LORENZO DE CARLO*
- Introduzione
La sentenza n. 146 del 2024 della Corte Costituzionale affronta alcune questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale ordinario di Napoli, in funzione di giudice del lavoro, riguardanti l’art. 2, comma 3, del decreto-legge n. 51 del 10 maggio 2023[1], convertito, con modificazioni, con legge n. 87 del 3 luglio 2023. Nello specifico, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disposizione che prevedeva, a decorrere dal 1° giugno 2023, la cessazione automatica dalla carica di sovrintendente delle fondazioni lirico-sinfoniche per quanti avessero compiuto il settantesimo anno di età al momento dell’entrata in vigore del decreto-legge. Con questa pronuncia, la Corte ha avuto modo di esprimersi nuovamente sulla vexata quaestio dei limiti alla decretazione d’urgenza, un tema tanto più caldo quanto, come è ben noto, nella prassi la legislazione ordinaria sta cedendo sempre maggiormente il passo ai decreti-legge, cagionando da una parte un deciso rafforzamento del ruolo del Governo nell’iter legislativo, dall’altra una sempre maggior subalternità del Parlamento nella definizione dell’indirizzo politico, a maggior ragione in considerazione della frequente apposizione della questione di fiducia sui disegni di legge di conversione. Appare dunque evidente come l’evoluzione dei rapporti tra Camere ed esecutivo si stia ridefinendo in senso diametralmente opposto rispetto a quanto previsto dal dettato costituzionale: i requisiti di “necessità ed urgenza” previsti dall’art. 77, comma 2, sono interpretati in modo sempre più estensivo dagli esecutivi, potendosi quasi osservare un rovesciamento dei ruoli tra Parlamento e Governo nell’esercizio della funzione legislativa.
I fattori alla base di tale dinamica sono molteplici e sono stati diffusamente analizzati in dottrina: si tratta senza dubbio di una tendenza non recente, riscontrabile ampiamente già a partire dall’inizio del nuovo millennio a prescindere dall’orientamento politico degli esecutivi e delle maggioranze parlamentari di turno. Sommariamente, tra le numerose ragioni che sottostanno a una tale torsione, è necessario evidenziare la necessità di fornire risposte rapide a situazioni di crisi sempre più frequenti, mutevoli e interconnesse, che favoriscono l’accentramento di responsabilità, di fronte tanto alle Camere quanto all’opinione pubblica, in capo al Governo e ancor più nella figura del Presidente del Consiglio dei Ministri. Tuttavia, talvolta la decretazione d’urgenza è stata impiegata per tentare di risolvere criticità emerse sotto un profilo strettamente politico, come nel caso in specie, o in risposta a decisioni della magistratura contrastanti con l’indirizzo promosso dall’esecutivo, come avvenuto nel caso del recente “decreto Paesi sicuri”. La grande flessibilità dello strumento del decreto-legge, derivante dalla sua produzione di effetti ex nunc e dalla presenza di un termine perentorio di sessanta giorni per la conversione in legge, ne ha quindi favorito un ampio utilizzo, spesso esorbitante dai canoni costituzionalmente delineati. Si aggiunga a ciò la crisi del sistema dei partiti, che ha determinato una frequente tendenza delle maggioranze parlamentari ad adeguarsi piuttosto supinamente alle esigenze dell’esecutivo, anche in virtù della leaderizzazione delle forze politiche e delle modifiche apportate alla legge elettorale, che hanno ripetutamente privato i singoli membri delle Camere di una legittimazione popolare diretta mediante il voto di preferenza, in favore di una selezione/cooptazione operata dalle segreterie sovente secondo criteri di fedeltà personale o di opportunità contingente.
Tutto ciò considerato, ben si comprende come la sentenza n. 146 del 2024 assuma particolare rilievo in quanto, seguendo un continuum con altre pronunce in materia, mira a delimitare in modo più rigoroso i margini di operatività della decretazione d’urgenza e i requisiti alla base di essa, così da ricondurla quanto più possibilmente nei limiti del dettato costituzionale, operando quella che è stata efficacemente definita una actio finium regundorum[2].
