ANTONIO D’ALOIA*
1. Discutere di fine vita non è mai semplice. Anche quando su questi temi si riflette da tanti anni, la sensazione è quella di doversi sempre rimettere in discussione.
Forse è inevitabile. E’ un tema che crea dubbi, coinvolgimento emotivo, che ci pone davanti a situazioni personali drammatiche, ai fatti della vita così irriducibilmente diversi che anche ciò che a volte immaginiamo possa essere la sintesi giuridica più appropriata per una determinata situazione, poi diventa invece non più perfettamente corrispondente ad altre situazioni -apparentemente analoghe- di cui la vita ci costringe a prendere atto.
Siamo davvero di fronte a una ‘singolarità’ in ambito bioetico. Il fine vita è uno dei temi su cui è nata la bioetica contemporanea (soprattutto a partire dagli anni ’70), mantenendo sempre una connotazione divisiva, con posizioni che sembrano camminare su binari paralleli destinati a non incontrarsi mai.
2. In un mio precedente lavoro di qualche anno fa parlavo di ‘assestamenti e nuove questioni’, di ‘confini mobili’ nella bioetica di fine vita. E non c’erano ancora state la legge 219/2017, e soprattutto le decisioni della Corte Costituzionale sul caso Cappato-DJ Fabo.
Almeno in Italia, il punto di consolidamento sembrava raggiunto intorno alla netta distinzione tra rifiuto di cure (anche fino alle estreme conseguenze, ai trattamenti life-sustaining come nutrizione e idratazione artificiale, e alla stessa sedazione palliativa profonda continua, legittimata da un parere del Comitato Nazionale di Bioetica) e determinazione del processo mortale attraverso le forme del suicidio assistito e dell’eutanasia; e all’ammissibilità della prima ipotesi anche attraverso un’ipotesi di rappresentanza del soggetto non più capace di esprimere la sua volontà, non ‘al posto’ o ‘per’ l’incapace, ma ‘con’ l’incapace.
Così si esprimeva la pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite (n. 21784 del 2007) nel caso Englaro, che appunto in quella fase diede l’impressione di aver fissato i confini costituzionali del tema, sebbene fosse stata accolta da molte polemiche e anche da una inedita contrapposizione istituzionale, con tentativi di decretazione d’urgenza sospensivi degli effetti della sentenza, e ricorsi alla Corte Costituzionale per conflitto di attribuzioni); anche perché, a parte alcuni casi isolati (Belgio e Olanda su tutti), la dicotomia tra letting die e killing resisteva nei principali contesti normativi e giurisprudenziali.
Almeno fino alla fine degli anni ‘90 o ai primi anni del ventunesimo secolo, quasi tutte le grandi Corti costituzionali o Supreme di altri Paesi (penso in particolare al Canada o agli Stati Uniti) mantenevano una posizione sul diritto di morire che distingueva nettamente, da un lato, la possibilità di rifiutare le cure anche fino alle estreme conseguenze lasciando che la malattia faccia purtroppo il suo corso naturale; e dall’altra parte, il suicidio medicalmente assistito e l’eutanasia vera e propria, considerate ancora come fattispecie illegittime e illecite, o comunque non coperte da alcun diritto fondamentale.
Insomma, la sentenza Englaro costituisce uno spartiacque nel nostro dibattito sul diritto di morire, che poi troverà una sua forma di stabilizzazione normativa soltanto 10 anni più tardi, con la legge 219 del 2017. Tale legge, infatti, recante “Norme in materia di consenso informato”, prevede (tra le altre cose) la possibilità di ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua come forma di attuazione del principio di liberazione dal dolore di cui alla legge n. 38/2010, le disposizioni anticipate di trattamento e l’istituto della pianificazione anticipata delle cure, ma soprattutto (confermando così uno dei passaggi più problematici e contestati della sentenza Englaro) l’affermazione che anche la nutrizione e l’idratazione artificiale possono essere considerati, ai fini almeno del consenso o del rifiuto/rinuncia, trattamenti di carattere sanitario.
