Alcune considerazioni  sulla sentenza nr. 192/2024 della Corte Costituzionale

LORENZA VIOLINI*

  1. Introduzione: il contesto fin qui.

La vicenda del regionalismo differenziato, nella forma che ha assunto dopo i referendum consultivi dell’ottobre 2019 in Lombardia e in Veneto, ha attraversato indenne  – ma senza alcun risultato concreto –  almeno due legislature, una pandemia e 4 governi ed è giunta agli albori della presente legislatura avendo acquisito il carattere di uno dei tasselli fondamentali degli accordi di coalizione del nuovo governo insieme – come è noto – alla riforma costituzionale della forma di governo.

Il tema era già ben noto, se si considerano i tentativi di dare attuazione all’art. 116, III comma Cost. che risalgono almeno al 2007 (con qualche precedente di scarso rilievo su cui non è il caso di soffermarsi).

Nonostante al sua capacità di resilienza e le annesse resistenze, il regionalismo differenziato   desta sempre interesse quando ci si appresta a  discutere della nostra forma di Stato e dei correttivi da apportarvi.  Nel tempo, infatti,  le discussioni siano state assai accese fino a divenire elemento capace di alimentare un dibattito fortemente polarizzare e di annullare invece una discussione capace, razionalmente, di apportare elementi e argomenti in chiave critica ma anche migliorativa delle proposte concrete di miglioramento.

Tale polarizzazione tra un si a tutti i costi e un no senza possibilità di redenzione si è ancor più drasticamente radicalizzata non appena si è percepito negli ambienti politici che il nuovo governo faceva su serio e fin dai primi mesi della nuova legislatura aveva attivato strumenti normativi volti a dar forma al processo di attuazione del regionalismo differenziato. Basta qui ricordare l’art. 1, commi 791 e ss della legge 29 dicembre 2022, n. 197 e, poco dopo, la presentazione del ddl cd. Calderoli che sarebbe diventata, pochi mesi dopo, la l. nr. 86/2024.  In quel lasso di tempo le critiche sono aumentate di intensità man mano che il disegno di legge si avviava alla sua definitiva approvazione per trasformarsi in legge ordinaria della Repubblica e dare avvio al processo di attuazione vero e proprio tramite le intese (da negoziarsi col governo centrale) e la pronuncia o meglio le pronunce parlamentari di approvazione delle stesse.

  • Prime considerazioni generali

Mi sono soffermata su questi aspetti inerenti al contesto in cui la sentenza n.192 e non direttamente alla stessa perche mi pare importante segnalare un rischio analogo a quello sopra pur brevemente delineato. La sentenza infatti è stata accolta, nei primi commenti, da un lato con grida di vittoria elevatesi a celebrare la sconfitta dell’avversario e, d’altra parte, con caute prese di distanza dalle scelte della Corte, unita a critiche derivanti dalla generale sensazione che l’avventura della differenziazione potesse considerarsi fortemente compromessa, quantomeno ad interim.

Ora, che vi siano aspetti della sentenza su cui sia legittimo avanzare dubbi e critiche, non è certo da porre in discussione. soprattutto per quanto riguarda alcune affermazioni in materia finanziaria. Salvo approfondimenti sulle queste questioni – ben affrontate nella sentenza – va detto che, – in questo campo –, ben si sa che la  finanza regionale in generale dovrebbe essere ridefinita e che sia da tempo richiesto di dare attuazione al cd. federalismo fiscale. E, tuttavia, al di là del destino politico della differenziazione, per il regionalismo nel suo insieme, la sentenza presenta molti aspetti di grande rilevanza e su cui occorre attivare una discussione che non si fermi alla prima lettura e alle prime positive o negative impressioni.

  • L’impianto generale della sentenza

In merito, è interessante sottolineare come la Corte apra la sentenza ricordando che la disposizione dell’art. 116, III comma, “consente di superare l’uniformità nell’allocazione delle competenze (più avanti sottolineerà che di singole funzioni si deve trattare e non di intere  materie o ambiti di materie – come del resto sono state sempre formulate le preintese e le successive bozze di intese) al fine di valorizzare appieno le potenzialità insite nel regionalismo italiano” e che, proprio per questo, sia necessario ricollocare l’art. in esame nel quadro complessivo della forma di Stato.  Ricostruita in breve la natura di tale forma, ancora una volta la Corte specifica – forse anche rispondendo a certe critiche estreme che erano state avanzate – che l’attuazione dell’articolo “può essere non già un fattore di disgregazione dell’unità nazionale e della coesione sociale ma uno strumento al servizio del bene comune della società e della tutela dei diritti degli individui e delle formazioni sociali”.

Il riscatto e la valorizzazione dell’art. in esame trova  nel principio di sussidiarietà la sua stella polare, secondo una lettura che presenta tratti di singolare similitudine con un’altra sentenza di grande importanza per il regionalismo nostrano e per il principio citato in particolare, vale a dire la notissima sentenza Mezzanotte (sent. N. 303 del 2003); i nessi tra le due sentenze andranno senz’altro approfonditi ma alcuni elementi già emergono, tra cui – qui senza particolari approfondimenti – il senso del cd. strict scrutiny, già allora presente   proprio in relazione al controllo dell’esercizio corretto della sussidiarietà.