- I fatti di causa
Le vicende sottoposte al giudizio della Corte traggono origine, come detto, dalla cessazione anticipata dalla carica di Stéphane Lissner, sovrintendente della fondazione lirico-sinfonica “Fondazione Teatro San Carlo” di Napoli, a causa della previsione introdotta dall’art. 2, comma 3, del d.l. n. 51/2023, un decreto-legge dal contenuto assai eterogeneo, definito anche “omnibus”. Dietro tale riforma risiedeva verosimilmente la volontà del governo Meloni di sostituire l’amministratore delegato della Rai – Radiotelevisione Italiana S.p.A. Carlo Fuortes, il quale aveva assunto tale incarico, di durata ordinariamente triennale ai sensi dell’art. 11 del d.l. n. 177 del 2005, il 16 luglio 2021, durante il precedente esecutivo presieduto da Mario Draghi: secondo fonti di stampa, Fuortes avrebbe rassegnato anticipatamente le proprie dimissioni solo qualora avesse ottenuto in cambio la nomina a sovrintendente delle fondazioni lirico-sinfoniche che gestiscono il Teatro alla Scala di Milano o, appunto, il Teatro San Carlo di Napoli[3]. Da parte sua, Lissner era stato nominato sovrintendente della fondazione in esame a partire dall’aprile 2020, ragion per cui il suo contratto quinquennale sarebbe terminato soltanto nel 2025. Appare di conseguenza chiaro come l’art. 2, comma 3, fosse una misura ad personam, che riguardava il solo sovrintendente del teatro partenopeo e risiedeva su motivazioni eminentemente politico-partitiche, seppur indirettamente. Da ciò, dunque, derivava la volontà di inserire le previsioni in oggetto all’interno del decreto-legge n. 51/2023, poi applicate dal sindaco di Napoli Gaetano Manfredi, che ha provveduto a revocare il mandato a Lissner. Avverso tale provvedimento la Fondazione Teatro San Carlo ha avanzato in un primo tempo un ricorso cautelare al giudice del lavoro del Tribunale di Napoli; dopodiché, nonostante l’accoglimento, ha proposto un successivo reclamo all’autorità giudiziaria, la quale ha quindi sollevato la questione di legittimità costituzionale.
I parametri invocati dal Tribunale di Napoli sono stati gli articoli 3, 77, 97 e 98 della Costituzione, facendo leva in primo luogo sul contrasto con i principi di eguaglianza e ragionevolezza, dal momento che la disposizione aveva la finalità di disciplinare un esclusivo caso, andando dunque a introdurre disparità di trattamento assolutamente arbitrarie, non sussistendo peraltro effettive esigenze di favorire il ricambio generazionale e risultando asseritamente violato il principio della tutela dell’affidamento. Altrettante censure riguardavano da un lato la violazione del principio di buon andamento e di continuità dell’azione amministrativa, in considerazione del fatto che una così repentina revoca del mandato del sovraintendente sarebbe stata idonea a generare una situazione di discontinuità gestionale potenzialmente assai dannosa ai fini del corretto funzionamento del teatro[4], dall’altro il mancato rispetto del dettato costituzionale in materia di giusto processo, dal momento che Lissner si sarebbe trovato privo degli strumenti necessari per far valere le proprie ragioni nell’accertamento dei risultati conseguiti nello svolgimento dell’incarico. La principale disposizione asseritamente violata, tuttavia, risultava l’art. 77 Cost., in quanto la decadenza del sovraintendente sarebbe stata decisa con un decreto-legge, strumento del tutto inidoneo a tale obiettivo, in quanto mancavano i requisiti di necessità e urgenza alla base della sua adozione. In particolare, i ricorrenti lamentavano la mancanza di omogeneità di scopo tra le disposizioni censurate e il restante contenuto del decreto-legge: nonostante, infatti, nel preambolo ci si riferisse alla finalità di “salvaguardare l’efficienza delle fondazioni lirico-sinfoniche” mediante un’operazione di riordino, appariva assai arduo contestualizzarvi l’immediata e automatica decadenza dell’unico sovraintendente in carica cui la disposizione era effettivamente applicabile[5].
