MARIA GRAZIA RODOMONTE*
Il divieto alla pratica della maternità surrogata esiste in Italia dal 2004, anno in cui il legislatore, con la l. n. 40, recante “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”, ha previsto, tra l’altro, (art. 12, comma 6) che «chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro». Si tratta di una tra le previsioni più stringenti in materia, nel contesto di un panorama internazionale purtroppo ancora estremamente variegato, nonostante l’impegno profuso ormai da anni da numerose associazioni, molte di queste femministe, a favore dell’abolizione a livello mondiale di una pratica che mercifica il corpo della donna, sfrutta la sua funzione riproduttiva e riduce il bambino a mero oggetto di un contratto, ledendo quindi gravemente la dignità di entrambi[1].
Proprio la varietà degli approcci normativi e la conseguente possibilità di stipulare contratti di surrogazione in numerosi Paesi, compresi alcuni dell’Occidente più evoluto e industrializzato, hanno aperto le porte anche in Italia al cosiddetto “turismo procreativo”. Pratica in base alla quale una coppia, etero o omosessuale, si reca all’estero, in uno di quei Paesi nei quali la surrogazione è ammessa, e sulla base di un contratto che vincola la madre surrogata a consegnare il bambino al termine della gravidanza, potrà tornare nel Paese di origine con il “bambino in braccio”, ottenendo anche l’atto di nascita redatto all’estero che indica uno o entrambi i componenti la coppia come genitori “d’intenzione”, a seconda che vi sia o meno un soggetto della coppia che condivida con il nascituro il patrimonio genetico e che venga quindi riconosciuto come genitore biologico.
Sulla base di una ormai ricca e consolidata giurisprudenza, non solo costituzionale, ma anche della Suprema Corte di Cassazione, nel nostro Paese sono ormai stati posti inequivocabili punti fermi sia in merito al divieto assoluto alla pratica della maternità surrogata, considerato limite di ordine pubblico internazionale (pur non mancando ancor oggi tentativi da parte del giudice comune di oltrepassare paletti legislativi e giurisprudenziali che non lascerebbero invero spazio a interpretazioni oltremodo creative), sia con riferimento alla definizione dello status del minore nato all’estero nonostante il divieto. È opportuno quindi ricordare, sia pur brevemente, che già a partire dal 2012, nella decisione n. 272, la Corte costituzionale ha affermato che la maternità surrogata è una prassi che “offende in modo intollerabile la dignità della donna e che mina nel profondo le relazioni umane”, oltre a richiamare “l’elevato grado di disvalore che il nostro ordinamento riconnette alla surrogazione di maternità, vietata da apposita disposizione penale”. Secondo la Corte però, “pur dovendosi riconoscere un accentuato favore dell’ordinamento per la conformità dello status alla realtà della procreazione”, l’accertamento della verità biologica e genetica dell’individuo non costituisce un valore di rilevanza costituzionale assoluta, tale da sottrarsi a qualsiasi bilanciamento. A costituire criterio guida dell’azione del giudice deve essere infatti il best interest of the child, come peraltro già riconosciuto dalla ben nota giurisprudenza in tema della Corte EDU (v. Mennesson c. Francia e Labassée c. Francia). Proprio alla luce di tale “miglior interesse”, a partire da questa decisione, si ammette la possibilità di riconoscere non solo il legame con il genitore biologico ma, all’esito di una valutazione fatta caso per caso dal giudice, anche quello con il genitore intenzionale, che con il primo ha condiviso il progetto di mettere al mondo un bambino. Non si tratta di riconoscere un presunto “diritto alla genitorialità”, non presente nel nostro ordinamento, ma la prospettiva prescelta dalla Corte costituzionale può essere piuttosto considerata “paidocentrica”[2]: ponendo al centro gli interessi del minore, diviene necessario fare emergere i doveri in capo a chi del progetto genitoriale si è assunto sin dall’inizio la responsabilità. Nel contesto di un vuoto legislativo evidente proprio in relazione alla questione della definizione dello status del minore, il ricorso all’adozione in casi particolari viene così considerato sin dall’inizio quale soluzione percorribile all’esito del bilanciamento tra interesse alla verità di parto e interesse del minore al riconoscimento di legami di cura e di affetto che si sono determinati anche con il genitore intenzionale, a seguito della nascita. I profili problematici dell’adozione “mite”, relativi all’assenza di effettività e celerità del provvedimento di adozione e pienezza del rapporto di filiazione tra adottato e adottante, rilevati in seguito dalla stessa Corte costituzionale (sent. n. 33/2021), in linea anche in questo caso con la giurisprudenza della Corte EDU, risultano inoltre ormai superati dalla successiva declaratoria di incostituzionalità parziale dell’art. 55 della legge n. 184/1983 e dalla conseguente “espansione dei legami parentali tra il figlio adottivo e i familiari del genitore adottante che condividono il medesimo stipite” (C. cost. sent. n. 79/2022).
