Aurora Maggi*
L’abuso della decretazione d’urgenza (V. C. Amirante, 2025) rappresenta da anni uno dei nodi più critici (V. Corte costituzionale, sentenze n. 171 del 2007, n. 128 del 2008 e pronuncia n. 146 del 2014), per la tenuta dello Stato di Diritto e della nostra Carta costituzionale (V. T. Groppi, 2025).
In tale solco si colloca il Decreto-legge – Sicurezza n. 48 del 2025 (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario), convertito dalla legge n. 80 del 2025. Quest’ultima incide su molteplici ambiti, ma in questa sede si è scelto di focalizzarsi sull’art.15 del decreto, che interviene sulla disciplina prevista dagli artt. 146 e 147 c.p. in materia di tutela della maternità rispetto all’esecuzione della pena o all’applicazione di misure cautelari a donne coinvolte in vicende penali ancora sub iudice.
In precedenza, il codice penale e il codice di procedura penale prevedevano l’istituto del rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena detentiva nei casi connessi alla gravidanza in atto o alla primissima infanzia. Si trattava di un istituto di natura oggettiva, che non richiedeva alcuna valutazione discrezionale da parte dell’autorità giudiziaria: occorreva verificare il ricorrere delle condizioni previste dalla legge – ossia lo stato di gravidanza o la presenza di figlia/o di età inferiore a un anno – presupposto per il differimento obbligatorio della pena (artt. 146 c.p. e 684 c.p.p.). L’unico interesse rilevante, come si evince dall’art. 146 c.p., era la tutela della maternità e dell’infanzia, senza alcun rilievo per valutazioni di merito o pericolosità sociale della donna detenuta.
In questo quadro, la revoca del rinvio era ammessa unicamente in presenza di due circostanze ben definite: l’interruzione della gravidanza o la decadenza dalla responsabilità genitoriale. Anche in questo caso, si trattava di ipotesi oggettive e non di valutazioni discrezionali: il venir meno delle condizioni che imponevano protezione (gravidanza o maternità effettiva), determinava automaticamente l’inapplicabilità dell’istituto.
L’art. 15 del Decreto-legge-sicurezza, convertito in legge, ha abrogato il co. 1, numeri 1) e 2), dell’art. 146 c.p., che prevedeva il rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena detentiva per le donne incinte e per la madre di figli/e minori di anni uno. Conseguentemente, viene soppresso anche il co. 2, connesso alle disposizioni del co. 1, relativo ai casi di revoca o diniego del rinvio. Tale abrogazione comporta l’eliminazione dell’obbligatorietà del rinvio della pena non pecuniaria (come previsto dal combinato disposto degli artt. 146 c.p. e 684 c.p.p.) nei confronti di donna incinta o madre di infante di età inferiore ad anni uno.
Parallelamente, è stato modificato anche l’art. 147 c.p., relativo al rinvio facoltativo della pena. In base alla nuova formulazione, il Magistrato di Sorveglianza prima facie, e successivamente il Tribunale di Sorveglianza, è chiamato a valutare caso per caso l’opportunità di disporre il rinvio dell’esecuzione della pena per madri di prole di età compresa tra uno e tre anni, così come per donne incinte o madri di figli minori di un anno, quest’ultima ipotesi ora disciplinata dal nuovo comma 3-bis. Di fatto, il contenuto dell’abrogato co. 1 dell’art. 146 c.p. è stato traslato, divenendo discrezionale, nel co. 3 dell’art. 147 c.p.
L’unico elemento distintivo introdotto – in particolare dal nuovo comma 5 dell’art. 147 c.p. – nel trattamento delle donne incinte o madri di figli minori di un anno rispetto alle madri di figli di età compresa tra uno e tre anni riguarda il luogo di esecuzione della pena, nei casi incui non sia possibile disporre il rinvio dell’esecuzione per la presenza di «unasituazioni di pericolo, di eccezionale rilevanza, di commissione di ulteriori delitti».
In tali ipotesi per le donne incinte o le madri di figli/e di età inferiore a un anno, la pena deve essere eseguita obbligatoriamente presso un Istituto a Custodia Attenuata per Madri (ICAM); e per le madri di figli di età compresa tra uno e tre anni, la pena può essere eseguita presso un ICAM solo se le condizioni di eccezionale rilevanza lo consentono. Gli ICAM sono però solo quattro in Italia (San Vittore, Venezia Giudecca, Lauro e Torino)[1], dimostrandosi strutturalmente inadeguati a garantire la tutela della maternità e dell’infanzia.
