CARLO AMIRANTE*
1. Premessa
Nel saggio del 1997 sulla Tecnopolitica Stefano Rodotà si chiedeva “quale è il destino della democrazia nel tempo in cui le tecnologie dell’informazione, della comunicazione ridisegnano i ruoli della politica, abbattono confini, negano gli stessi vincoli dello spazio e del tempo, cancellano soggetti antichi e creano soggetti, soggettività nuove”? Anche se Rodotà si rendeva conto che l’intera società giorno dopo giorno si scopre continuamente mutata e che l’avanzare incessante della tecnologia favorisce la nascita dell’era della sorveglianza e di limiti sempre più invasivi per i diritti fondamentali, non poteva certo prevedere che nel giro di un ventennio anche per l’inerzia della gran parte dei cittadini si andasse così avanti nella creazione della “società algoritmica” che, come si vedrà, ha lasciato ampi spazi a quella che viene oggi definita “algocrazia”.
È avvenuto così, per citare il saggio introduttivo ad uno stimolante volume di T. Berns (Governare senza governare), che l’algoritmo è divenuto oggi fonte di una trasformazione così ampia ed incisiva da caratterizzare in nuove forme la funzione del governare (svincolandola da una lunga e consolidata organizzazione e prassi politica ed istituzionale), identificata con la formula di “governamentalità algoritmica”.
Questa terminologia è un’espressione che mette insieme il concetto di governamentalità coniato da Michel Foucault e la nuova dimensione che sta assumendo oggi la tradizionale forma di governo patrimonio dei paesi occidentali, grazie agli apporti determinanti che lo strumentario algoritmico assicura a chi ha il compito di guidare ed orientare l’intera vita politica, economica e sociale di una comunità o di un intero paese.
L’argomento, per la sua estrema complessità non si presta ad una trattazione sintetica; mi limito quindi a tracciare le linee di una ricerca più ampia ed articolata sulla stessa tematica, in corso di stampa.
Purtroppo, se si escludono talune eccezioni che per fortuna negli ultimi tempi si stanno moltiplicando, i temi della forma di Stato e della forma di Governo, come è risultato anche dalle relazioni dell’ultimo convegno nazionale dei costituzionalisti a Brescia, vengono affrontati ignorando sia la progressiva crisi delle istituzioni democratiche previste dalla Costituzione del ’48, che le analisi degli studiosi di sociologia, politologia, filosofia politica, filosofia del diritto e perfino i contributi degli studiosi di diritto costituzionale comparato, in particolare di lingua inglese, che danno per scontato il passaggio dal concetto e dal lemma government a quello di governance. Ciò che rende ancora più incomprensibile gli approcci metodologici della gran parte della dottrina costituzionalistica italiana è ignorare che ormai non solo nei dibattiti politici e nei media nazionali, ma anche tra i responsabili e gli amministratori, in particolare a livello regionale e comunale, si parla quotidianamente della governance dei servizi pubblici, della salute, dei trasporti, ecc… Discorsi tutti che, anche se quasi sempre mancano espliciti riferimenti, danno per scontato che nell’era della globalizzazione e dell’Unione Europea, i processi di privatizzazione e per conseguenza la sempre più ampia cooperazione tra le istituzioni e le imprese private, hanno assunto un tale rilievo da giustificare e legittimare, ben al di là di quanto la Costituzione vigente consentirebbe, il passaggio dal government alla governance. Se non si parte da questa consapevolezza, diventa difficile sia comprendere le ragioni profonde della progressiva crisi del concetto e dei contenuti della responsabilità politica sia l’inevitabile ulteriore diffusione della corruzione e dei conseguenti scandali e inchieste giudiziarie.
In questo quadro non si tratta certo di abbassare la guardia nella difesa della Costituzione e dei più recenti progetti di revisione radicale o di svotamento e travisamento della forma di Stato e di Governo e del sistema di Governo regionale, che solo apparentemente e formalmente non toccano i principi e i valori fondamentali della Costituzione. Temi ai quali da decenni ho dedicato i miei studi ponendo in rilievo soprattutto nei tre volumi (Unioni sovranazionali e riorganizzazione costituzionale dello Stato, Torino, 2001; Costituzionalismo e Costituzione nel nuovo contesto europeo, Torino, 2003; Dalla forma stato alla forma mercato, Torino, 2008) il ruolo dei processi per molti versi paralleli di globalizzazione (che hanno dato luogo in modo proprio o improprio al concetto e alle pratiche di global governance) e d’integrazione (!!??) europea (ed in questo caso si parla di european governance). Partendo dalla convinzione che solo così è possibile farsi un’idea chiara delle radici della crisi del nostro sistema costituzionale.
