CGUE e la definizione di paese sicuro 

LAURA RESTUCCIA*

Con la sentenza del 4 ottobre 2024 la Corte di Giustizia dell’Unione europea si è pronunciata in merito a tre questioni pregiudiziali sollevate dalla Corte regionale ceca di Brno inerenti alle procedure accelerate di frontiera disciplinate dalla Direttiva 2013/32/UE – la cd. Direttiva procedure che, dal 12 giugno 2026, verrà sostituita dal Regolamento (UE) 2024/1348 – e alla nozione di Paese di origini “sicuro” (da ora POS). Oltre ad avere generato un importante impatto mediatico, in Italia la decisione ha dato origine a un conflitto istituzionale che coinvolge l’Esecutivo, da una parte, e l’Autorità giudiziaria, dall’altra. Nel presente commento si intendono analizzare le questioni prospettate alla CGUE cercando di metterne in evidenza i nodi nevralgici: in particolare, si rifletterà sulla nozione di POS, alla luce dell’art. 15 CEDU, degli artt. 36 e 37 e dell’Allegato I della Direttiva procedure, e sul potere del Giudice comune di non dare applicazione ad atti normativi interni che siano in contrasto con la disciplina ricordata.

Nella pronuncia, la CGUE si è anzitutto soffermata sull’interpretazione da fornire all’art. 37, in base al quale «gli Stati membri possono mantenere in vigore o introdurre una normativa che consenta, a norma dell’allegato I, di designare a livello nazionale paesi di origine sicuri ai fini dell’esame delle domande di protezione internazionale». Proprio in questa luce, il Tribunale di Brno chiedeva ai Giudici di Lussemburgo se uno Stato possa comunque definirsi “sicuro” nell’ipotesi in cui si avvalga (in caso di urgenza) del regime eccezionale previsto dall’art. 15 CEDU. L’allegato I della Direttiva, infatti, prevede che sia possibile iscrivere nella lista dei POS solo gli Stati che offrono protezione contro le persecuzioni e i maltrattamenti perché garantiscono il rispetto dei diritti e delle libertà sanciti dalla Convenzione e, in particolare, i diritti inderogabili previsti dal secondo paragrafo dell’art. 15 CEDU. Infatti, sebbene la disposizione «preveda che, in caso di guerra o di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione, sia possibile adottare misure in deroga agli obblighi previsti da tale convenzione», l’esercizio «di tale facoltà è accompagnato da certe garanzie» (§ 54): non è possibile derogare agli articoli 2 (“diritto alla vita”), 3 (“divieto di tortura”), 4, par. 1 (“divieto di schiavitù”) e 7 della Convenzione (“nulla poena sine lege”). Di conseguenza, per la CGUE la deroga prevista dall’articolo 15 CEDU costituisce un evento tanto significativo da incidere sulla capacità di un POS «di continuare a soddisfare i criteri enunciati dall’allegato I» (§ 54) e quindi «di presumere che esso sia in grado di garantire la sicurezza dei richiedenti» (§ 60). Nello specifico, chiarisce la Corte, la natura di POS non viene automaticamente meno, ma dall’applicazione della deroga discende l’obbligo, per le Autorità competenti dello Stato membro che ha proceduto alla designazione, di «valutare se le condizioni di attuazione di tale diritto [ossia del regime derogatorio]», incida sulla qualifica di POS dello Stato interessato (§ 62). In sostanza, sottolinea la Corte, le stesse Autorità sono tenute a effettuare di nuovo tutte le verifiche del caso, nel rispetto di quanto previsto dal secondo paragrafo dell’art 37 («gli Stati membri riesaminano periodicamente la situazione nei paesi terzi designati paesi di origine sicuri conformemente al presente articolo»).