Come rilevato nel Dossier del Servizio Studi di Camera e Senato e segnalato dal Comitato per la Legislazione della Camera nella seduta del 29 maggio 2024, nei casi in cui non possa disporsi il rinvio facoltativo della pena perché in presenza di pericolo di eccezionale rilevanza, andrebbe valutata – oltre la disciplina in esame – anche la detenzione domiciliare per le madri detenute ai sensi dell’art. 47 ter co. 1, lett. a), O.P. Non è chiaro, tuttavia, se la nuova formulazione dell’art. 147 c.p. lasci ancora spazio alla detenzione domiciliare in tali ipotesi, posto che il testo fa riferimento alla possibilità di disporla solo qualora il rinvio (obbligatorio o facoltativo) non sia applicabile. L’abrogazione dell’art. 146 c.p. potrebbe rendere meno chiara questa possibilità. A prescindere dai profili di merito, questo elemento rafforza l’impressione che il nuovo assetto normativo richiedesse un più approfondito dibattito – solo accennato in sede parlamentare, prima dell’intervento del Governo – che invece è stato eluso anche in sede di conversione del decreto.
Si tratta di un nodo centrale perché la nuova disciplina introdotta con la legge di conversione n. 80 del 2025 suscita perplessità, in particolare sotto il profilo del bilanciamento degli interessi contrapposti. In precedenza, il rinvio dell’esecuzione della pena attraverso il suo carattere obbligatorio riconosceva assoluta prevalenza all’interesse del/della minore nella primissima infanzia. In questi casi, il rinvio poteva essere negato ab initio, o revocato qualora già concesso, solo nei casi di interruzione della gravidanza, decadenza dalla responsabilità genitoriale ai sensi dell’art. 330 c.c., morte della/del figlia/o o affidamento a terzi, purché fossero decorsi almeno due mesi dall’interruzione della gravidanza o dal parto.
Occorre chiarire che il comma 4 dell’art. 147 c.p. – rimasto invariato – già prevedeva la revoca o la negazione del rinvio in caso di «concreto pericolo della commissione di delitti», limitando in tal modo la discrezionalità del giudice. Tuttavia, il nuovo comma 5, oltre a riferirsi alle situazioni prima disciplinate dall’art. 146 c.p., introduce un elemento di criticità. Consente infatti la negazione o la revoca dl rinvio anche nei confronti di donne incinte o madri di minori di un anno, in presenza di «situazione di pericolo, di eccezionale rilevanza, di commissione di ulteriori delitti». Pur trattandosi di una formulazione più garantista rispetto a quella contenuta al comma 4 – richiedendosi infatti un pericolo non generico, ma connotato da un’«eccezionale rilevanza» – resta comunque il dubbio interpretativo su quale tipo di valutazione il giudice debba operare: se una valutazione di tipo personologico, fondata sulla propensione individuale alla recideva (ad esempio, la reiterazione di reati della stessa indole), oppure una valutazione riferita alla gravità del reato commesso.
Con la nuova formulazione – e la conseguente eliminazione della distinzione tra rinvio obbligatorio e facoltativo – l’interesse del/della minore non è più considerato preminente in via assoluta, ma valutabile solo se non prevalgono esigenze di sicurezza collettiva.
Nel complesso, la riforma sembra segnare una regressione rispetto al quadro normativo ispirato dalla Legge Finocchiaro (legge n. 40 del 2001) e dalla Legge Gozzini (legge n. 633 del 1986), orientate a garantire la tutela della donna in gravidanza, il pieno sviluppo della personalità del/della minore, in linea con i principi di protezione della genitorialità e dell’infanzia sanciti dall’art. 30 e 31 Cost., nonché dall’art. 3, co. 1 della Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza cel 1989, secondo cui l’interesse superiore della persona minore «deve essere una considerazione preminente».
La nuova disciplina sembra, inoltre, tradire, tra gli altri, il Protocollo di Intesa del 21 marzo 2014 tra Ministero della Giustizia e Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza che ha condotto alla redazione della Carta dei diritti dei genitori detenuti. In questo documento, richiamandosi ai principi guida riferiti allo stato detenzione, alla maternità e alla tutela della persona minore, si manifestava la volontà di offrire una tutela sempre più rispettosa delle contrapposte esigenze di giustizia e tutela dell’infanzia.
L’art. 15 del Decreto-sicurezza non sembra neppure in linea con le Regole di Bangkok del 21 dicembre 2010, Regole delle Nazioni Unite relative al trattamento delle donne detenute e alle misure non detentive per le donne autrici di reato, che impongono agli Stati un trattamento penitenziario graduato e graduabile alle loro esigenze di maternità futura (quanto in stato di gravidanza) o già in essere. Né tantomeno con gli arrtt. 64 e 65 delle Regole penitenziarie europee, adottate con la Raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa dell’11 gennaio 2006 che prevedono espressamente che gli Stati si impegnino a mantenere e rafforzare i rapporti delle persone detenute con i membri della famiglia.