Da parte sua, la difesa da parte dell’Avvocatura dello Stato si fondava per un verso sull’eccezione della carenza di rilevanza, dal momento che l’art. 2, comma 3, non avrebbe dispiegato alcun effetto diretto sulla revoca del sovraintendente, asseritamente limitandosi “a chiarire quali effetti si producano in virtù del superamento del limite di età, esplicitando un dato già insito nel sistema”, per altro sulla riaffermazione della legittimità dell’imposizione di un limite generale di settant’anni per ricoprire l’incarico in questione, dovendosi privilegiare le esigenze di promozione del ricambio generazionale, nonché di razionalizzazione e armonizzazione della disciplina. Sarebbero stati, pertanto, infondati i rilevi relativi alla carenza di requisiti di necessità e urgenza: una replica definita assolutamente insufficiente dalla difesa dei ricorrenti, che osservava altresì il potenziale insorgere di una discriminazione costituzionalmente illegittima a causa dell’età. In linea generale, comunque, la difesa appariva in difficoltà nel replicare efficacemente al rilievo relativo alla carenza dei prerequisiti di straordinaria necessità e urgenza, non risultando effettivamente evidente un collegamento netto.
- Il contenuto della sentenza
Nonostante la molteplicità di parametri di costituzionalità segnalati, la Corte ha sviluppato la linea argomentativa della sentenza prevalentemente a partire dalla violazione dell’art. 77 della Costituzione, sfruttando l’opportunità per riaffermare i principi in materia di decretazione d’urgenza “con toni ‘istituzionali’ e a volte ‘didascalici’”[6]. Con un breve riferimento introduttivo vengono anzitutto respinte le eccezioni di inammissibilità sollevate dall’Avvocatura dello Stato, affermando che il vaglio di implausibilità risultava assolutamente superato e disattendendo il rilievo secondo cui l’art. 2, comma 3, non sarebbe stata la disposizione atta a caducare il rapporto di lavoro tra Lissner e la Fondazione.
Passando alle considerazioni di merito, la Consulta ha richiamato l’ampio margine di discrezionalità in capo al legislatore nella selezione delle circostanze legittimanti l’adozione di decreti-legge, le quali non sono in alcun modo definibili ex ante[7]; tuttavia, non ha potuto esimersi dal ricordare l’eccezionalità della decretazione d’urgenza, che deve sottostare al “rispetto di condizioni precise”[8], come si ricava dalla presenza di un termine tassativo per la conversione in legge, idoneo a caducare ex tunc gli effetti prodotti dall’atto avente forza di legge in caso di decorso dei sessanta giorni previsti. Tali rilievi vengono contestualizzati in una cornice costituzionale caratterizzata da una forte flessibilità delle disposizioni in tema di forma di governo, ma pur sempre delimitata dall’esigenza di salvaguardare il fondamentale equilibrio tra poteri, e nello specifico il rapporto di fiducia tra Parlamento e Governo il ruolo dei partiti politici ex art. 49 Cost., i quali favoriscono lo sviluppo di un dibattito trasparente e sottoposto al persistente controllo dell’opinione pubblica, caratterizzato inoltre dalla possibilità per le minoranze politiche di far valere le proprie posizioni e di incidere nell’iter legislativo[9]. Appare di conseguenza inevitabile che le dinamiche che attualmente registra l’evoluzione della forma di governo italiana non sembrino affatto integrare tali requisiti, soprattutto qualora sia apposta la questione di fiducia al disegno di legge di conversione del decreto-legge, che limita tanto la possibilità di intervenire in Aula quanto quella di proporre emendamenti. Tali considerazioni risultano ulteriormente attuali alla luce del fenomeno del c.d. “monocameralismo alternato”[10], soprattutto con riferimento a disegni di legge assai rilevanti quale quello di bilancio, che registrano una frequente apposizione della questione di fiducia per ottenere una rapida approvazione nella Camera presso la quale il ddl non è stato presentato per primo. Più in generale, accade assai sovente che i testi legislativi siano approvati in prima lettura in ambedue le Camere, senza che si verifichi la c.d. navette: se, senza dubbio, tale dinamica consente una maggior speditezza dell’iter legislativo, bisogna anche osservare che, di fatto, i membri di uno dei rami del Parlamento sono regolarmente esclusi dalla possibilità di poter incidere effettivamente sul contenuto delle proposte di legge. La prassi conferma l’attualità di tale fenomeno: la mancata conversione in legge di un decreto-legge è un’ipotesi che si verifica pressoché esclusivamente quando il Governo abbia già provveduto a superare il contenuto del precedente atto avente forza di legge con un altro decreto, nonostante la possibilità per il Parlamento di far decadere ex tunc le disposizioni approvate dall’esecutivo o, quantomeno, di apportare modifiche sostanziali sia costituzionalmente riconosciuta dall’art. 77.