La seconda questione pregiudiziale affrontata dalla CGUE attiene, invece, alla portata della nozione di Paese “sicuro” e, in particolare, alla possibilità di definirlo come tale quando si riscontrino «alcune eccezioni territoriali nei confronti delle quali non si applica la presunzione che quella parte del paese sia sicura [specificamente] per il richiedente». I Giudici di Lussemburgo, ricorrendo all’interpretazione letterale, sistematica, storica e teleologica dell’art. 37 della Direttiva procedure, chiariscono, dunque, che, per definire un Paese come “sicuro”, è sempre necessario valutare la specifica condizione in cui versa il richiedente asilo o protezione. In base ai primi due criteri interpretativi, proprio i termini «generalmente e costantemente» adottati dall’Allegato I fanno ritenere che le condizioni di sicurezza debbano essere rispettate in tutto il Paese (§ 69). Inoltre, dato il carattere derogatorio del regime di esame della domanda di protezione internazionale avanzata dal richiedente proveniente da un POS, l’art. 37 dovrebbe essere interpretato restrittivamente. Affermare, al contrario, che «esso consente di designare paesi terzi come paesi di origine sicuri, eccezion fatta per talune parti del loro territorio», avrebbe, invece, «l’effetto di estendere l’ambito di applicazione di tale regime speciale di esame» (§ 71). Per avvalorare la sua posizione, la CGUE ricorda pure come soltanto in passato la facoltà di indicare un Paese terzo come sicuro veniva concessa agli Stati membri dall’art. 30 della Direttiva n. 85 del 2005. Se è vero che tale disposizione prevedeva espressamente che gli Stati potessero designare come sicura anche una parte di un Paese (§ 73), attualmente molto è cambiato, come confermano tanto il testo della nuova Direttiva quanto i lavori inerenti la riforma della disciplina del 2005 (§ 76). Infine, anche una ulteriore considerazione depone nello stesso senso: la Direttiva procedure, infatti, «persegue l’obiettivo generale di istituire norme procedurali comuni» che permettano un esame veloce, adeguato e completo (§ 78). Il legislatore europeo, in altre parole, chiede alle Autorità nazionali – chiamate a verificare se un Paese sia o meno sicuro – di contemperare la rapidità e la completezza dell’esame necessario allo scopo. Gli Stati membri sono, quindi, tenuti a svolgere «un esame esaustivo delle domande di protezione internazionale presentate da richiedenti il cui paese d’origine non soddisfa, per tutto il [suo] territorio, le condizioni sostanziali di cui all’allegato I» della Direttiva procedure (§ 81). Così ragionando, la CGUE stabilisce che uno Stato sia definibile come POS esclusivamente nel caso in cui tutte le parti del territorio risultino sicure in relazione alla specifica condizione del richiedente (§ 83). 

