Antonella Anselmo*
Con le sentenze n. 68 e n. 69, depositate il 22 maggio 2025, la Corte costituzionale interviene nuovamente sul tema della procreazione medicalmente assistita (PMA). Vengono aggiunti nuovi tasselli al mosaico interpretativo e costituzionalmente conforme, in relazione ad una sofferta trama legislativa – la legge 40 n. 2004 – che opera il delicato bilanciamento tra autodeterminazione orientata alla genitorialità, interesse del minore e riconoscimento giuridico dei nuovi modelli familiari.
1. La sentenza n. 68/2025: illegittimità costituzionale dell’esclusione della madre intenzionale nei rapporti di filiazione
Con la decisione n. 68[1], la Consulta accoglie la questione di illegittimità costituzionale dell’art. 8 della legge n. 40/2004 in riferimento agli articoli 2, 3, 30 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 della CEDU, nella parte in cui non consente il riconoscimento del rapporto genitoriale tra il nato/a in Italia, da PMA praticata all’estero, e la madre intenzionale. La pronuncia aggiunge un ulteriore tratto di riconduzione della legge ai parametri costituzionali, sulla scia di altri precedenti (sent. nn. 151/2009, 162/2014, 96/2015 e 229/2015). Nella motivazione si rileva che l’esclusione normativa incide negativamente sulla posizione giuridica del minore, determinando una ingiustificata disparità di trattamento rispetto ai figli/e nati/e da coppie eterosessuali che ricorrono alla medesima tecnica. Nel dettaglio del parametro costituzionale si afferma che l’art. 2 Cost. è violato per la lesione dell’identità personale del nato/a e del suo diritto a vedersi riconosciuto/a sin dalla nascita uno stato giuridico certo e stabile; l’art. 3 Cost. è violato per l’irragionevolezza dell’attuale disciplina che non trova giustificazione in assenza di un contro interesse di rango costituzionale; l’art. 30 Cost. è violato perché lede i diritti del minore a vedersi riconosciuti, sin dalla nascita e nei confronti di entrambi i genitori, i diritti connessi alla responsabilità genitoriale e ai conseguenti obblighi nei confronti dei figli/e. Dunque nella prospettiva assorbente, child-centered, emerge come l’esclusione normativa incida negativamente sulla posizione giuridica del minore, determinando una ingiustificata disparità di trattamento rispetto ai figli/e nati/e da coppie eterosessuali che ricorrono alla medesima tecnica. La Corte sottolinea altresì come il principio dell’unicità dello stato di figlio (art. 315 c.c.) imponga di garantire parità di diritti indipendentemente dal contesto familiare di nascita, in adesione anche al consolidato orientamento della giurisprudenza europea (si vedano, ex multis, Corte EDU, Mennesson c. Francia, 2014[2]; Taddeucci e McCall c. Italia, 2016[3]). Nel valutare la lesione dell’art. 30 Cost., la Corte ritiene non più sostenibile un assetto che, pur riconoscendo nella prassi giudiziaria l’esistenza della madre intenzionale, le neghi il corrispondente statuto giuridico, pregiudicando così il diritto del minore a ricevere cura, protezione e continuità affettiva da entrambe le figure genitoriali.
2. La sentenza n. 69/2025: legittimità del divieto di accesso alla PMA per la donna singola
Viceversa, con la sentenza n. 69 del 2025[4], la Consulta rigetta le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5 della legge 19 febbraio 2004, n. 40, nella parte in cui riserva l’accesso alla procreazione medicalmente assistita (PMA) soltanto a coppie di sesso diverso, maggiorenni, conviventi o coniugate, in età potenzialmente fertile e affette da sterilità o infertilità accertata. La questione era stata sollevata dal Tribunale di Firenze, (reg. ord. n. 193/2024), nel procedimento promosso da E.B., alla quale un centro di PMA aveva negato l’accesso alle tecniche di fecondazione assistita, in ragione del divieto previsto dall’art. 5 della legge n. 40 del 2004 per le persone singole. La ricorrente proponeva ricorso cautelare ante causam, chiedendo in via principale di non applicare l’art. 5 della legge n. 40 del 2004, per contrasto con gli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), e, in via subordinata, chiedeva di sollevare questioni di legittimità costituzionale del medesimo articolo. Il giudice rimettente sollevava questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5 della legge n. 40 del 2004, nella parte in cui non prevede che anche la donna singola possa accedere alle tecniche di PMA, per violazione degli artt. 2, 3, 13, 32 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, nonché agli artt. 3, 7, 9 e 35 della Carta dei diritti. La pronuncia, che riafferma la discrezionalità del legislatore nella conformazione di istituti che implicano scelte di ordine etico e sociale, ritiene non irragionevole – considerata la ratio della medesima l.40/2004 – la preclusione all’accesso alle tecniche di PMA posta nei confronti della donna singola. In particolare la Corte, ripercorrendo i propri precedenti in materia, valorizza