MARIA GRAZIA RODOMONTE*
La nuova stagione riformatrice della XIX Legislatura prende avvio dalle dichiarazioni programmatiche del Presidente del Consiglio dei Ministri Giorgia Meloni di fronte alle Camere il 25 ottobre 2022; dichiarazioni con le quali manifesta chiara la volontà di fare della riforma costituzionale uno dei punti qualificanti del suo governo[1]. Pur venendo inizialmente prospettata l’ipotesi di una modifica costituzionale più incisiva, con la trasformazione della nostra forma di governo in presidenziale o semipresidenziale, l’ipotesi governativa di modifica costituzionale si è ben presto orientata a favore dell’introduzione del Premierato, con l’obiettivo di operare i soli interventi necessari ad assicurare stabilità governativa e conseguente efficienza della sua azione. In particolare, dal confronto promosso il 17 maggio 2023 su “riforme istituzionali e forma di governo” dalla rivista federalismi.it presso il CNEL alla presenza del Ministro per le riforme istituzionali e la semplificazione normativa Maria Elisabetta Casellati, del sottosegretario alla Presidenza Alfredo Mantovano e del Presidente del CNEL, Renato Brunetta, è emersa un’ampia preferenza a favore di un’ipotesi di riforma della forma di governo più circoscritta e in grado di realizzare “adattamenti” e non “stravolgimenti” del testo della Costituzione attraverso l’introduzione del cosiddetto Premierato quale strumento atto ad assicurare, se opportunamente modellato, l’esigenza di stabilità ed efficienza del governo.
Il successivo 3 novembre il Consiglio dei ministri, su proposta del Presidente Giorgia Meloni e del Ministro Maria Elisabetta Alberti Casellati, approva un disegno di legge costituzionale per l’introduzione dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri e la razionalizzazione del rapporto di fiducia (secondo quanto riportato dal comunicato stampa n. 57 del Consiglio dei Ministri). Il successivo 15 novembre il Governo presenta al Senato il ddl A.S. 935 recante “Modifiche agli articoli 59, 88, 92 e 94 della Costituzione per l’elezione diretta del presidente del Consiglio dei Ministri, il rafforzamento della stabilità del Governo e l’abolizione della nomina dei senatori a vita da parte del Presidente della Repubblica” (Titolo breve: Modifiche costituzionali per l’introduzione dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri) che il 21 novembre viene assegnato alla prima Commissione permanente del Senato (Commissione Affari Costituzionali). Il 23 novembre il ddl A.S. 935 viene abbinato al ddl A.S. 830, Renzi e altri («Disposizioni per l’introduzione dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri in Costituzione») già presentato al Senato il 1°agosto 2023. La prima Commissione del Senato adotta infine il 24 gennaio 2024 come testo base al quale riferire quindi le proposte di modifica proprio il disegno di legge costituzionale governativo A.S. 935.
Una prima non secondaria notazione deve essere fatta con riferimento alla scelta del titolo della proposta di riforma. Appare significativo il fatto che non ci si limiti ad individuare gli articoli costituzionali oggetto di modifica ma si dia anche conto sinteticamente della direzione e dei contenuti della modifica stessa. Come è stato osservato, tale scelta sembra essere compatibile con la consapevolezza del Governo della difficoltà di aggregare attorno alla proposta una maggioranza sufficientemente ampia da evitare il referendum. Di qui l’individuazione di un titolo che contenga riferimenti sufficientemente chiari e sintetici se si considera che, come accaduto in passato, il titolo dell’atto parlamentare verrebbe poi indicato sulla scheda presentata al voto dell’elettore in caso di referendum costituzionale (cfr. Un nuovo osservatorio per un nuovo tentativo di riforma costituzionale, a cura di F. Fabrizzi – G. Piccirilli, infederalismi.it)
Con riferimento all’iter per l’approvazione del testo di modifica va evidenziato che in questa occasione si è deciso di non optare per un percorso alternativo rispetto a quello previsto dall’art. 138 Cost. con la creazione, ad esempio, di una apposita commissione bicamerale. Come è noto tale via è stata perseguita in passato con la creazione delle Commissioni Bozzi, De Mita e D’Alema (le ultime due istituite con legge costituzionale). Si tratta di un’ipotesi che tuttavia non avrebbe escluso l’esautoramento del Parlamento, pur se certamente in maniera meno grave ed evidente rispetto all’altra ipotesi, emersa nel corso della precedente legislatura, di creazione di una “Assemblea Costituente”. Un esautoramento del Parlamento che potrebbe derivare, come in particolare accaduto nel caso della Commissione D’Alema, in conseguenza della compressione del potere emendativo dei parlamentari e per l’imposizione all’Assemblea di un articolato unico sul quale esprimere il voto favorevole o contrario (cfr. Cfr. G. De Minico, F. Clementi, M.C. Grisolia, Le procedure della riforma – paper Astrid). Un rischio evitabile solo nell’ipotesi di istituire una Commissione con soli poteri referenti senza toccare tempi e prerogative dell’Aula.
