono trascorsi ormai 45 anni dallo svolgimento delle prime elezioni dirette del Parlamento europeo, il quale ha preso il posto dell’originaria Assemblea di delegati in un cammino che ha collocato l’unica istituzione immediatamente rappresentativa al cuore del processo di democratizzazione (c.d. democratization through parlamentarization) dell’originaria Comunità, oggi Unione. A tal proposito, val la pena subito richiamare come, parallelamente al rafforzamento delle funzioni, che hanno condotto a rendere il Parlamento il co-legislatore europeo insieme al Consiglio, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona il primo è stato espressamente individuato come la sede della rappresentanza politica dei cittadini europei (ai sensi di ciò che dispone oggi l’art. 10, par. 2, poi ripreso anche dall’art. 14, par. 2 TUE), e non più soltanto dei popoli dei suoi Stati membri (come sancito in precedenza nell’art. 189, par. 1 TCE). 

La differente formulazione non si risolve certo in un cambiamento solo formale, trattandosi, piuttosto, di dare concreta estrinsecazione al principio secondo cui il funzionamento dell’UE si basa sui principi della democrazia rappresentativa (art. 10, par. 1 TUE), per quanto innestata da importanti – almeno sulla carta – istituti di democrazia partecipativa (art. 11 TUE). D’altra parte, non meno degna di rilievo è la circostanza che tale cambio di prospettiva giunge a coronamento dell’introduzione, già con il Trattato di Maastricht, della cittadinanza europea (su cui, per tutti, M. Cartabia in Enc. Giur., Agg., ad vocem), quale status “addizionale” a quello nazionale, con il suo corredo di diritti (anzitutto) politici. 

Tuttavia, nonostante le elezioni del 2024 segnino l’avvio della X legislatura europea, tale fondamentale istituto di democrazia mostra di continuare a patire sul piano sovranazionale talune grosse storture. Infatti, (anche) quelle appena celebratesi si sono dimostrate quale espressione dei popoli di 27 Paesi diversi piuttosto che come la consultazione di un unico demos europeo. In questa direzione ha, anzitutto, (sempre) pesato la mancanza di una legislazione elettorale uniforme unitamente all’assenza di uno strutturato sistema di partiti europei (la cui essenziale funzione è, peraltro, da tempo richiamata nei Trattati; da ultimo, art. 10, par. 4 TUE), in grado di confrontarsi nell’ambito di circoscrizioni sovranazionali su temi di interesse generale per l’intera Unione. Piuttosto, le elezioni europee si svolgono tuttora sulla base di leggi elettorali nazionali, sia pur vincolate al rispetto di alcuni (pochi), generalissimi principi comuni (come suggerito, in alternativa ad una legislazione uniforme, nell’ultima parte dell’art. 223, par.1 TFUE), fra i quali il più rilevante concerne l’adozione di un metodo elettorale di tipo proporzionale, peraltro diversamente articolato nei vari Paesi membri, con soglie di sbarramento più o meno elevate (ma non superiori al 5%) e sulla base di circoscrizioni elettorali alquanto ampie. Ne consegue che le campagne elettorali continuano a restare saldamente nelle mani dei partiti nazionali – variamente, ma anche “variabilmente” affiliati a quelli europei – così come, del resto, la presentazione delle candidature. A tal ultimo proposito, per ciò che più specificamente concerne l’Italia, non può in questa sede passare sotto silenzio la decisione di numerosi partiti, dell’uno e dell’altro schieramento, di candidare come capilista, in tutte o almeno la maggior parte delle circoscrizioni, il/la leader del partito. Tale circostanza, che in generale rappresenta un grave vulnus per la democrazia, per l’ovvia mancanza di volontà di costoro di andare effettivamente ad occupare il seggio nel Parlamento europeo, in quei casi in cui la leadership è (finalmente) declinata al femminile si traduce oltretutto in vantaggio per le candidature maschili, per effetto dell’articolato sistema di “quote” di genere previsto nella vigente legge n. 65 del 2014, che – ormai a regime – contempla la formazione paritaria delle liste con in più l’obbligatoria alternanza dei sessi nelle prime due posizioni, cui si accompagna la tripla preferenza (di genere). Sicché, in concreto, di tale sistema sono stati al fine vanificati, almeno in parte, gli effetti virtuosi sotto il profilo del riequilibrio dei sessi, almeno da parte dei due partiti maggiori, rispettivamente di governo e di opposizione.