A completare il quadro della disciplina, tutta giurisprudenziale, relativa alla definizione dello status del minore nato all’estero da maternità surrogata è intervenuta infine una sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, la n. 38162 del 30 dicembre 2022, salutata in dottrina come “decisione di sistema”[3], poiché consente ormai di tracciare un quadro coerente di tutti i diversi piani di lettura[4] che si intrecciano inevitabilmente rispetto alla questione della maternità surrogata e dello status del minore: dal limite dell’ordine pubblico internazionale, al best interest of the child, alla tutela della dignità della donna e del bambino, passando all’adozione in casi particolari, fino alla definizione dei ruoli del legislatore e del giudice, ribadendo il divieto alla trascrizione automatica dell’atto di nascita di minore nato all’estero dalla pratica della surrogazione. In altri termini, la previsione di cui all’art. 12, c. 6 della legge n. 40 del 2004, ancor prima della modifica recentemente introdotta dal Parlamento, rappresenta un ostacolo rispetto alla possibilità del riconoscimento dell’efficacia di un rapporto di filiazione tra minore nato all’estero da surrogazione e genitore intenzionale: di fronte a una previsione legislativa che pone un divieto assoluto al giudice non è dato escludere in via interpretativa la lesività della dignità della persona umana e il limite dell’ordine pubblico internazionale, anche nei casi in cui tale pratica sia frutto di una scelta libera e consapevole della donna, indipendente da contropartite economiche e revocabile sino alla nascita del bambino. Al contempo la Suprema Corte non manca di ribadire il diritto del bambino nato da surrogazione di ottenere anche giuridicamente il riconoscimento del legame sorto “in forza del rapporto affettivo instaurato e vissuto con colui che ha condiviso il disegno genitoriale”, pur non condividendo con il bambino lo stesso patrimonio genetico.
In questo contesto, caratterizzato quindi, per un verso, dal divieto della pratica della maternità surrogata, riaffermato con decisione sia dal giudice costituzionale che dalla Suprema Corte di Cassazione, per l’altro, da un consolidato quadro di tutele a vantaggio del minore nato da maternità surrogata all’estero, restava però il varco offerto dalla mancata previsione di un divieto anche per il cittadino italiano che si fosse recato all’estero per realizzare, laddove ammessa, la surrogazione di maternità vietata dal legislatore italiano. Quasi inevitabilmente, si determinava così un’“eterogenesi dei fini” con riguardo alla prevalente esigenza di tutela del minore, soggetto incolpevole delle decisioni assunte da altri; esigenza alla base del percorso giurisprudenziale che si è fin qui cercato di sintetizzare. Infatti, una volta creato un legame tra il minore e i committenti, genitori legali nel Paese straniero prescelto per la nascita, costoro rivendicano il consolidamento dello status quo, la continuità cioè di quei legami affettivi che si sono determinati proprio grazie alla violazione in origine dei diritti del bambino, della sua dignità e della dignità della gestante. Ciò implica, quindi, che attorno alla “sistematica elusione del divieto previsto dalla legislazione italiana” [5]– da parte di coppie dello stesso sesso o eterosessuali – a far ricorso alla maternità surrogata, si è di fatto tessuta una trama sempre più fitta di garanzie della genitorialità di queste coppie, seppur mossa dall’intento di tutelare il best interest of the child.
Il legislatore italiano, con la recente approvazione del ddl n. 824, che modifica l’art. 6 della legge n. 40 del 2004, estendendo il divieto alla pratica della maternità surrogata anche se compiuta all’estero da cittadini italiani[6], si pone dunque nel solco della legislazione e della giurisprudenza pregressa, tentando di chiudere, per quanto possibile, quel varco che fino ad oggi ha di fatto consentito la prassi del turismo procreativo e contrastando quindi la logica del “fatto compiuto”. La previsione in base alla quale al comma 6 dell’articolo 12 della legge 19 febbraio 2004, n. 40, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: «Se i fatti di cui al periodo precedente, con riferimento alla surrogazione di maternità, sono commessi all’estero, il cittadino italiano è punito secondo la legge italiana», ha quindi l’obiettivo di rafforzare l’effettività della tutela penale con riguardo al delitto di surrogazione di maternità, già punito dall’originaria formulazione della legge n. 40 del 2004.
