Il dibattito italiano sulla legge n. 194/1978 ovvero una lenta guerra di logoramento

GIACOMO D’AMICO*

Il dibattito italiano in tema di aborto si è caratterizzato, negli ultimi anni, per aver assunto le sembianze di una defatigante guerra di logoramento. Lontana anni luce dalle grandi discussioni di principio e, per fortuna, anche dal clamore mediatico determinato da decisioni dell’organo di giustizia costituzionale (come invece accaduto negli Stati Uniti con la sentenza nella causa Dobbs v. Jackson, del 24 giugno 2022), la discussione sul diritto all’aborto ha vissuto e continua a vivere una fase contraddistinta da piccoli ma costanti tentativi di erosione del diritto medesimo.

Questi tentativi sono avvenuti con modalità e forme diverse e sono stati realizzati su piani diversificati: dal sempre più crescente numero di medici obiettori alla progressiva enfatizzazione dello stigma che, secondo taluni, discenderebbe dalla libera scelta della donna di abortire. Quanto al primo fenomeno, è lecito supporre che, dietro la legittima scelta di non praticare interventi interruttivi della gravidanza, non sempre si celino le nobili ragioni dell’obiezione di coscienza, ma che talvolta vi siano più concrete motivazioni legate ai rischi connessi alle pratiche abortive. Non si può escludere, in altre parole, che anche questo fenomeno sia un frutto avvelenato della c.d. medicina difensiva.

Vi è poi la grande battaglia culturale condotta da quei movimenti che puntano a screditare i presupposti su cui si regge il punto di bilanciamento raggiunto con la legge n. 194/1978, muovendo da una prospettiva assolutizzante dei diritti del nascituro anche quando le condizioni di benessere psicofisico della madre rischiano di essere seriamente compromesse.

Al contempo, negli ultimi tempi, il dibattito italiano è stato indirettamente influenzato dall’eco dell’approvazione da parte del Congrès du Parlement francese della Loi constitutionnelle del 4 marzo 2024 e della quasi coeva risoluzione approvata dal Parlamento europeo l’11 aprile 2024 sull’inclusione del diritto all’aborto nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE.

Quanto alla prima, non vi è dubbio che l’iniziativa del Presidente Macron (avallata dal parere del Conseil d’Etat) di presentare il Projet de loi constitutionnelle relatif à la liberté de recouir à l’interruption volontaire de grossesse ha segnato un punto di svolta nel dibattito europeo, cui ha fatto seguito l’approvazione, prima, da parte dell’Assemblée Nationale, poi del Senato e infine del Parlamento in seduta comune (le Congrès du Parlement). Ma, al di là del profilo strettamente politico, non è indifferente il contenuto della legge costituzionale approvata, la quale aggiunge un ulteriore capoverso all’art. 34 della Costituzione, stabilendo che «La loi détermine les conditions dans lesquelles s’exerce la liberté garantie à la femme d’avoir recours à une interruption volontaire de grossesse». Dunque, è stata riconosciuta la libertà della donna di ricorrere all’aborto, sulla base di condizioni determinate dalla legge (loi n° 75-17 du 17 janvier 1975, c.d. legge Simon Veil).

Quanto invece alla risoluzione del Parlamento europeo, essa offre, preliminarmente, un quadro a tinte fosche della tutela del diritto all’aborto in alcuni paesi dell’Unione europea, tra cui l’Italia, sottolineando come «l’accesso all’assistenza all’aborto st[i]a subendo erosioni» (considerando T). Nel prosieguo del testo, dopo aver ricordato che «la salute sessuale e riproduttiva e i relativi diritti sono diritti umani fondamentali che devono essere tutelati e rafforzati», il Parlamento europeo esorta il Consiglio europeo ad avviare una Convenzione per la revisione dei trattati e a modificare l’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali sia nella rubrica (che diventerebbe «Diritto all’integrità della persona e all’autonomia del corpo») sia nel testo, con l’aggiunta del par. 2-bis secondo cui «Ogni persona ha diritto all’autonomia del corpo e all’accesso libero, informato, pieno e universale alla salute sessuale e riproduttiva e relativi diritti, come pure a tutti i servizi di assistenza sanitaria correlati, senza discriminazioni, compreso l’accesso a un aborto sicuro e legale».

A fronte di queste decise prese di posizione, sulle quali non è possibile soffermarsi ulteriormente, il dibattito italiano continua a svolgersi con le modalità sopra descritte, assimilabili a una lenta guerra di logoramento. A questo ambito deve essere probabilmente ricondotta l’introduzione, in sede di conversione del d.l. n. 19/2024, di una disposizione (art. 44-quinquies) sulla cui legittimità costituzionalità (oltre che sulla cui opportunità) è lecito nutrire forti dubbi.