La terza questione affrontata dai Giudici di Lussemburgo concerne i poteri del Giudice comune chiamato a valutare il diniego della domanda di protezione internazionale. La CGUE si interroga sull’interpretazione da fornire al terzo paragrafo dell’art. 46 della Direttiva, alla luce dell’art. 47 della Carta di Nizza. Tale paragrafo, infatti, prevede che «gli Stati membri assicurano che un ricorso effettivo preveda l’esame completo ed ex nunc degli elementi di fatto e di diritto compreso, se del caso, l’esame delle esigenze di protezione internazionale ai sensi della Direttiva 2011/95/UE, quanto meno nei procedimenti di impugnazione dinanzi al giudice di primo grado». Le caratteristiche del ricorso effettivo sono individuate dall’art. 47 della Carta di Nizza, che conferisce ai singoli «un diritto invocabile in quanto tale» (§ 86). Per la Corte alcuni dei termini adoperati dall’art. 46 (“ex nunc”, “completo”, “se del caso”) sono determinanti per comprendere le norme contenute nella disposizione: la locuzione “ex nunc” metterebbe in evidenza «l’obbligo del giudice di procedere a una valutazione che tenga conto, se del caso, dei nuovi elementi intervenuti dopo l’adozione della decisione oggetto dell’impugnazione» (§ 88); l’impiego dell’aggettivo “completo” confermerebbe che «il giudice è tenuto a esaminare sia gli elementi di cui l’autorità accertante ha tenuto o avrebbe dovuto tenere conto sia quelli che sono intervenuti dopo l’adozione della decisione da parte della medesima» (§ 89); l’espressione “se del caso”, infine, evidenzierebbe «il fatto che l’esame completo ed ex nunc incombente al giudice non deve necessariamente vertere sull’esame nel merito delle esigenze di protezione internazionale», ma che esso può «riguardare gli aspetti procedurali di una domanda di protezione internazionale» (§ 90), all’interno dei quali è riconducibile la designazione di un Paese terzo come POS (§ 91). In questa prospettiva, la Corte ribadisce che gli Stati membri «non dispongono di un potere discrezionale» quando devono decidere se riconoscere o meno la protezione internazionale (§ 97), ed è proprio per questa ragione che l’Autorità investita del ricorso deve sempre esaminare «tutti gli elementi di fatto e di diritto che consentano di procedere ad una valutazione aggiornata del caso di specie» (§ 87). L’Autorità giudiziaria interessata, quindi, è chiamata a vagliare anche la correttezza del rito prescelto (§ 95) e deve indagare ogni possibile violazione delle norme procedurali previste a livello europeo (§ 94): «quando un giudice è investito di un ricorso avverso una decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale esaminata nell’ambito del regime speciale applicabile alle domande presentate dai richiedenti provenienti» da POS, allora tale giudice «deve rilevare, sulla base degli elementi del fascicolo nonché di quelli portati a sua conoscenza nel corso del procedimento dinanzi ad esso, una violazione delle condizioni sostanziali di siffatta designazione, enunciate all’allegato I di detta Direttiva, anche se tale violazione non è espressamente fatta valere a sostegno di tale ricorso» (§ 98). 

In conclusione, pare importante ricordare come l’indirizzo interpretativo stabilito dalla CGUE abbia trovato una prima applicazione nelle decisioni del 18 ottobre della Sezione specializzata in materia di immigrazione del Tribunale di Roma, con le quali il Giudice italiano non ha convalidato il trattenimento di dodici persone migranti nel centro italiano di permanenza per il rimpatrio di Gjader (Albania). Il Tribunale di Roma, tuttavia, non si è limitato ad applicare la sentenza della CGUE, ma ha esteso il principio sul diniego di protezione internazionale poco sopra discusso alla convalida del trattenimento. Così facendo, il Giudice italiano non ha dato applicazione alle nuove procedure di frontiera perché i Paesi di origine designati come sicuri dal diritto interno (Bangladesh ed Egitto) non possono essere considerati tali in virtù del diritto UE.  La risposta del Governo è stata rapida: da una parte, si è rivolto alla Corte di Cassazione (che difficilmente potrebbe dare ragione all’Esecutivo, anche alla luce delle più recenti decisioni, come la n. 11399 del 9 aprile 2024); dall’altra, ha inserito l’elenco dei POS (comprensivo di alcuni Stati difficilmente definibili come tali), prima contenuto nel decreto interministeriale del 7 maggio 2024, nel decreto-legge n. 158 del 23 ottobre 2024. Sebbene l’adozione di una fonte primaria non sembri incidere sul quadro appena descritto – dato il principio del primato del diritto eurounitario – la scelta accennata ha comportato la formulazione di due ulteriori rinvii alla CGUE, sollevati dal Tribunale di Bologna il 25 ottobre e dal Tribunale di Roma l’11 novembre – volti, tra l’altro, a chiarire quale ruolo spetti al Giudice nazionale in casi simili e se sia possibile che una fonte interna, anche se primaria, indichi come POS Stati che tali non sono ai sensi della disciplina sovranazionale. Quasi superfluo immaginare l’esito dei più recenti rinvii pregiudiziali: sembra difficile, infatti, che i Giudici di Lussemburgo, in futuro, smentiscano loro stessi.

Dottoranda in Law and Pluralism, Università Milano-Bicocca

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