È quindi in primo luogo evidente come il riferimento all’introduzione di un “reato universale” di maternità surrogata non vada inteso nel senso che chiunque commetta il fatto sia dovunque punibile dal momento che la norma si riferisce esclusivamente alla punibilità del reato commesso all’estero da parte del cittadino italiano ed è quindi finalizzata ad agevolare l’applicabilità della legge italiana in quest’ultima ipotesi.
L’intervento del legislatore è stato oggetto di valutazioni contrapposte, venendo in particolare criticato da chi, pur riconoscendo che la pratica della surrogazione comporta una grave lesione della dignità della donna e del bambino, ha ritenuto che esso non sia idoneo a realizzare il fine che si propone. Gli argomenti addotti a sostegno delle critiche non sembrano però essere convincenti, né tantomeno prevalenti rispetto alle ragioni che militano a favore della scelta del legislatore. L’assenza di accordi con i Paesi nei quali la surrogazione di maternità è ammessa, e in ogni caso l’eventuale rifiuto di tali Stati di collaborare ai fini dell’accertamento della sussistenza di ciò che per il cittadino italiano sarebbe considerato reato, ma che è fatto lecito nel Paese nel quale la pratica della surrogazione si realizza, avrebbe quale conseguenza l’inutilità del riconoscimento della rilevanza penale della condotta. Va tuttavia evidenziato che la difficoltà della prova del reato non è di per sé argomento sufficiente ad escluderne la previsione. In primo luogo perché affermare o estendere un divieto già presente, come in questo caso, corrisponde alla più piena affermazione dei valori che tutela. Il che rappresenta “un primo irrinunciabile (seppur non ancora esaustivo) atto di giustizia”[7]. Ciò a prescindere da ogni altra considerazione in merito alla (supposta) assenza di futura collaborazione da parte degli Stati e della possibile difficoltà, tutta ancora da verificare in concreto, in relazione agli accertamenti che dovranno essere praticati a tal fine sul territorio nazionale. Va inoltre evidenziato che, già prima dell’introduzione della modifica in questione, in base a quanto previsto dall’art. 9 c.p., sarebbe stato astrattamente possibile perseguire il cittadino italiano che all’estero avesse commesso il reato di surrogazione. Tale punibilità è tuttavia subordinata, proprio ai sensi del richiamato articolo del codice penale, alla richiesta e al vaglio del Ministero della Giustizia. L’introduzione della previsione contenuta nella nuova disposizione consente invece di ricondurre l’ipotesi di reato nell’ambito dell’art. 7 c.p., comma 1, n. 5), ai sensi del quale viene punito secondo la legge italiana il cittadino o lo straniero che commette in territorio estero “ogni altro reato per il quale speciali disposizioni di legge o convenzioni internazionali stabiliscono l’applicabilità della legge penale italiana”. Si tratta quindi di una scelta che rende ben più agevole la repressione rispetto all’applicazione dell’art. 9, c. 2. Con riferimento, poi, al rilievo che i reati di cui all’art. 7 c.p.[8] siano tutti di gravità assoluta e che quindi, rispetto a questi, il reato di surrogazione di maternità sia del tutto eccentrico e difficilmente equiparabile va rilevato che, oltre a queste ipotesi ve ne sono tuttavia numerose altre (ad es. l’art. 591, comma 4, c.p., in tema di abbandono di minori o di incapaci; ma anche una serie di reati in materia sessuale) rispetto alle quali rileva l’esigenza imprescindibile di tutelare chi si trova in condizioni di particolare vulnerabilità, senza affatto escludere la punibilità laddove commessi all’estero[9]. Anche l’invito ad operare una distinzione, infine, tra maternità surrogata gratuita o solidale e maternità surrogata effettuata dietro compenso, assente nel testo di riforma, non sembra possa essere in alcun modo accolto. Come già le sezioni Unite della Suprema Corte hanno evidenziato nella decisione del 2022, la lesione della dignità della donna e del bambino rappresenta un dato oggettivo che prescinde dal fatto che vi sia o meno un compenso rispetto alla “prestazione” offerta dalla madre surrogata. Il divieto quindi non è comunque derogabile neanche nel caso di libera scelta del soggetto che sia leso nella propria dignità. La Cassazione esclude si possa individuare un discrimine oltre il quale il limite dell’ordine pubblico non opererebbe, consentendo l’automatica trascrizione dell’atto di nascita ottenuto all’estero nelle ipotesi richiamate, poiché il legislatore ha inteso tutelare la dignità della persona umana “nella sua dimensione oggettiva”, che è “riferita al valore originario non comprimibile e non rinunciabile di ogni persona”.