In particolare, il citato art. 44-quinquies, rubricato «Norme in materia di servizi consultoriali», stabilisce che «Le regioni organizzano i servizi consultoriali nell’ambito della Missione 6, Componente 1, del PNRR e possono avvalersi, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, anche del coinvolgimento di soggetti del Terzo settore che abbiano una qualificata esperienza nel sostegno alla maternità».

La norma è abbastanza chiara nella sua portata e, sebbene faccia riferimento all’ambito della Missione 6, Componente 1, del PNRR (vale a dire alla Missione Salute e, in particolare, alle Reti di prossimità, strutture e telemedicina per l’assistenza sanitaria territoriale), pare abbastanza evidente come l’oggetto di siffatta previsione ben poco (se non nulla) abbia a che vedere con l’oggetto del decreto-legge (intitolato «Ulteriori disposizioni urgenti per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza “PNRR”»).

Appare quindi, in prima battuta, del tutto disomogenea, rispetto al contenuto del d.l. n. 19/2024, la previsione in esame, inserita dalla legge di conversione n. 56 del 2024. Ma anche a voler prescindere da questo profilo di illegittimità costituzionale, resta difficilmente superabile la palese incongruità della norma che – vale la pena di ripeterlo – consente alle Regioni di coinvolgere nei servizi consultoriali anche «soggetti del Terzo settore che abbiano una qualificata esperienza nel sostegno alla maternità». Sia chiaro, qui non si parla di specialisti medici o psicologi! Né di soggetti che possano consentire alla donna una scelta libera e responsabile. Ma di soggetti che abbiano una «qualificata esperienza nel sostegno alla maternità», spostando dunque la “bilancia” a favore di una scelta, quella della maternità e quindi della prosecuzione della gravidanza. Ancora una volta, si ha la sensazione che più che garantire il diritto all’aborto si intendano porre in essere delle misure per contrastare l’aborto, colpevolizzando chi lo pratica.

Al netto però di ogni valutazione sull’opportunità di questa norma, mi sembra che sia insuperabile il contrasto di siffatta previsione con alcuni parametri costituzionali, primo fra tutto il diritto all’autodeterminazione della donna, che seppur non può giungere a una sua assolutizzazione (come peraltro avviene per tutti i diritti fondamentali, secondo l’insegnamento della Corte costituzionale a partire dalla sentenza n. 85/2013), non può nemmeno essere coartato in modo subdolo, come avverrebbe se si consentisse ai soggetti del Terzo Settore, cui fa riferimento l’art. 44-quinquies, di intervenire nell’ambito dei servizi consultoriali.

Non vi è dubbio che in questo ambito non vi può essere spazio per soggetti diversi da quelli “istituzionalmente” dotati delle necessarie competenze in ambito medico e psicologico; dopo di che, occorre rimettersi alla libera decisione della donna. Prevedere il coinvolgimento di altri soggetti, siano essi a favore o contro la scelta di abortire costituirebbe un’indebita (e pertanto irragionevole) intromissione dell’autorità pubblica nell’ambito riservato a quella libertà delle scelte procreative a cui, in tante occasioni, ha fatto riferimento la Corte costituzionale.

Se così è, questa norma è destinata a essere dichiarata illegittima e anzi è assai auspicabile che ciò avvenga al più presto. Nel momento in cui si scrive sarebbe ancora possibile un’impugnativa regionale ma questa appare problematica non venendo in rilievo profili attinenti direttamente o indirettamente (tramite la c.d. ridondanza) alla sfera di competenza delle Regioni. Certo, si potrebbe dire che la norma leda le competenze delle Regioni in quanto impone che l’eventuale coinvolgimento dei soggetti del Terzo Settore avvenga «senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica», ma il punto sostanziale – in cui si radica, a mio avviso, l’illegittimità della disposizione – potrebbe non essere “toccato” dalla impugnazione. Si potrebbe peraltro sostenere che la norma non violi le competenze delle Regioni per la natura “facoltizzante” della previsione. Non resta dunque che sperare nell’intervento di qualche giudice che, qualora una o più Regioni decidano di coinvolgere nei servizi consultoriali i soggetti di cui sopra, rimetta alla Corte la questione della sua legittimità costituzionale per violazione dell’art. 3 e, in specie, del principio di ragionevolezza, e degli artt. 13 e 32 Cost., con riferimento al principio di autodeterminazione.

Ancora una volta, quindi, à la guerre comme à la guerre!

* Professore ordinario di Diritto costituzionale – Università degli studi di Messina.

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Sul medesimo argomento vedi anche il contributo di Giovanna Razzano

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