I rilievi di maggior spicco riguardano il requisito dell’omogeneità di oggetto tra le varie previsioni del decreto-legge, oltre che tra gli emendamenti alla legge di conversione del decreto-legge e il decreto-legge stesso; la Corte provvede, in primo luogo, a ricordare la sostanziale inattuazione dell’art. 72 Cost., che attribuisce ai regolamenti delle Camere la competenza a definire itinera abbreviati per le proposte di legge delle quali si dichiari d’urgenza, che potrebbero invece consentire di superare l’abuso della decretazione d’urgenza valorizzando il ruolo del Parlamento ma non rinunciando ad assecondare “l’urgenza di legiferare”, pacificamente “riconosciuta dal sistema costituzionale”[11]. Rimane ferma l’impossibilità per il Governo di “dare un’interpretazione talmente ampia dei casi straordinari di necessità e urgenza da sostituire sistematicamente il procedimento legislativo parlamentare con il meccanismo della successione del decreto-legge e della legge di conversione”[12]. Il giudice delle leggi, poi, non si astiene dal rimarcare la sua piena legittimazione a delibare sulla sussistenza dei vizi in procedendo nell’iter legislativo, seguendo una giurisprudenza decisamente costante e riaffermando la profonda differenza tra il controllo di tipo meramente politico (e di fatto spesso eventuale) operato dalle Camere in sede di esame del disegno di legge di conversione e quello di esclusiva legittimità costituzionale operato dalla Consulta[13]. Particolarmente rilevante è la circostanza che la pronuncia in esame non dichiara l’illegittimità di norme inserite in un decreto-legge in virtù della loro eterogeneità rispetto al contenuto del provvedimento, bensì la Corte si è spinta ad accertare la mera insussistenza dei requisiti di necessità e urgenza, come accaduto in un novero piuttosto limitato di sentenze[14]. Un caso pressoché analogo si era registrato con la pronuncia n. 171 del 2007, che aveva censurato la palese insussistenza dei requisiti di straordinaria necessità e urgenza con riferimento a una disposizione finalizzata alla rimozione dell’ineleggibilità alla carica di sindaco[15], introdotta sempre ad personam in un decreto-legge rispetto al quale si evidenziava una “evidente estraneità rispetto alla materia disciplinata dalle altre disposizioni del decreto-legge in cui è inserita”[16]. Tuttavia, la mancanza di omogeneità assume comunque un ruolo centrale, in quanto è presentata come uno dei principali indici sintomatici della manifesta carenza del requisito della straordinarietà del caso di necessità ed urgenza.
Si arriva quindi alle valutazioni strettamente in tema di omogeneità, con le quali, richiamando la centralità di tale requisito ai fini dell’esame della “sussistenza delle condizioni di validità del provvedimento governativo”[17], emerge che la loro assenza risulta fondante della carenza del requisito della straordinarietà. Quanto al concetto di omogeneità in sé, la Corte ricorda che esso non richiede in alcun modo che la decretazione d’urgenza abbia un oggetto unico e sia caratterizzata da una perfetta identità di materia, bensì reputa sufficiente la semplice propensione teleologica ad un’unica finalità comune, tale da presentare “un’intrinseca coerenza dal punto di vista funzionale e finalistico”[18]. Non si mette affatto in discussione che le emergenze possano assumere una natura multiforme e pluri-sfaccettata, tale da richiedere l’approvazione di disposizioni volte ad affrontare profili differenti anche contenutisticamente di una situazione eccezionale. In tal senso, si pensi, oltre all’emergenza da COVID-19 e alle sue numerosissime ricadute su molteplici materie, anche alla ricostruzione di un’area colpita da una catastrofe naturale, una delle ipotesi di scuola che pacificamente fonda la sussistenza dei requisiti di necessità e urgenza: non v’è dubbio che i danni arrecati riguardino un novero assai eterogeneo di criticità, solo per fare alcuni esempi, economiche, sociali, sanitarie e relative a infrastrutture e trasporti.