Qualche breve notazione finale. È evidente che, in un contesto internazionale non certo omogeneo e, come già esaminato, spesso permissivo quanto alla pratica della maternità surrogata, e di fronte alla realtà di una vera e propria industria basata sullo sfruttamento della capacità riproduttiva delle donne, che negli ultimi anni ha fatturato miliardi di dollari, l’accesso ad essa da parte di coppie che si rechino all’estero non può ritenersi completamente sradicata solo con l’approvazione del richiamato disegno di legge, essendo a tal fine necessario, come accennato all’inizio di queste brevi riflessioni, realizzare accordi internazionali che coinvolgano i Paesi nei quali la pratica è ammessa. Si tratta, come è evidente, di una strada lunga e impervia, percorribile solo con una profonda trasformazione di tipo culturale, alla quale è innegabile che, però, si contribuisca anche con le scelte legislative compiute da ogni Paese. Il rafforzamento della tutela penale prevista con la riforma, oltre quindi a rappresentare una scelta coerente rispetto al divieto già presente da anni in Italia, costituisce uno strumento di dissuasione a una pratica disumana e può certamente contribuire a sensibilizzare l’opinione pubblica rispetto a un tema che dovrebbe essere affrontato prescindendo da posizioni ideologiche e di parte. Non dimentichiamo, infine, che residua ancora spazio, in futuro, rispetto ad un intervento del legislatore in relazione al riconoscimento, per quanto certamente complesso, del diritto per chiunque e in qualsiasi modo sia venuto al mondo, a conoscere le proprie origini.
* Professoressa Associata di Istituzioni di diritto pubblico – “Sapienza” Università di Roma.
[1] Tra queste si può menzionare il CIAMS (Coalition International pour l’Abolition de la Maternité de Substitution), federazione nata nel 2018 che raccoglie più di cinquanta associazioni femministe attive in quattordici Paesi che promuove l’abolizione mondiale della maternità surrogata. Si ricorda inoltre che il 3 marzo del 2023 è stata firmata da oltre cento esperti in varie discipline la Dichiarazione di Casablanca per l’Abolizione universale della maternità surrogata.
[2] Così C. MASCIOTTA, La vexata questio della maternità surrogata torna dinnanzi ai giudici costituzionali, in federalismi.it, 22/2021, 190.
[3] M. BIANCA, Le Sezioni Unite e i figli nati da maternità surrogata: una decisione di sistema. Ancora qualche riflessione sul principio di effettività nel diritto di famiglia, in Questione Giustizia, 6 febbraio 2023.
[4] Ib.
[5] M.C. ERRIGO, Garantire le relazioni familiari. La decisione della Corte costituzionale n. 79/2022, in Osservatorio AIC, 3/2022, 337.
[6] Si tratta del ddl di “Modifica all’art. 12 della legge 19 febbraio 2004, n. 40, in materia di perseguibilità del reato di surrogazione di maternità commesso all’estero da cittadino italiano” – Titolo breve: “Norme in materia di contrasto alla surrogazione di maternità”.
[7] C. D. LEOTTA, Punire la surrogazione di maternità commessa dal cittadino anche all’estero?, in Altalex, 1 agosto 2023.
[8] Art. 7 c.p.: “È punito secondo la legge italiana il cittadino o lo straniero che commette in territorio estero taluno dei seguenti reati:
1) delitti contro la personalità dello Stato italiano;
2) delitti di contraffazione del sigillo dello Stato e di uso di tale sigillo contraffatto;
3) delitti di falsità in monete aventi corso legale nel territorio dello Stato, o in valori di bollo o in carte di pubblico credito italiano;
4) delitti commessi da pubblici ufficiali a servizio dello Stato, abusando dei poteri o violando i doveri inerenti alle loro funzioni;
5) ogni altro reato per il quale speciali disposizioni di legge o convenzioni internazionali stabiliscono l’applicabilità della legge penale italiana”.
[9] Come ricorda C. PARODI, La maternità surrogata come reato universale comprendere prima di valutare, in L-JUS, 1/2024, 148, “in termini generali ai sensi dell’art. 604 cod. pen. (Fatto commesso all’estero) si estende la punibilità di una serie di reati in materia sessuale (segnatamente «le disposizioni di questa sezione nonche quelle previste dagli articoli 609bis, 609ter,609quater, 609quinquies, 609 octies e 609 undecies») anche al «fatto commesso all’estero da cittadino italiano ovvero in danno di cittadino italiano…..». Infine − ed emblematicamente − nessun limite territoriale o legato alla cittadinanza è previsto, in base all’art. 600 quinquies cod. pen., per stabilire la punibilità di chi «organizza o propaganda viaggi finalizzati alla fruizione di attivita di prostituzione a danno di minori o comunque comprendenti tale attività…»”.