Ennesimo suicidio nelle carceri: una questione che trascende il sesso

AURORA MAGGI*

Nel primo trimestre del 2025, ventisette risultano le persone che hanno perso la vita in carcere per suicidio. Tra queste una donna: Francesca B., 52 anni, detenuta presso il carcere di Milano Bollate che già aveva tentato in passato di togliersi la vita, soffrendo di una forte depressione. I dati del 2024 mostrano una situazione analoga: al marzo dello scorso anno risultavano ventotto le persone suicidatesi in carcere, e anche in questo caso tra esse vi è una donna.

Le morti per suicidio in carcere richiamano la necessità di interventi politici, e sollecitano nuovamente interrogativi intorno al tema della salute mentale in carcere, rinnovando la necessità che le carceri rispettino i canoni di umanità e dignità come previsto dall’art. 27, c. 3, Cost. e come più volte è stato ribadito dalla Corte EDU. Da ultimo, i giudici di Strasburgo con il caso Niort c. Italia hanno riconosciuto la responsabilità dell’Italia per la violazione del diritto alla salute e alle cure di una persona detenuta, ritenendo integrata la violazione dell’art. 3 Cedu (divieto di trattamenti inumani e degradanti), accertando altresì la violazione del diritto di cui all’art. 6, co. 1 Cedu (diritto a un equo processo), non avendo le autorità competenti dato esecuzione ad un provvedimento dell’Autorità Giudiziaria.

Risuona il tema della violazione delle norme, lo stato di detenzione troppo spesso costituisce trattamento inumano e degradante, testimoniato non solo dal sovraffollamento carcerario e dalla tragica realtà di suicidi nelle carceri che continua a rimanere priva di intervento, ma anche dall’incapacità (per scarsità di risorse) di tutelare il diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost., nel rispetto del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost.

Mentre il tasso di suicidi aumenta, assistiamo alla proposta governativa di collocamento di sedici moduli detentivi prefabbricati per combattere il sovraffollamento carcerario, poiché non risulta aver avuto nessun seguito l’accordo siglato tra il Ministero della Difesa, il Ministero della Giustizia e l’Agenzia del Demanio nel 2020 di riconversione di strutture militari in disuso. Rispetto alla nuova proposta numerosi sono i dubbi già sollevati. Rispettano il principio di dignità? Risolvono le criticità connesse alla realtà detentiva? Restituiscono dignità alla pena?

In questo quadro, l’alto numero di suicidi rimarca la responsabilità della collettività nell’accogliere le grida di quante e quanti si sottraggano alla vita in nome di un dolore divenuto insopportabile. Qualsiasi sia il reato commesso, qualsiasi la loro responsabilità, il rispetto della dignità umana risulta non ammettere bilanciamento, essendo essa stessa «la bilancia […] il criterio di misura di tutti i princìpi e di tutti i diritti, oltre che, naturalmente, di tutte le forme di esercizio dell’autorità. […] [Essa] non si acquista per i meriti e non si perde per i demeriti» (Gaetano Silvestri, Presidente della Corte costituzionale). Questa la portata dell’art. 27, co. 3, Cost.: le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e dignità, propri di ogni essere umano.

Il numero di suicidi, costante rispetto al 2024, ma comunque estremamente elevato, impone di interrogarsi sul ruolo che la pena sta assumendo, mettendo a rischio l’intero impianto costituzionale: una pena che anziché rieducare, conduce a scelte così estreme, insinua il dubbio che nel percorso di rieducazione qualcosa sia andato diversamente dal progetto delle nostre madri e dei nostri padri costituenti. L’estensione del fenomeno che nell’attualità colpisce le persone detenute nelle carceri sia maschili che femminili (anche se in misura differente, stante il numero inferiore di donne che al 31 marzo 2024 erano 2.619, il 4,3% dei presenti sono detenute donne) evidenzia nuovamente l’allarmante condizione che devono affrontare le persone sottoposte a restrizione della libertà personale e che colpisce coloro che abitano gli istituti di pena.

Al sovraffollamento, infatti,  si aggiunge l’insufficiente numero delle/degli addetti alla sorveglianza che comporta il mancato rispetto nelle carceri italiane dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici.

In conclusione, il rispetto della dignità deve salvarci dall’oggettivazione della persona detenuta: chiunque, anche chi si sia macchiato dei reati più efferati, è e sarà sempre persona.

Per questa ragione e per non cadere in una forma di vittimizzazione secondaria, si è scelto di non fornire su Francesca B. notizie sul reato commesso e sulla pena in espiazione, e di concentrarsi, invece, sull’atrocità emergente dalla disumanizzazione della pena che colpisce a prescindere dal sesso.

Francesca B., come tutte le persone che si sono uccise in carcere, ha pagato due volte: con la condanna e con la vita.

* Dottoranda di Ricerca in Diritto Pubblico Comparato presso l’Università degli Studi di Siena. In tirocinio presso il Tribunale di Sorveglianza di Roma e Socia della Rete per la Parità.

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