Più in generale, in pressoché tutti i Paesi membri è apparso chiaro come la campagna elettorale sia stata più spesso giocata intorno a questioni puramente domestiche invece che concentrarsi sulle grandi sfide che attendono l’Unione nei prossimi anni, sia all’interno (a cominciare dal prospettato, ulteriore suo allargamento), sia all’esterno (in tema, ad esempio, di competitività con colossali economie di scala come quelle di USA e Cina). 

Eppure, il contesto in cui si sono svolte le recentissime elezioni appare molto diverso rispetto a quello che segnava le precedenti – essenzialmente gravate dagli epigoni della crisi dei debiti sovrani del 2009 e dal suo impatto sull’eurozona – se solo si riflette su quanti e quali avvenimenti sono accaduti negli ultimi cinque anni. E, invero, in una rapida sintesi, che non può qui essere esaustiva: l’esperienza, del tutto nuova nel corrente millennio, di una pandemia inaspettata, affrontata con strumenti eccezionali, non solo sul piano interno, e che ha in fine offerto all’UE l’occasione per avviare (per la prima volta) una concreta politica di solidarietà interstatale – attraverso l’intervento diretto della Commissione sul mercato al fine di reperire i capitali necessari per assistere i Paesi membri nel fronteggiare le conseguenze economiche del Covid-19 – ma destinata, tuttavia, ad esaurire la sua efficacia entro scadenze ormai imminenti (volendo, sul tema, anche il mio contributo dedicato a Paola Bilancia, apparso su federalismi.it del 2 febbraio 2022); lo scoppio della guerra russo-ucraina con la conseguente scoperta della vulnerabilità, sotto il profilo della protezione militare, dell’Unione e il connesso rilancio dell’antico progetto di difesa europea; l’apertura di nuovi fronti di crisi bellica in altre parti del globo e la rinnovata esigenza (anche) di un’effettiva politica estera comune, pena il rischio di un’irreversibile emarginazione dell’UE nello scacchiere geopolitico mondiale, sono solo alcune delle circostanze che hanno visto profondamente mutate le condizioni in cui si sono svolte le ultime elezioni rispetto a quelle del 2019. 

A tal riguardo, occorre pure menzionare (almeno) l’avvio della transizione digitale e di quella  energetica, insieme al lancio del grande Piano ambientale (o Green Deal, che dovrebbe condurre alla neutralità climatica entro il 2050), nonché l’intervenuto consolidamento della stessa Unione quale comunità di valori, i quali vanno preservati non solo nei confronti dei Paesi terzi, in particolare se candidati all’accessione (art. 49 TUE), ma anzitutto all’interno degli stessi Stati membri, con tutti gli strumenti utilizzabili. Tra questi ultimi anche nuovi meccanismi di c.d. “condizionalità finanziaria”, introdotti in via di legislazione derivata (cfr. Reg. UE, Euratom 2020/2092 del Parlamento e del Consiglio del 16 dicembre 2020; ma anche il Reg. UE 2020/2094 del Consiglio del 14 dicembre 2020, sul meccanismo europeo di ripresa e resilienza; e il Reg. 2021/1060 sulle c.d. “disposizioni comuni”), la cui legittimità è stata ciò nonostante avallata dalla Corte di Giustizia, a fronte dei ricorsi di Ungheria e Polonia (CGUE, 16 Feb. 2022, in Causa C-156/21 e C-157/21), e che stanno dando prova di estrema utilità (cfr. M. Coli, in Quest. Giust., numero speciale del maggio 2024), rispetto agli altri istituti di garanzia dei valori comuni previsti direttamente nei Trattati, ma che nei fatti si rivelano spesso deboli, se non del tutto inefficaci (in particolare, la farraginosa procedura appositamente prevista nell’art. 7 TUE). 