Quanto alla sussidiarietà di cui all’art. 118 Cost., rileva il richiamo al fatto che – ben oltre il tema della differenziazione – esso comporta l’esclusione di un modello astratto di attribuzione delle funzioni amministrative “ma richiede che sia scelto per ogni funzione il livello territoriale più adeguato”. Adeguatezza dunque, come centrale per l’interpretazione del principio, che significa – in concreto – valutare se la funzione che si prefigura come attribuita a un certo livello di governo sia davvero coerente con il contesto locale in tutte le sue sfaccettature.

Ora, è ben noto che normalmente le funzioni vengono allocate non dopo una attenta istruttoria circa l’adeguatezza della scelta che viene fatta dal legislatore bensì direttamente dalla legge, secondo il principio di legalità, e tale processo di attribuzione non verrà certo modificato sulla base delle dichiarazioni della Corte.

E’ pur vero, tuttavia, che proprio in sede di differenziazione, si dovrà attuare questo meccanismo virtuoso, quale esempio per tutta la legislazione in essere, visto che poi la Corte precisa che la scelta di addivenire al conferimento di determinate funzioni alle regioni richiedenti dovrà necessariamente essere motivato sulla base dei criteri che la Corte stessa enuncia e che costituiscono il nucleo forte del principio di sussidiarietà. Se il processo di differenziazione seguirà il suo corso, esso potrebbe dunque essere un modo iniziale ma metodologicamente  molto interessante per iniettare nel sistema nel suo complesso quel virus  (fin qui  dormiente e inefficace) della valutazione di adeguatezza delle allocazioni di funzioni fin qui realizzate. Se preso sul serio e ben fatto, tutto questo potrà portare molti frutti nel ripensare al sistema della attribuzione delle competenze nel suo complesso rispetto a come sia stato fin qui strutturato, vale a dire quasi sempre secondo processi top down che con la sussidiarietà e con la valutazione di adeguatezza delle relative decisioni non avevano circa nulla a che fare.

  • Un annuncio preventivo del tipo di controllo che la Corte farà su eventuali leggi di differenziazione

Su questo primo aspetto (che – oltre alla distinzione tra materia e funzioni va a interpretare, caso per caso, le materie dell’art. 116, III comma, individuandone alcune che non appaiono adatte a dar vita a  forme di differenziazione) l’impressione generale che si trae dalla sentenza (tutto il punto 4.)  è che la Corte, sulla base del principio di sussidiarietà fortemente valorizzato, richiamato e concretizzato nei suoi processi attuativi, abbia costruito una sorta di tool kit per prefigurare come essa si muoverà nel caso di un controllo di costituzionalità contro doglianze presentate da Regioni terze contro la legge di differenziazione. Essa distingue infatti i casi più ordinari, in cui l’attribuzione di funzioni riguarda materie “ordinarie” e casi in cui esse, caso mai, riguardassero le 8 materie “speciali”, che mal si prestano alla differenziazione. E’ qui che compare il richiamo al cd. scrutinio stretto che pare aprire ad un  quasi “controllo sul fatto” che circonda il controllo di adeguatezza delle scelte incorporate nelle intese e nella legge di approvazione delle stesse, con tutte le conseguenze del caso in termini di strumenti istruttori e di partecipazione di esperti. Qui si ritrova – come già accennato sopra – l’assonanza con alcuni argomenti e alcune tendenze evocate nella sent. 303/2003, in quella sede solo abbozzati ma di grande interesse.

  • Qualche cenno al resto della sentenza

La già ricordata complessità della sentenza impedisce ora di entrare in merito a tutti i punti e a tutte le questioni affrontate e risolte in questa sede. Un breve cenno, tuttavia, va fatto  ad un altro punto centrale, su cui davvero occorrerebbe un serio approfondimento, anche in grado di rivedere tanta letteratura sul tema. Si tratta della dichiarazione di incostituzionalità di alcuni aspetti della l. n. 86/2024 – e in particolare ai contenuti dell’art. 3 –  in cui si prefigurava un procedimento per la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali da erogare in modo uniforme su tutto il territorio nazionale. Di nuovo, si tratta di un tema di estrema problematicità, che va affrontato – ci ricorda la Corte – caso per caso e non secondo un processo valido in tutti i casi in cui è necessario procedere alla loro definizione. E già questa è una suggestione da considerare che, tra l’altro, rispecchia molto di quanto è già contenuto nella legislazione nazionale in materie quali la sanità, l’assistenza sociale, l’istruzione, il lavoro, legislazione che presenta anche caratteristiche diverse a seconda della materia su cui interviene. Su questo la Corte si sofferma con interessanti argomentazioni, che comprendono anche il richiamo e il paragone con il lavoro compiuto dalla Commissione tecnica per l’individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni (cd. Commissione Cassese, dal suo Presidente)  ma anche e soprattutto con la delegificazione, le cui caratteristiche vengono richiamate per dare indicazioni su come si dovranno poi attuare le normative in materia.

Molto altro ci sarebbe da dire e non è questa la sede per lunghe discettazioni. Qui si sono volute tracciare alcune linee di lettura e, soprattutto, di lavoro su quanto la Corte ci ha offerto, che possa essere utili ad attivare un dibattito sereno, utile a meglio comprendere e a meglio attuare sia la sussidiarietà sia gli strumenti che la Costituzione affida al potere centrale per offrire al Paese la uniformità necessaria al perseguimento di un bene che sia soprattutto “comune”.

*Professoressa ordinaria di Diritto costituzionale e Diritto pubblico comparato nell’Università degli Studi di Milano

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