Certo l’origine delle nuove formule politiche ed istituzionali, a partire proprio dalla governance e dai nuovi strumenti analitici e metodologici (come multilevel governance e accountability, termine usato in luogo di responsabilità) con cui vengono affrontate le nuove prassi politiche, istituzionali e normative, sono la conseguenza dello spostamento a livello internazionale e sovranazionale di poteri decisionali e normativi, una volta spettanti allo Stato e alle sue istituzioni. Ma sono anche conseguenza determinante e pervasiva dei nuovi linguaggi derivati dal ruolo preminente svolto da economisti e tecnocrati provenienti dai settori più diversi, soprattutto dall’informatica, dalla statistica (quindi dalle scienze matematiche) ed oggi dai più complessi e sofisticati sistemi algoritmici. Sistemi che, come si è accennato all’inizio, hanno assunto sempre più peso tanto nella ricerca scientifica e tecnologica che nella pratica politica, istituzionale e giuridica, dando vita al fenomeno noto come algocrazia.
2. L’algocrazia, sociale e privata, ossia il potere illimitato e incontrollabile dei sistemi algoritmici che prevalgono in ogni settore della vita politica, economica, sociale e privata è un fenomeno di tale ampiezza da richiedere un’analisi a tutto campo improponibile in questa sede. Mi limito perciò ad affrontare brevemente l’impatto che l’informatica giuridica e più in generale i sistemi algoritmici hanno sul linguaggio giuridico, in particolare sulla Costituzione, nella scia di due recenti saggi che, al di là delle conclusioni, affrontano in modo critico ed approfondito fenomeni e rischi in realtà già da almeno trent’anni affrontati (G. Cavaggion e M. Orofino, Lingua e Costituzione: l’irrompere dei linguaggi algoritmici, in Rivista AIC, n. 4/2023; F. Balaguer Callejon, La costituzione dell’algoritmo, traduzione di G. Palombino, Le Monnier, 2023). E in effetti, il tema del linguaggio giuridico e della sua evoluzione-adeguamento agli inevitabili mutamenti politici, economici e sociali se, da sempre, è stato oggetto di riflessione sul doppio versante della terminologia tipica non solo della dottrina e della teoria generale del diritto, ma anche della prassi amministrativa e giudiziaria e dell’evoluzioni sia del mondo degli affari che nell’ambito dei rapporti sociali, diviene ancora più complesso quando l’indagine riguarda i principi e le norme costituzionali.
Un confronto, sia pure fugace, fra la lingua dello Statuto Albertino e quella della Costituzione vigente è illuminante a tal proposito.
Se infatti è indubbio che i linguaggi giuridici e ancor più la lingua di una costituzione rappresentano, com’è stato sottolineato in più occasioni, un importante elemento identitario, un’identità culturale che dovrebbe costituire anche un’importante elemento d’integrazione, un’analisi approfondita sia dei dibattiti in Assemblea Costituente che del contributo della dottrina e della giurisprudenza della Corte Costituzionale, mostra che tanto le soluzioni linguistiche che caratterizzano i principi fondamentali a partire dall’art. 1 Cost. che le norme relative al regime delle libertà e dei diritti definiti inviolabili, e ancor più i diritti economici e sociali, si caratterizzano per una netta contrapposizione sia alle cosiddette “leggi fascistissime” che ai principi e alle norme dello Statuto Albertino.
In una fase della nostra storia politica e istituzionale in cui risultano ormai ‘estinti’ non solo i grandi partiti costituenti ma anche quello sparuto gruppo di politici formatisi all’ombra di quei partiti, andrebbe forse coraggiosamente rilanciata l’idea habermasiana del “patriottismo costituzionale”.
Col riemergere di un nazionalismo esasperato che sembra revocare in modo progressivo il pluralismo politico ed ideologico, confondendo e stravolgendo con corrive riforme costituzionali istituzioni di governo ed istituzioni di garanzia in nome di un malintesa esigenza di rafforzamento dei poteri di governo, di fronte ai quali le funzioni della Magistratura, della Corte Costituzionale e del Capo dello Stato dovrebbero risultare significativamente ridimensionate, i principi e i valori fondamentali della Costituzione dovrebbero giocare un ruolo determinante anche nel giusto impegno dei governi degli stato membri dell’UE a partire dal nostro Paese. Solo così la dignità e la sicurezza del lavoro, la solidarietà e i diritti sociali e soprattutto la pace e la cooperazione anche con i paesi europei che non fanno parte dell’Unione Europea possono avere una chance di realizzare quella riforma sostanziale delle istituzioni eurounitarie nella direzione sempre invocata ma mai concretamente sostenuta “dell’Europa dei popoli e dei lavoratori”.
La differenza abissale tra la lingua dei Trattati comunitari – e in particolare del cosiddetto Trattato che intendeva istituire una Costituzione europea – e quella della Costituzione italiana è dimostrata senza dubbio dal confronto impietoso fra i due testi. Mentre nella Costituzione del 1948 manca addirittura la parola mercato nella cosiddetta Costituzione europea questa parola appare 88 volte, la parola banca 76 volte, liberalizzazione o liberale 9 volte, concorrenza o concorrenziale 29 volte, capitali 23 volte, commercio e i suoi derivati 38 volte. Ne risulta così una sorta di copia e incolla della terminologia usata nei testi fondativi del FMI e OMC. Questa contrapposizione tra i due testi è così evidente che Sabino Cassese, in più occasioni, ha affermato che era sufficiente risolvere le antinomie sostituendo ai principi e norme costituzionali che regolano i rapporti economici e sociali quelli contenuti nei trattati comunitari. Un tipo di interpretazione, absit iniuria verbis, che le teorie dei costituzionalisti e della stessa Corte costituzionale che ondeggiano fra la teoria dualista (ossia la separazione di competenze e poteri fra i due sistemi normativi) e la teoria dei controlimiti, che non sono affatto riuscite a neutralizzare o limitare il principio della prevalenza delle norme (e quindi della lingua dei Trattati). Tutt’al più sono riuscite solo ad esorcizzare il fatto ben più concreto e inconfutabile che i frequenti conflitti spesso si risolvano a vantaggio delle istituzioni di Bruxelles.