In sostanza, con la legge 219/2017, il legislatore si riappropria di un dibattito che fino a quel momento si era svolto quasi esclusivamente sul piano giurisprudenziale, secondo un trend che in fondo ha caratterizzato l’intero sviluppo di questo ambito della riflessione etica e giuridica.
Il ritmo del biodiritto viene essenzialmente dal lavoro della giurisprudenza. È qui che cultura giuridica, fatti e bisogni sociali, atteggiamenti culturali, speranze e inquietudini, trovano combinazioni mai del tutto prevedibili o definitive, perché su queste sintesi incidono tante cose, talvolta in modo disordinato e casuale, come ci ricorda Roberto Bin con la metafora dell’entropia, e nessun giudice «può riuscire a ricreare esattamente il complesso delle informazioni che lo hanno guidato alla conclusione».
Il biodiritto continua ad essere un prodotto delle aule dei Tribunali, di una ricerca inesauribile di giustizia e diritti che nasce dalle esperienze umane. Sentenze dei giudici comuni o delle Corti supreme e costituzionali di ciascun Paese, decisioni di giudici sovranazionali si affollano e si inseguono sulle medesime questioni o su questioni collegate: non è facile orientarsi né disporre di criteri univoci di composizione di questo materiale.
Categorie concettuali come vita, dignità, salute, libertà, autodeterminazione, sono solo l’inizio di una discussione che si sposta ‘altrove’ (come ha scritto Gustavo Zagrebelsky), e questo ‘altrove’ non è altro che lo scenario assolutamente plurale e diversificato in cui confluiscono concezioni morali, visioni religiose, significati culturali e personali legati ai contesti di vita e alle dinamiche sociali.
3. Su questo tema ogni punto di arrivo è in realtà un modo per riaprire il dibattito verso altri approdi, un gradino per guardare più lontano. E’ ancora sul piano giurisdizionale che viene a configurarsi uno slittamento rispetto alla soglia del rifiuto di cure, rispetto al quale erano comunque emerse zone ‘grigie’, situazioni difficili da ricondurre chiaramente ad uno schema semplicemente ‘astensivo’: il riferimento è soprattutto ai casi in cui il soggetto malato grave (o terminale) non poteva esprimere alcuna volontà o consenso e non lo aveva fatto nemmeno in precedenza; ovvero quando l’interruzione del trattamento salva-vita era in grado di provocare immediatamente o quasi la morte.
Il leading case è della Corte Suprema Canadese, che in passato era stata una delle Corti Supreme che aveva difeso con maggiore convinzione la linea della legittimità delle leggi di divieto del suicidio assistito. In Carter v. Canada, del 6 febbraio 2015, la Corte Suprema canadese opera un diretto overruling di un suo precedente (Rodriguez del 1993), stabilendo, con decisione unanime, l’incostituzionalità del divieto di assistenza al suicidio per i malati in condizioni di insopportabile sofferenza psichica o fisica, e che hanno clearly consents to the termination of life.
Per I Giudici canadesi, il diritto alla vita non può tradursi in una assoluta proibizione di essere assistiti nel processo del morire, in presenza di determinate e gravi condizioni di malattia e di sofferenza: “the sanctity of life “is no longer seen to require that all human life be preserved at all costs […].And it is for this reason that the law has come to recognize that, in certain circumstances, an individual’s choice about the end of her life is entitled to respect».
In fondo, secondo l’opinion della Corte Suprema, negare a questi pazienti il diritto di chiedere di essere aiutati a morire interferisce irragionevolmente con la loro capacità di prendere decisioni riguardanti la loro integrità fisica e incide sulla loro libertà e sicurezza, perfino nel senso che tali soggetti possono essere spinti a decisioni estreme senza l’assistenza medica, e quindi in condizioni meno garantite.