L’evoluzione storica, che nel periodo antecedente al decreto in commento, aveva progressivamente segnato una significativa sensibilizzazione delle autorità pubbliche verso la tutela della maternità e dell’infanzia, pur essendo stata solo marginalmente richiamata, consente comunque di cogliere una differenza significativa rispetto allo spirito attuale.
In questo senso, l’abrogazione del rinvio obbligatorio della pena non risulta, di per sé, un elemento critico nella misura in cui affida al Magistrato di Sorveglianza una valutazione caso per caso. Ciò che invece suscita forti perplessità è il mutato assetto valoriale: il diritto della persona minore a vivere in un ambiente adeguato e a mantenere un rapporto quotidiano con la madre diviene oggi oggetto di bilanciamento con le esigenze di sicurezza collettiva (V. sul rapporto sicurezza-libertà, A. Morrone). Quest’ultima rappresenta, indubbiamente, un interesse dell’ordinamento, ma è anche frequentemente invocata come fondamento per il ricorso alla decretazione d’urgenza. Proprio in questo caso, tale esigenza ha giustificato l’adozione del decreto-legge che ha sostituto il Disegno di legge A.C. 1660, sottraendolo al dibattito parlamentare e introducendo non molte, ma significative modifiche rispetto alla formulazione originaria, senza sciogliere i dubbi già sollevati dal Comitato per la Legislazione della Camera sopracitato proprio sugli artt. 146 e 147 c.p.
Inoltre, l’ampliamento della discrezionalità del Magistrato di Sorveglianza pone non pochi problemi interpretativi, poiché le condizioni in cui il rinvio può essere revocato o non concesso risultano formulate in termini vaghi e generici. Non è sempre chiaro, ad esempio, quali siano i parametri oggettivi per valutare una situazione di pericolo di eccezionale rilevanza.
Non si tratta di una sfiducia nei confronti dell’autorità giudiziaria, quanto piuttosto del timore che un provvedimento adottato in via d’urgenza e sottratto al confronto parlamentare, incidendo profondamente sul trattamento penitenziario delle madri detenute, finisca per privilegiare le esigenze di sicurezza rispetto alla tutela effettiva dei diritti fondamentali delle persone coinvolte.
In conclusione, la riforma degli artt. 146 e 147 c.p., introdotta dal Decreto-legge n. 48/2025, rappresenta un cambio di paradigma nel rapporto tra tutela della maternità e sicurezza pubblica. Essa sembra segnare un arretramento della sensibilità giuridica verso i diritti delle madri detenute e, soprattutto, delle/dei loro figlie/i minori.
L’abbandono del rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena per le donne incinte e le madri di minori di un anno sposta il baricentro della disciplina verso una logica più securitaria, affidando ampio spazio alla discrezionalità giudiziaria, senza fornire parametri applicativi chiari. Il rischio è che, in assenza di strumenti interpretativi definiti e di strutture adeguate come gli ICAM, il diritto della persona minore a vivere con la madre nei primi anni di vita sia compromesso.
In questo senso, la riforma, lungi dal bilanciare in modo equo interessi contrapposti, rischia di indebolire le garanzie minime a tutela di soggetti vulnerabili, allontanandosi dalle indicazioni offerte dal diritto internazionale, dalle Carte sovranazionali e dal principio di rieducazione guida dell’esecuzione penale voluto dalla nostra Costituzione (art. 27, co. 3 Cost.) (V. sulla prospettabilità di un illecito costituzionale, T. Groppi, 2025).
Fra l’altro, la nuova disciplina sembra potenzialmente in contrasto con l’indirizzo espresso dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 10 del 2024, nella quale si è inteso valorizzare il diritto all’affettività della persona detenuta, riconosciuto non soltanto come diritto alla sessualità con il/la partner, ma come espressione di una più ampia dimensione di privacy[2].
Alla luce di ciò, si impone una riflessione più ampia e partecipata sul futuro della giustizia penale e della funzione della pena, che non può prescindere da una visione realmente centrata sulla persona.
*Dottoranda in Diritto Pubblico Comparato presso l’Università degli Studi di Siena e Socia di Rete per la Parità.
[1] Cfr. S. Lonato, C. Melzi D’Eril, Il decreto-legge sicurezza (n. 48/2025): autoritratto involontario di una politica di oppressione, in Sistema Penale, 2025, consultabile al sito https://www.sistemapenale.it/it/scheda/lonati-melzi-deril-il-decreto-legge-sicurezza-n-48-2025-autoritratto-involontario-di-una-politica-di-oppressione .
[2] Si rinvia anche al concetto del right to be alone elaborato da S. Warren, L. Brandeis, The Right to Privacy, in Harvard Law Review, 1980.