La X legislatura europea prende dunque avvio in questo complesso (e, altresì, per taluni versi, anche stimolante) scenario, cui si aggiungono le incognite legate a ciò che molti hanno già evidenziato, con riferimento all’anno in corso, definito il più elettorale di sempre (cfr. O. Pollicino e P. Dunn, su federalismi.it del 29 maggio 2024), sicché l’esito incerto di altre importanti consultazioni (tra cui, a novembre, quelle nordamericane) contribuisce a rendere tanto più scivoloso il terreno su cui gli eurodeputati si troveranno a muovere i loro (primi) passi. 

Saranno essi adeguati alle tante, difficili sfide che attendono l’Europarlamento nella sua rinnovata composizione in questi tempi complessi? 

Al momento si può solo registrare, a urne ormai chiuse, il successo delle forze politiche c.d. conservatrici e sovraniste, che hanno saputo raccogliere una diffusa insoddisfazione popolare nei confronti della politica di maggioranza in alcuni Stati membri dell’Unione, tra cui persino taluni grandi Paesi fondatori (Francia, Belgio e Germania), dove si assiste ad una clamorosa avanzata dell’estrema destra (così come anche in Austria) e al correlativo tracollo dei maggiori partiti di governo, al punto da indurre il Presidente francese a sciogliere il Parlamento nazionale ed il Premier belga a rassegnare le dimissioni, mentre, d’altra parte, la stabilità della coalizione su cui si regge il Cancelliere tedesco appare oggi pericolosamente compromessa. 

E’ lecito, dunque, domandarsi quanto queste situazioni politiche interne, ormai proiettate sull’Europarlamento, graveranno sulle prospettive di un effettivo rafforzamento dell’UE. E ciò nonostante la sostanziale tenuta del tradizionale asse formato dal Partito popolare europeo con il sostegno dei Socialdemocratici e dei Liberali, che con ogni probabilità sarà di nuovo in grado di esprimere, anche in questa legislatura, il/la Presidente della Commissione.

Certo è che una situazione complessiva così altamente sfidante richiederebbe passi decisi nella direzione di una profonda riforma dell’assetto istituzionale dell’Unione e delle sue politiche, cogliendo in questa direzione non solo gli auspici formulati – in esito alla “Conferenza sul futuro dell’Europa” – dagli stessi cittadini europei, chiamati ad esprimere su una piattaforma comune i loro desiderata, ma anche da taluni autorevolissimi esperti di “affari europei”. 

Tra essi, merita qui ricordare almeno Mario Draghi, già Presidente della BCE, prima che del Consiglio dei Ministri italiano, e che molti oggi vorrebbero a capo della Commissione, il quale solo pochi mesi fa ha indicato tra le più urgenti priorità il rilancio del mercato interno dell’Unione, anticipando un rapporto sul rafforzamento della competitività dell’economia europea, che avrebbe presentato al Parlamento dopo il suo rinnovamento (ne dà conto anche A. Sciortino, nella “lettera del mese” di maggio dell’Associazione italiana dei costituzionalisti su “Il futuro dell’Europa”). Si attende, dunque, di conoscerne in dettaglio i contenuti e, soprattutto, di apprezzare se la nuova Assemblea europea saprà dimostrarsi all’altezza di tutte le grandi prove che l’UE deve affrontare. 

A tal fine è comunque fondamentale che le aspirazioni unificanti prevalgano sulle molte istanze disgregatrici pure ormai fortemente presenti nel Parlamento di Strasburgo come in molte assemblee nazionali degli Stati membri. 

*Professoressa Ordinaria di Diritto costituzionale nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Catania.

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