In una forma meno diretta, anche nella giurisprudenza della Corte EDU si registrano evoluzioni interpretative che abbandonano la netta distinzione tra rifiuto di cure e richiesta di aiuto/assistenza al suicidio. E’ sufficiente confrontare la posizione espressa nel caso di Diane Pretty (2002) con le pronunce successive (Gross, Koch, Lambert). Addirittura, nel recente giudizio Mortier c. Belgio (2022), la Corte europea ha sostanzialmente legittimato il ricorso alla procedura eutanasica anche per i soggetti gravemente malati sul piano psicologico (depressione), con un ulteriore pesante slittamento rispetto ai tradizionali contesti di legittimazione del suicidio assistito e dell’eutanasia.
4. Il suicidio medicalmente assistito viene riconosciuto, in presenza di certe condizioni, anche dalla nostra Corte Costituzionale, nelle decisioni sul caso Cappato (ord. 217/2018 e sent. 242/2019). La vicenda è troppo nota e commentata, per essere necessario fare un suo riepilogo. Conviene andare direttamente al cuore della decisione della Corte.
Esiste un diritto (o una possibilità) di essere aiutati a morire, in alcuni casi anche mediante un intervento diretto a provocare la morte; e non soltanto attraverso il riconoscimento del rifiuto o della rinuncia alle cure. E’ chiaramente una ‘ricollocazione’ del ragionamento costituzionale, che il Giudice costituzionale prova ad ancorare ad una casistica definita in termini rigorosi, almeno apparentemente.
Secondo la Corte, affinchè l’aiuto e l’assistenza a morire non si configurino come reato deve ricorrere una situazione in cui “ il soggetto agevolato si identifichi in una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.
Come si può vedere, però, si tratta di requisiti che presentano alcuni margini incerti e scivolosi. Patologia ‘irreversibile’ non significa necessariamente ‘terminale’; e, d’altro canto, le ‘sofferenze psicologiche’ sono un contenitore difficile da circoscrivere, e da capire quando siano o diventino “assolutamente intollerabili”. La patologia rilevante poi, è solo fisica o anche psichica, o può avere caratteristiche combinate?
Al centro di questa nuova concezione della salute e delle scelte sui momenti finali della propria vita, il tema del dolore, la protezione da sofferenze che in determinate circostanze siano percepite o valutabili come inutili, sproporzionate, intollerabili.
Con la legge 15 marzo 2010, n. 38 recante “Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore”, la terapia del dolore è diventata un elemento fondamentale nel percorso di tutela della salute e della dignità della persona, al punto da inserire le cure palliative e la terapia del dolore tra i livelli essenziali di assistenza che devono essere garantiti in modo uniforme su tutto il territorio nazionale.
Per la Corte non è irrilevante in rapporto alla dignità del paziente (alla sua visione peculiare) la lentezza o la rapidità del processo del morire; dall’altro, assume un peso anche il profilo della ‘maggiore’ sofferenza per chi sta accanto al malato nel vederlo subire un più lento processo di indebolimento progressivo delle funzioni organiche fino alla morte: “La legislazione oggi in vigore non consente, invece, al medico che ne sia richiesto di mettere a disposizione del paziente che versa nelle condizioni sopra descritte trattamenti diretti, non già ad eliminare le sue sofferenze, ma a determinarne la morte. In tal modo, si costringe il paziente a subire un processo più lento, in ipotesi meno corrispondente alla propria visione della dignità nel morire e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care…”.
Apparentemente, l’elemento oggettivamente più idoneo a limitare l’ambito di esplicazione di questo ‘nuovo diritto’ sembrava (e sembra) il riferimento alla condizione della persona di essere tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale. Tuttavia, le prime applicazioni del principio elaborato dalla Corte Costituzionale hanno mostrato come la nozione di trattamenti di sostegno vitale possa essere ‘allargata’ fino a ricomprendere ogni situazione in cui un soggetto abbia bisogno di assumere farmaci per controllare le funzioni vitali.