In ogni caso, ciò che si delinea con la massima chiarezza è l’inidoneità del decreto-legge a contenere le c.d. “norme intruse”, dal momento che queste ultime, in ragione dell’esiguità dei sessanta giorni disponibili per la conversione, sono sovente sottratte a un effettivo esame di merito da parte delle Camere, sacrificando dunque “in modo costituzionalmente intollerabile il ruolo attribuito al Parlamento nel procedimento legislativo” e ratificando nella prassi un istituto praeter Constitutionem quale il c.d. “disegno di legge ad urgenza garantita”[19], potenzialmente destinatario di qualsiasi disposizione, indipendentemente dal contenuto, in base all’affidamento sulla conversione entro il termine previsto. Ne deriva quindi anche un rischio dello svilupparsi di una tendenza al venir meno della certezza del diritto, con il formarsi di discipline incoerenti, frammentarie ed oscure, inidonee a garantire un’adeguata prevedibilità delle conseguenze dei comportamenti da parte del singolo agente, il che finisce per integrare la violazione di un principio costituzionalmente tutelato (si veda sul punto la sentenza n. 110 del 2023 della Consulta). In buona sostanza, dunque, lo scrutinio operato dal giudice delle leggi non può che basarsi su una ponderata “valutazione sinergica e complessiva”[20] degli indici interni ed esterni, in modo tale da evitare da un lato di sconfinare nel margine di discrezionalità del Parlamento nell’effettuare valutazioni politiche, dall’altro di mettere a repentaglio i principi fondamentali sui quali si fondano l’esercizio del potere legislativo e, più in generale, la separazione dei poteri nel nostro ordinamento.
Nel caso in concreto, quindi, l’insussistenza dei requisiti disciplinati dall’art. 77 Cost. emerge dall’inesistenza di correlazioni con le finalità annunciate nel preambolo, le quali, pur facendo lato sensu riferimento a “garantire l’efficienza dell’organizzazione […] delle fondazioni lirico-sinfoniche”, non riscontrano alcuna omogeneità con l’immediata decadenza dell’unico sovrintendente oltre i settant’anni di età alla data del 1° giugno 2023. Un ultimo riferimento riguarda l’analisi del testo degli articoli 3 e 13 del decreto legislativo n. 367 del 1996, che dispone la trasformazione degli enti che operano nel settore musicale in fondazioni di diritto privato: sebbene sia innegabile la sussistenza di un interesse pubblico all’attuazione delle previsioni degli artt. 9 e 33 Cost. in tema rispettivamente di promozione della cultura e di libertà dell’arte, non si ravvede alcun tipo di minaccia diretta a tali valori apportata dalla permanenza in carica dei sovraintendenti delle fondazioni lirico-sinfoniche oltre il settantesimo anno d’età. Né, tantomeno, vi è alcun riferimento nel titolo del decreto-legge e nel più ampio contesto delle materie trattate dal legislatore con il decreto in esame: appare chiaro che le sole menzioni di “amministrazione di enti pubblici, di termini legislativi e di iniziative di solidarietà sociale” non possano inserirsi in un continuum a livello tanto teleologico quanto di ratio con le altre riforme operate, che non si collocano in un quadro di modifiche ad ampio spettro della disciplina delle fondazioni lirico-sinfoniche, non integrando quel “disegno di riordino sistematico” che la Consulta ha più volte prescritto[21]. La Corte tenta infine una ricostruzione dell’intento originario del legislatore, andando ad analizzare tanto il dibattito parlamentare e i suoi lavori preparatori, quanto la difesa in sede processuale posta in essere dal Governo: nessun indice credibile permette, infatti, di abbattere la barriera dei requisiti di straordinaria necessità e urgenza per sconfinare nel più comodo terreno della discrezionalità delle valutazioni politiche delle Camere in sede di conversione.