Cavaggion e Orfini, a proposito dei rapporti complessi tra linguaggio algoritmico di alto livello e linguaggio naturale, affermano che il linguaggio di alto livello presenta rischi minori, perché più vicino al linguaggio naturale e al ragionamento umano. Mentre i sistemi algoritmici di basso livello sono quelli che arrivano direttamente alle caratteristiche specifiche dei linguaggi delle macchine creando dei rischi per la tenuta dei principi, dei diritti e dei doveri della nostra Costituzione. Rischi cui si potrebbe andare incontro per aspetti che finora non sono stati affrontati con la dovuta attenzione e profondità. Soprattutto perché le modalità e le caratteristiche dei linguaggi algoritmici che si giovano della lingua inglese, come sostengono (Cavaggion e Orfino), sono inevitabilmente destinati a riproporre problematicamente il tema della disuguaglianza e del digital divide.
Il saggio monografico di Balaguer Callejon, a sua volta, analizza la progressiva dissociazione fra realtà fisica e realtà virtuale che produce la “distruzione di una percezione sociale condivisa della realtà”.
“La gerarchizzazione dei processi comunicativi dovuti al progressivo e frequente impatto delle nuove fonti del diritto elaborate algoritmicamente” produce effetti ambigui e pericolosi su una vasta gamma di diritti e doveri garantiti dalla Costituzione. Il tema è estremamente complesso, innanzitutto perché riguarda il procedimento di formazione di queste nuove fonti di diritti e doveri (sempre più spesso create da privati). Basti solo l’esempio dell’impatto diretto dei sistemi algoritmici sulle libertà, sui diritti e i doveri, previsti dalla nostra Costituzione che pure sembrerebbero tutelati in modo puntuale con l’efficace strumento della riserva di legge (ma che efficacia conserva tale tutela difronte ai poteri e alle regole ‘autopoietiche’ delle piattaforme digitali?). Ben diverso è il caso della nuova forma di regolazione informatica e digitale nel settore della telefonia e più generale della comunicazione (anche nei delicati settori amministrativi e giudiziari) un tempo gestiti dalla mano pubblica ed oggi affidati alle imprese private. In questi e molti altri casi analoghi – che non è possibile affrontare in queste brevi note – i diritti garantiti dalla Costituzione a partire dalla privacy e dall’appropriazione indebita (non solo) dei dati personali, corrono rischi più che lampanti. Tralasciando in questa sede i temi del nuovo colonialismo digitale che affidando a grandi oligopoli la gestione di servizi informatici e digitali hanno assunto il quasi monopolio della ricerca sia pubblica e privata dell’intelligenza artificiale (che gli Stati a partire dagli USA hanno loro demandato e finanziato) non si possono che condividere le preoccupazioni dell’autore. La sua proposta di costituzionalizzare l’algoritmo che intende così prevedere degli efficaci controlli sulle prestazioni delle grandi imprese informatiche che forniscono dati sia alle imprese private che alle istituzioni. Ben più complesso appare invece la proposta di Balaguer di “digitalizzare la costituzione” se ciò dovesse significare (come sembra) adattare la Costituzione alle condizioni della società digitale del nostro tempo.
In un’era in cui il sogno aurorale della produzione artificiale degli esseri umani sembra ormai alle porte, in cui la ricerca e la produzione di strumenti bellici sempre più sofisticati e il finanziamento e l’organizzazione della ricerca e della conquista e colonizzazione dello spazio sono anch’esse nelle mani dei privati, diventa improcrastinabile affrontare il tema complesso dell’algoretica. Ossia delle conseguenza per l’umanità di quel meraviglioso prodotto della ricerca e dell’intelligenza umana che, proprio perché non ha senso definire artificiale, non deve essere né affidata né addirittura riservata a soggetti privati e alle dominanti forze del mercato. Il recupero della coscienza e della responsabilità individuale e collettiva va posto perciò al centro delle regole che impongano giusti limiti ad un’evoluzione pericolosa e rischiosa di nuovi strumenti scientifici e tecnologici di governo del mondo e della vita di ciascuno di noi.
*Già professore ordinario di Dottrina dello Stato e docente della II cattedra di diritto costituzionale, Università degli studi di Napoli Federico II. Un sentito e sincero ringraziamento è dovuto a Dario Catena e Giuseppe Mantia per il proficuo dibattito e discussione sul tema affrontato oggetto di una più ampia ricerca.
Sul medesimo argomento vedi anche il contributo di Oreste Pollicino.