Ad esempio, la Corte d’Assise di Massa ha sostenuto che «la dipendenza da ʺtrattamenti di sostegno vitaleʺ non significa necessariamente ed esclusivamente ʺdipendenza da una macchinaʺ. [… I]l requisito in esame […] è stato enucleato dalla Corte Costituzionale prendendo, come punto di riferimento, la legge 217/19 ed, in particolare, i trattamenti sanitari che detta legge consente al malato di rifiutare. Il riferimento, quindi, è da intendersi fatto a qualsiasi tipo di trattamento sanitario, sia esso realizzato con terapie farmaceutiche o con l’assenza di personale medico o paramedico o con l’aiuto di macchinari medici […] senza [il quale] si viene ad innescare nel malato ʺun processo di indebolimento delle funzioni organiche il cui esito – non necessariamente rapido – è la morteʺ».
E’ chiaro che così rischia di estendersi a dismisura il quadro dei requisiti tracciati dalla Corte, che invece molto probabilmente alludeva a quelli che tradizionalmente in ambito medico sono i trattamenti di sostegno vitale, vale a dire l’idratazione e la nutrizione artificiale oppure la respirazione ufficiale. Ogni persona malata in qualche modo è sottoposta ad un trattamento farmacologico e se sospende quel trattamento farmacologico può subire poi un aggravamento delle sue condizioni.
5. Proprio su questo elemento si giocherà ora una partita interpretativa forse decisiva per il destino giuridico di questo tema nel nostro ordinamento.
La prossima settimana la Corte Costituzionale esaminerà in udienza pubblica la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Gip del Tribunale di Firenze (con un’ordinanza del 17/01/2024) in relazione al reato di aiuto al suicidio (art. 580 c.p.) come modificato dalla sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale. L’oggetto della censura riguarda il requisito della “dipendenza da trattamenti di sostegno vitale“.
Il Giudice di Firenze parte dal dato testuale dei criteri elaborati dalla Consulta nella decisione Cappato, e si sofferma in primo luogo sul requisito delle sofferenze fisiche o psicologiche. Secondo l’ordinanza, l’uso della congiunzione disgiuntiva ‘o’ è “un dato grammaticale che autorizza senz’altro l’interprete a ritenere che possa (o meglio debba) essere data autonoma rilevanza sia alle sofferenze fisiche sia a quelle esclusivamente psicologiche”. Si legge ancora nell’ordinanza che “la valutazione circa la tollerabilità delle sofferenze (fisiche o psicologiche) spetta unicamente alla persona malata, senza che al suo giudizio possa essere sovrapposto quello di terzi soggetti (parenti, medici, giudici) chiamati al più a prenderne atto –verificando, se del caso, la lucidità del paziente e la serietà della sua esternazione– ma senza apprezzamenti ‘di merito alternativi’, necessariamente ispirati a criteri eteronimi e moralisti (posto che nessuno potrebbe indicare ad altri quanto dolore sia sopportabile”).
A questa premessa, il giudice remittente aggancia il punto forte della sua critica di costituzionalità, affermando come “il requisito costituito dalla necessità che la persona sia tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale […] presenti diversi profili di possibile contrasto con i parametri costituzionali…”. Innanzitutto, con l’art. 3 Cost. per la irragionevole disparità di trattamento che determina tra situazioni concrete sostanzialmente identiche. In pratica, “a parità di altre condizioni (in particolare l’irreversibilità della malattia, l’intollerabilità delle sofferenze che ne derivano e la capacità di autodeterminazione dell’interessato), la liceità della condotta di terzi finisce per dipendere dal fatto che la persona sia o meno tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale“: solo che, continua il Giudice, “l’avverarsi di quest’ultima condizione appare il frutto di circostanze del tutto accidentali, legate alla multiforme variabilita’ dei casi concreti, in relazione alle condizioni cliniche generali della persona interessata (ad es., piu’ o meno dotata di resistenza organica), al modo di manifestarsi della malattia da cui la persona e’ affetta (ad es., connotata da uno stadio piu’ o meno avanzato, oppure da una progressione piu’ o meno rapida), alla natura delle terapie disponibili in un determinato luogo e in un determinato momento, nonche’ dalle scelte che lo stesso paziente abbia fatto (ad es., rifiutando fin dall’inizio qualsiasi trattamento)”.