- Conclusioni, in prospettiva della conversione del c.d. “decreto Paesi sicuri”
Arrivando dunque a trarre le conclusioni, non si può non osservare come la Corte, con la sentenza in esame, miri apertamente a porre argini al Governo nelle vesti di legislatore e in particolare alle sue interpretazioni eccessivamente estensive dell’art. 77 Cost.: la tendenza della prassi ad evolversi verso l’affermazione di una “democrazia decidente”[22] non può che vedere una forte assertività da parte della Consulta, con l’obiettivo di salvaguardare il dettato costituzionale in tema di decretazione d’urgenza e, più in generale, di articolazione della funzione legislativa. Come più volte rilevato, l’esigenza di speditezza dell’iter decisionale e la discrezionalità in capo all’esecutivo (e indirettamente anche alla maggioranza) di selezionare le circostanze che assumono i connotati di straordinaria necessità e urgenza non possono assolutamente derogare ai principi fondamentali che regolano la forma di governo (quantomeno a Costituzione invariata[23]). Tali valutazioni possono porsi in continuità con quanto si può osservare con riferimento al decreto-legge n. 158 del 2024, intitolato “disposizioni urgenti in materia di procedure per il riconoscimento della protezione internazionale” (c.d. “decreto Paesi sicuri”): tale atto avente forza di legge ha attribuito il rango di fonte primaria all’elenco dei Paesi di origine sicuri, verso i quali è possibile provvedere al respingimento delle domande di riconoscimento di protezione internazionale, superando la previgente inclusione in un decreto del Ministero degli Affari Esteri e della cooperazione internazionale, di concerto con il Ministero della Giustizia[24]. Un simile intervento mediante decreto-legge trova il suo fondamento nella necessità da parte dell’esecutivo di dare risposte anzitutto politiche alla contrapposizione originatasi tra le disposizioni dettate dal Governo e le interpretazioni fornite dai giudici di merito con riferimento all’effettivo grado di sicurezza di alcuni dei Paesi di provenienza dei richiedenti protezione internazionale. In particolare, la reazione governativa si fonda su due decreti della sezione XVIII civile del Tribunale di Roma, che, disapplicando il decreto ministeriale fino ad allora in vigore, hanno negato la convalida del trattenimento nei centri per richiedenti asilo recentemente costruiti in Albania ed equiparati alle zone di frontiera o di transito italiane, facendo leva sull’esigenza di applicare la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 4 ottobre 2024[25] e dunque di valutare nel merito l’effettiva qualificazione come “Paesi sicuri” di alcuni degli Stati di provenienza dei migranti.