l’intento legislativo originario, volto a garantire, nella prospettiva del superiore interesse del nato o della nata, la presenza di una coppia genitoriale composta da madre e padre, come contesto familiare ritenuto a priori idoneo alla crescita e allo sviluppo psicofisico del minore. La legge 40/2004, improntata al principio di precauzione, è infatti volta a porre rimedio “ai problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana” (art. 1, comma 1. Il ricorso alle tecniche di PMA presuppone “l’impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione”, e previo accertamento medico (art. 4, comma 1). Conseguentemente i requisiti soggettivi previsti dal censurato art. 5 sono correlati alle patologie accertate e si conformano come alternativa medica al fatto naturale della procreazione. Tale orientamento, già espresso in precedenti pronunce quali la sentenza n. 162 del 2014, che ha sancito l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, della legge n. 40 del 2004, nella parte in cui stabiliva per la coppia il divieto del ricorso a tecniche di PMA di tipo eterologo, e la sentenza n. 229 del 2015, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, commi 3, lettera b), e 4, della medesima legge, nella parte in cui ammetteva il trasferimento nell’utero della donna dei soli embrioni sani o portatori sani di malattie genetiche. Dunque la sentenza in esame si pone in continuità con l’interpretazione secondo cui l’art. 2 Cost. tutela l’autodeterminazione individuale orientata alla genitorialità, ma non fino al punto da legittimare un diritto soggettivo pieno alla genitorialità al di fuori del perimetro prudenziale definito dal legislatore. Passaggio essenziale dell’iter argomentativo è il discrimine (punti 10.1 e 10.2 sentenza) tra la concreta potenzialità alla vita, (il profilo a posteriori ossial’avvenuta fecondazione dell’embrione, già tutelabile anche a fronte del venir meno del consenso paterno all’impianto, vd. sent. 161/2023, 84/2016, 229/2015) e il puro desiderio della donna singola alla monogenitorialità, con esclusione a priori della figura del padre. In altri termini la scelta del legislatore, che si conforma al principio di precauzione, non è irragionevole ma neanche rappresenta l’unica scelta obbligata, sicché non possono escludersi futuri interventi legislativi che modifichino la disciplina sull’accesso alla PMA. Né precisa la Corte, esiste un solo modello familiare, considerato altresì che la monogenitorialità è riconosciuta nei casi che sollecitano la centralità dell’interesse del minore (adozione internazionale, vd. sent. 33/2025)
3. Osservazioni conclusive.
Le due pronunce, lette insieme, offrono una lettura prudente e di equilibrio tra il riconoscimento dei nuovi diritti e la salvaguardia di assetti normativi tradizionali. Se la sentenza n. 69/2025 riconosce non irragionevoli i limiti all’accesso alla PMA, riaffermando una lettura restrittiva dell’autodeterminazione procreativa, la sentenza n. 68/2025, al contrario, si fa carico di sanare un vuoto di tutela nei confronti dei figli/e nati/e all’interno di modelli familiari non tradizionali. Dal punto di vista etico, emerge con forza il principio di responsabilità generativa a fronte della vita in atto: non è la sola biologia a fondare la genitorialità, bensì l’assunzione consapevole di un progetto condiviso di cura. In tale prospettiva, il diritto non può ignorare l’evoluzione delle relazioni familiari e affettive, né restare insensibile all’urgenza di proteggere i soggetti più vulnerabili – i minori – mediante un riconoscimento pieno e non discriminatorio dei legami che li definiscono. In ultima analisi, il bilanciamento tra autodeterminazione orientata alla genitorialità e interesse del minore non può prescindere dal riconoscimento della vita concreta e già in fieri.
[1] Testo integrale della sentenza: https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?param_ecli=ECLI:IT:COST:2025:68 .
[2] Nel caso Mennesson c. Francia, la Corte europea dei diritti dell’uomo è stata chiamata a pronunciarsi su una questione di cruciale rilievo giuridico ed etico: il riconoscimento legale del rapporto di filiazione tra due minori, nati da maternità surrogata legalmente effettuata negli Stati Uniti, e i loro genitori intenzionali, cittadini francesi..
Per il testo integrale della sentenza: “https://hudoc.echr.coe.int/eng – {“itemid”:[“001-145389”]} “.
[3] Nel caso Taddeucci e McCall c. Italia, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha affrontato una vicenda esemplare dell’impatto che la mancanza di riconoscimento giuridico delle unioni omosessuali può avere sulla tutela effettiva della vita familiare nel contesto europeo. Per il testo integrale della sentenza:” https://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-166331”.
[4] Testo integrale della sentenza: https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?param_ecli=ECLI:IT:COST:2025:69.
*Avvocata del Foro di Roma – Rete per la Parità.