Non posso soffermarmi in modo puntuale su tutti i passaggi argomentativi dell’ordinanza fiorentina.
Ci sarà tempo e modo per farlo, qualunque dovesse essere l’esito del giudizio costituzionale (sul quale peraltro premono alcuni possibili profili di inammissibilità).
Sembra chiaro però il quadro assiologico di questa posizione di remise en cause della decisione della Corte sul suicidio medicalmente assistito.
Il riferimento è al Tribunale costituzionale tedesco che in una sentenza del 2020 arrivò a considerare il suicidio assistito, e quindi la richiesta di aiuto a morire da parte di un paziente, come l’espressione di un diritto della personalità, di una libertà che non deve essere collegata a (o condizionata da) particolari situazioni cliniche.
Il quadro comparato è in evoluzione, anche a livello legislativo. La Spagna ha introdotto nel 2021 una regolazione puntuale dell’eutanasia, che la legge spagnola configura come un vero e proprio diritto richiedere e ottenere l’aiuto necessario a morire. Tra i presupposti previsti per accedere all’eutanasia si parla di malattia grave ed incurabile, ovvero di una malattia grave, cronica ed invalidante, senza alcun riferimento alla necessaria sussistenza di trattamenti di sostegno vitale. Anche il Portogallo, nel maggio 2023, ha approvato superando il veto del Presidente della Repubblica, una normativa di legalizzazione del suicidio assistito e dell’eutanasia, in cui il presupposto è che la persona deve trovarsi in una situazione di grave sofferenza causata da una delle seguenti condizioni cliniche: a) malattia grave e incurabile o b) lesione definitiva di estrema gravità.
Dobbiamo provare a capire la ratio dell’equilibrio costituzionale tra i beni dell’autonomia e della dignità da un lato, e la protezione della vita e dell’inviolabilità della persona umana dall’altro, che la Corte ha inteso così faticosamente tracciare, nelle due decisioni sul suicidio assistito, e nella successiva sentenza 50/2022 in cui ha dichiarato inammissibile il referendum proposto nei confronti della norma sull’omicidio del consenziente..
La posizione della Corte Costituzionale quando ammette la possibilità del suicidio medicalmente assistito, resta una posizione consapevole della complessità del bilanciamento, non appiattita su una esaltazione dell’autodeterminazione individuale tout court (in questo differenziandosi nettamente dalla impostazione del BVG).
La Corte si rende conto che qui abbiamo a che fare con valori di capitale importanza per il diritto, con la vita che resta un bene supremo, presupposto di tutti gli altri interessi di rilevanza costituzionale.
Nella sent. 50/2022, la Corte costituzionale non solo ribadisce il cardinale rilievo del bene della vita, ma afferma chiaramente che, sebbene tale valore non possa tradursi in un dovere di vivere a tutti i costi, nemmeno consente una disciplina nelle scelte di fine vita che in nome di una concezione astratta dell’autonomia individuale ignori le condizioni concrete di disagio e di abbandono nelle quali spesso simili decisioni vengono concepite. Per la Corte, “Quando viene in rilievo il bene della vita umana, dunque, la libertà di autodeterminazione non può mai prevalere incondizionatamente sulle ragioni di tutela del medesimo bene, risultando, al contrario, sempre costituzionalmente necessario un bilanciamento che assicuri una sua tutela minima”.
Il suicidio assistito è, nella visione della nostra Corte (almeno quella finora dichiarata nelle decisioni ‘Cappato’), una scelta ‘estrema’. Il requisito dell’essere tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale è quello che presenta il maggior grado di oggettività, soprattutto se lo leggiamo unitariamente, senza separare la prima dalla seconda parte dell’inciso.