Non è affatto questa la sede per trattare in dettaglio la materia dell’effettiva sicurezza dei Paesi di origine né i criteri che sottostanno a tale definizione, ma una considerazione finale non può che riguardare la registrazione della tendenza del Governo di servirsi del decreto-legge in assenza di una specifica situazione di estrema necessità ed urgenza, non potendosi certo considerare tale il rientro dall’Albania di un numero assai ristretto di richiedenti asilo. Il riferimento nel preambolo alla necessità di adeguarsi alla pronuncia della Corte di Giustizia dell’UE potrebbe agevolmente rappresentare un indice significativo per ravvisarvi i presupposti di necessità e urgenza; tuttavia, se tale giustificazione è idonea per fondare la rimozione di Camerun, Colombia e Nigeria dalla lista, lascia qualche perplessità la scelta di effettuare l’aggiornamento mediante decreto-legge[26]. L’intento dell’esecutivo è chiaramente quello di tentare di vincolare l’interpretazione da parte dei giudici ordinari dell’elenco dei Paesi sicuri mediante l’attribuzione del rango di fonte primaria alla lista in oggetto, una materia solitamente lasciata alla legislazione secondaria in ragione della sua maggior flessibilità e adattabilità al mutare delle circostanze geopolitiche. Al di là delle effettive conseguenze pratiche sull’attività degli organi competenti, che potrebbero non essere di alcun rilievo in ragione della possibilità per i giudici nazionali di disapplicare anche atti legislativi nazionali aventi rango primario se in contrasto con il diritto dell’UE[27], permangono alcune criticità: l’aggiornamento annuale della lista mediante decreto-legge rischia di contraddire la ratio emergenziale sulla quale si fonda la decretazione d’urgenza. Più in generale, i decreti in oggetto potrebbero assurgere agevolmente al rango di “leggi-provvedimento”, caratterizzate da una sostanziale natura amministrativa per la determinatezza dei suoi destinatari o dei suoi contenuti, superando così l’ordinaria generalità e astrattezza dell’atto legislativo[28], richiedendo conseguentemente un attento sindacato della Consulta sull’effettiva sussistenza di un interesse pubblico prevalente e sul rispetto dei principi fondamentali[29]. Inoltre, il decreto-legge non si limita a fissare una tantum il novero degli Stati di origine idonei al respingimento, bensì, alla lett. d) dell’art. 1, introduce una sorta di “decretazione d’urgenza programmata”, disponendo che l’elenco dei Paesi sicuri sia “aggiornato periodicamente con atto avente forza di legge e notificato alla Commissione europea”, sulla base di una relazione redatta dal Consiglio dei Ministri che dia atto, “compatibilmente con le preminenti esigenze di sicurezza e di continuità delle relazioni internazionali”, delle ragioni di inclusione o esclusione nella lista dei vari Paesi, prevedendo soltanto la trasmissione della relazione alle commissioni parlamentari, senza altre forme di coinvolgimento delle Camere.
In ultima analisi, dunque, non si può fare a meno di notare come la tensione tra legislatore e Corte sull’effettiva sussistenza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza sia assolutamente significativa e riguardi molteplici materie: gli equilibri risultano sempre assai incerti, così come le reciproche censure di sconfinamento dalle proprie competenze, ma la quaestio di fondo permane la discrasia sempre maggiore tra sistema costituzionale delle fonti e prassi governativa e parlamentare, dalla quale si delineano gli oscillanti confini di demarcazione tra competenze del Governo e delle Camere.
*Dottorando di ricerca in Diritto presso la Scuola Superiore di Studi Universitari e Perfezionamento “Sant’Anna” di Pisa
[1] Si tratta del decreto recante “Disposizioni urgenti in materia di amministrazione di enti pubblici, di termini legislativi e di iniziative di solidarietà sociale”.
[2] F. Fabrizzi, Una sentenza necessaria per stabilire un punto di non ritorno. Corte cost. 146/2024 e l’equilibrio della forma di governo, in federalismi.it,22, 2024, p. 78.
[3] I. Palisi, Vigevani: «Lissner, la Corte Costituzionale ha stabilito che il Governo ha compiuto un abuso di potere», in Corriere del Mezzogiorno, 27 luglio 2024.
[4][4] Si consideri in proposito anche il ruolo apicale svolto dal sovraintendente della Fondazione, il quale è dotato di competenze sia in materia artistica sia in materia strettamente economica-gestionale: non a caso, sovente accade che l’entrata in carica del successore di un sovraintendente in scadenza o dimissionario sia posticipata di alcuni mesi rispetto alla nomina, così da consentire una transizione non troppo repentina.
[5] Funditus, si veda G.M. Marsico, Sulla revoca dell’incarico di sovrintendente del Teatro San Carlo di Napoli: un difficile bilanciamento tra principio d’eguaglianza, finanza pubblica e buon andamento della pubblica amministrazione, in Labor Il lavoro nel diritto, 15 febbraio 2024, disponibile all’indirizzo www.rivistalabor.it.
[6] R. Dickmann, Gli eccessi della decretazione d’urgenza tra forma di governo e sistema delle fonti. (Osservazioni a margine di Corte cost., 25 luglio 2024, n. 146), in federalismi.it, 22, 2024, p. 52.