L’ampiezza ridotta della riforma costituzionale, quanto meno con riferimento al fatto che il testo si compone di soli 5 articoli, ha con ogni probabilità fatto propendere per la scelta di restare nell’ambito della procedura prevista dall’art. 138 Cost., scelta che sarebbe indubbiamente in grado di favorire la valorizzazione del Parlamento quale luogo centrale del processo decisionale. Si tratta evidentemente di un obiettivo che potrebbe essere attuato perseguendo la strada di un confronto condiviso tra maggioranza ed opposizione proprio all’interno della sede parlamentare al fine di giungere all’approvazione di una riforma a maggioranza dei due terzi e senza intraprendere, quindi, la più complessa e impervia strada del referendum costituzionale.
Al momento attuale l’obiettivo di giungere ad una riforma condivisa appare complesso da realizzare, quanto meno se si tiene conto del fatto che proprio all’interno della Commissione Affari costituzionali il confronto tra maggioranza e opposizione, conclusa la fase delle audizioni di esperti e soggetti istituzionali e dopo la presentazione degli emendamenti e la scelta relativa all’ammissibilità e proponibilità degli emendamenti presentati dal governo e dall’opposizione, le posizioni reciprocamente assunte da maggioranza e opposizioni appaiono sempre più divaricate.
Tale esigenza è invece avvertita con forza da molti commentatori e tra questi anche da quanti hanno deciso di partecipare alla “maratona” oratoria sul Premierato promossa da alcune associazioni (Fondazione Magna Carta, Libertà uguale, Io Cambio). A seguito della “maratona” è stato pubblicato sul Sole24Ore il 14 marzo scorso un appello per punti ben definiti, al fine di giungere ad una riforma condivisa della seconda parte della Costituzione. Un tentativo, sembra, di scongiurare il referendum con le incertezze quanto all’esito che inevitabilmente presenta e, soprattutto, con il rischio di “spaccare il Paese a colpi di maggioranza” (così S. Ceccanti, su Il Riformista, 15 marzo 2024).
Al fine di facilitare il confronto non manca inoltre chi ha ipotizzato anche in questa fase l’istituzione di una commissione bicamerale con funzioni però meramente istruttorie e preparatorie e che, quindi, sull’esempio della Commissione Bozzi, venga istituita con semplici delibere interne alle due Camere e in caso affiancata anche da un gruppo di esperti nominati sulla base delle indicazioni delle forze politiche presenti nella stessa Commissione (Cfr. G. De Minico, F. Clementi, M.C. Grisolia, Le procedure della riforma – paper Astrid).
Un’ultima riflessione deve essere fatta infine in relazione al più che possibile approdo alla fase referendaria. In questo caso si pone il problema dell’eventuale “spacchettamento” del quesito referendario ovvero la suddivisione del quesito in più quesiti corrispondenti ai diversi oggetti della proposta di revisione. L’eventuale esigenza della suddivisione in quesiti distinti, richiamata già all’epoca della Bicamerale D’Alema, nasce dall’esigenza di tutela del diritto di voto dell’elettore che, come affermato dalla stessa Corte costituzionale con riferimento al referendum abrogativo, deve essere posto nella condizione di esprimere in maniera libera e genuina il proprio voto. Garanzia che si realizza solo se il quesito è chiaro, comprensibile e rispondente ad una matrice razionalmente unitaria. Mancando quest’ultima a causa dell’eterogeneità dell’oggetto del quesito l’elettore finirebbe per essere posto di fronte all’alternativa rigida di accettare di eliminare parti della legge che vorrebbe lasciare in vita votando “si”; o viceversa, mantenere in vita l’intera legge pur volendo abrogarne una parte, optando per il “no”. Ci si chiede quindi la ratio a favore di una suddivisione del quesito nel caso di referendum abrogativo sia estensibile anche al referendum costituzionale. La risposta sembra negativa se si tiene conto del distinto contesto nel quale i due istituti operano dal momento che, mentre nel primo caso, quello del referendum abrogativo, l’elettore può anche decidere la via dell’abrogazione parziale e dunque una terza via tra mantenimento in vita e eliminazione della norma, tale opzione intermedia è invece preclusa nel caso del referendum costituzionale. Tra i vari argomenti contrari allo “spacchettamento” del quesito quello che però sembra maggiormente convincente è dato dalla constatazione che di fronte a quesiti plurimi gli elettori potrebbero votare liberamente ad alcuni “si” e ad altri “no”; con il risultato di giungere eventualmente ad una riforma diversa da quella votata dal Parlamento, contraddicendo così la ratiodella centralità del ruolo Parlamentare di cui all’art. 138 Cost; oltre al rischio di far perdere coerenza ad un progetto di riforma certo caratterizzato da oggetti diversi – nel caso specifico forma di governo e potere di nomina dei Senatori a vita da parte del Presidente della Repubblica – ma in cui, come è evidente, tutto “si tiene”.
[1]https://www.governo.it/it/media/il-presidente-meloni-alla-camera-dei-deputati-le-dichiarazioni-programmatiche/20766.
*Professoressa associata di Istituzioni di diritto pubblico presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Roma “Sapienza”