I trattamenti di sostegno vitale in altre parole sono quelli che tengono in vita, e che se vengono rimossi determinano più o meno rapidamente la morte della persona malata. Non tutte le terapie farmacologiche o di altro tipo, hanno questa caratteristica essenziale. E’ così anche nella letteratura medica.
Se cancelliamo questa linea distintiva la prospettiva che si apre (e che anzi è immediatamente successiva) diventa quella della normativa belga, l’eutanasia anche per i malati mentali, perchè anche quelle che Stefano Canestrari chiama “le ferite dell’anima” possono concretizzarsi in una patologia irreversibile fonte di sofferenze psicologiche.
So bene che tracciare dei confini in queste situazioni drammatiche di sofferenza è un’operazione complicata, che lascia spesso sul terreno fattispecie incerte, difficili da classificare negli schemi che abbiamo provato a darci, come un mosaico in cui qualche tassello non si incastra.
Probabilmente su questo tema non c’è e non ci sarà mai un argomento definitivo, che possa mettere d’accordo tutti. Queste situazioni coinvolgono emotivamente e ci costringono a fare i conti appunto con i nostri dubbi, le nostre incertezze, il fatto che talvolta sentiamo di non avere nemmeno il diritto -in astratto e da lontano- di dire se una cosa è giusta o non è giusta.
Certo a me piacerebbe che si parlasse non solo di come e fino a che punto ammettere decisioni di fine vita, ma vorrei che lo Stato, il sistema sanitario, le istituzioni tutte garantissero anche in questi momenti finali della vita altri principi costituzionali che non sono meno caratterizzanti per il nostro sistema.
Penso al principio di solidarietà, al valore dell’assistenza, all’idea di una medicina che è anche comunicazione e ascolto, principi che sono difficili, complessi, che non hanno la rapidità della soluzione del suicidio assistito o di una dichiarazione anticipata di trattamento che viene lasciata lì e che può rivelarsi a distanza di tempo non perfettamente corrispondente alla situazione che sta vivendo in quel momento il paziente.
E’ necessario mettere a disposizione del paziente che soffre, e dei suoi familiari, tutte quelle possibilità di affrontare con dignità e sentendosi assistiti le situazioni terminali dell’esistenza. Penso agli hospices, alle cure palliative, che purtroppo in molte zone del nostro paese ancora oggi costituiscono un obiettivo troppo lontano da elementi di effettività.
La Corte lo dice chiaramente nella sent. 242/2019: “Il coinvolgimento in un percorso di cure palliative deve costituire, infatti, «un pre-requisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente […] Si cadrebbe, altrimenti, nel paradosso di non punire l’aiuto al suicidio senza avere prima assicurato l’effettività del diritto alle cure palliative”.
Recentemente ho avuto l’occasione di leggere un libro sulla vita di Cecily Saunders (E. Exitu, Di cosa è fatta la speranza), la figura probabilmente più iconica del percorso che ha portato alla nascita degli hospices e allo sviluppo delle cure palliative. In un discorso all’Università di Yale, la Saunders dice che la medicina deve essere “prima di ogni terapia, […] uno sguardo all’altro pieno di rispetto”.
Solo in questo modo probabilmente ci collegheremo con quello che è il filo conduttore della nostra esperienza costituzionale, vale a dire il valore della persona, con tutta la pienezza della sua esperienza, che è dietro all’idea del valore supremo del bene della vita, che la Corte costituzionale continua ad affermare, pur ammettendo, in casi che dovrebbero rimanere straordinari e oggettivamente verificabili, la legittimità del ricorso all’aiuto a morire.
* Professore Ordinario di Diritto Costituzionale e Direttore del Centro Interdipartimentale di Bioetica dell’Università di Parma.
Sul medesimo argomento vedi anche l’intervista di Anna Maria Lecis