[7] Corte Costituzionale, sentenza n. 171 del 2007, Considerato in diritto, § 4.
[8] Corte Costituzionale, sentenza n. 360 del 1996, Considerato in diritto, § 4.
[9] Funditus, F. Fabrizzi, La Corte costituzionale giudice dell’equilibrio tra i poteri, Giappichelli, Torino, 2019, p. 77.
[10] Sul punto amplius C. Antonucci, Abuso della decretazione d’urgenza e “monocameralismo alternato” nell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale, in federalismi.it¸ 12, 2024, pp. 1-28.
[11] Corte Costituzionale, sentenza n. 146 del 2024, Considerato in diritto, § 5.
[12] Ibidem.
[13] In particolare, la Consulta richiama la sentenza n. 29 del 1995, Considerato in diritto, § 2.
[14] Oltre alla succitata sentenza n. 29 del 1995, è opportuno ricordare anche le sentenze n. 171 del 2007, n. 128 del 2008 e n. 220 del 2013.
[15] Per un maggiore approfondimento, si vedano S. Boccalatte, Tra norma e realtà: riflessioni sulla motivazione del decreto-legge alla luce della sentenza n. 171/2007, in federalismi.it, 12 settembre 2007, e G. Di Cosimo, Tutto ha un limite (la Corte e il Governo legislatore), in Forum di Quaderni Costituzionali, 10 settembre 2007.
[16] Corte Costituzionale, sentenza n. 171 del 2007, Considerato in diritto, § 6.
[17] Corte Costituzionale, sentenza n. 151 del 2023, Considerato in diritto, § 4.2.
[18] Corte Costituzionale, sentenza n. 137 del 2018, Considerato in diritto, § 5.1.
[19] Corte Costituzionale, sentenza n. 146 del 2024, Considerato in diritto, § 7.
[20] Corte Costituzionale, sentenza n. 171 del 2007, Considerato in diritto, § 4.
[21] In ultimo, si veda la sentenza n. 33 del 2019.
[22] Sul concetto di “democrazia decidente” si veda, diffusamente, il recente testo di F. Fabrizzi, Il Parlamento nella “democrazia decidente”. Il ruolo della Camere oggi, Il Mulino, Bologna, 2024,
[23] Tuttavia, in dottrina è stato osservato che la pronuncia potrebbe assumere anche una funzione di monito in vista dell’eventuale approvazione della riforma costituzionale volta a introdurre il c.d. “premierato elettivo”, che, si ricordi, non apporta alcuna modifica al dettato costituzionale in tema di iter legislativo, cfr. F. Fabrizzi, Una sentenza necessaria per stabilire un punto di non ritorno, cit., p. 74.
[24] Il decreto ministeriale fino a ora vigente risaliva al 4 ottobre 2019, poi aggiornato sia nel 2023 sia nel 2024.
[25] Tale pronuncia, in estrema sintesi, prevede che l’art. 37 della direttiva 2013/32/UE sia idoneo a ostare alla designazione di uno Stato terzo come Paese sicuro anche qualora solo parti del suo territorio nazionale non rispettino i requisiti previsti per la classificazione.
[26] C. Cudia, Osservazioni sul decreto legge in materia di individuazione dei paesi di origine sicuri nelle procedure per il riconoscimento della protezione internazionale: quando il fine non giustifica il mezzo (e il mezzo è inidoneo a perseguire il fine), in federalismi.it, 27, 2024, pp. 56-58.
[27] Ivi, p. 59.
[28] Sui problemi di legittimità costituzionale e di compatibilità con il diritto dell’UE si veda, ex multis, F. Zammartino, Le leggi provvedimento nelle giurisprudenze delle corti nazionali ed europee tra formalismo interpretativo e tutela dei diritti, in Rivista AIC, 4, 2017, pp. 1-42.
[29] C. Cudia, Osservazioni sul decreto legge in materia di individuazione dei paesi di origine sicuri nelle procedure per il riconoscimento della protezione internazionale, cit., pp. 63-65.