PAOLO BIANCHI*
Con la sentenza n. 66 del 2024 la Corte costituzionale torna ad occuparsi del complesso mosaico giurisprudenziale e legislativo che ambisce a definire le condizioni giuridiche nelle quali dovrebbero incanalarsi i rapporti di coppia.
In questa occasione, la Corte era chiamata a decidere sulla prospettata illegittimità costituzionale dell’art. 1, c. 26, della l. 20 maggio 2016 n. 76, (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), il quale prevedeva lo scioglimento dell’unione civile come conseguenza automatica della sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso di una delle due persone che ne fanno parte. Nella prospettazione del giudice a quo, l’omessa previsione della facoltà di convertire l’unione civile in matrimonio qualora la coppia abbia espresso la volontà di procedere in tal senso violava gli artt. 2 e 3 della Costituzione, oltre a porsi in contrasto con gli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. L’ordinanza di rimessione censurava inoltre le disposizioni che regolano la conversione del matrimonio in unione civile nel caso di rettifica del sesso di uno dei coniugi (l’art. 1, c. 26 della l. n. 76/16, l’art. 31, c. 4-bis, del d.lgs. n. 150/11 e l’art. 70-octies, c. 5, del d.P.R. n. 396 del 2000), nella parte in cui non prevedono la trasformazione dell’unione in matrimonio quando questa divenga eterosessuale.
Dalla denunciata omissione del legislatore deriva l’interruzione della continuità del rapporto di coppia che, ad avviso del giudice remittente ricava in primo luogo la lesione dei diritti inviolabili dell’individuo, che è posto nell’alternativa tra rinunciare al cambiamento di sesso o interrompere l’unione, e più in generale della formazione sociale in esame, poiché non è riconosciuta «adeguata protezione e tutela ai suoi componenti».
Si prospettava inoltre la violazione del principio di eguaglianza, dovuta all’evidente asimmetria rispetto a quanto (dopo la sent. n. 170/14 della Corte costituzionale) dispone la legge, con riferimento alla situazione che si determina allorché – a seguito di rettificazione – la coppia originariamente eterosessuale divenga omosessuale. In tal caso, infatti, la legge dispone l’automatica trasformazione del matrimonio in unione civile.
Ne conseguiva anche l’illegittimità per contrasto con l’art. 117, c. 1, Cost., poiché la legge avrebbe violato le disposizioni CEDU che impongono agli stati contraenti il rispetto della vita privata e familiare e il divieto di discriminazioni.
Il nucleo dell’ordinanza di rimessione consisteva nel rilevare l’ingiustificata differenza di trattamento che si produce, in caso di cambiamento di sesso, tra la disciplina riservata ai coniugi, i quali dopo l’intervento legislativo del 2016 vedono convertire il matrimonio in unione civile, e i componenti dell’unione civile, che la legge ignora. Mentre nella prima ipotesi è possibile dare continuità al rapporto, seppur trasformandolo, nella seconda si determina necessariamente un’interruzione, destinata a produrre quello stesso «sacrificio integrale della dimensione giuridica del preesistente rapporto» che la sent. n. 170/14 aveva ritenuto essere un’intollerabile conseguenza del “divorzio imposto”. A tale illegittima differenziazione, riservata a situazioni analoghe sotto ogni profilo, si sarebbe dovuto rimediare, nella logica del giudice a quo, con un’additiva “a rime obbligate” destinata a convertire, in presenza del consenso degli interessati, l’unione civile in matrimonio.
La Corte esclude però immediatamente la possibilità di equiparare le due situazioni, richiamando la propria sent. n. 138/10: in quell’occasione aveva rinvenuto il fondamento delle unioni omosessuali nell’art. 2 Cost., a differenza del matrimonio, fondato sull’art. 29 Cost., e su tale differenza di base giuridica aveva concluso che la diversità di regime «non dà luogo ad una irragionevole discriminazione, in quanto le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio» (Cons. in dir., § 8). In quella decisione si distingueva nettamente tra il necessario riconoscimento e le garanzie dovute in forza della tutela costituzionale al matrimonio, il diritto fondamentale delle persone dello stesso sesso «di vivere liberamente una condizione di coppia» e la facoltà del legislatore di regolare discrezionalmente la loro unione.
Nella decisione in commento è richiamata anche la sent. n. 170/14, che si innesta sullo stesso impianto del precedente del 2010, invocato quando si tratta di confermare la distinzione ontologica tra matrimonio e unioni civili: «come già sottolineato da questa Corte, la nozione di matrimonio presupposta dal Costituente (cui conferisce tutela il citato art. 29 Cost.) è quella stessa definita dal codice civile del 1942, che “stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso” (sentenza n. 138 del 2010)» (Cons. in dir., § 5.2). Sulla premessa che i due istituti sono distinti e non assimilabili in alcun modo, la Corte concluse che la disciplina dello scioglimento del matrimonio non può costituire un valido tertium comparationis: «la diversità della peculiare fattispecie di scioglimento a causa di mutamento del sesso di uno dei coniugi rispetto alle altre cause di scioglimento del matrimonio ne giustifica la differente disciplina» (Cons. in dir., § 5.4).
Nella sent. n. 66/24 la Corte recupera i propri precedenti a sostegno dell’affermazione che «il rapporto coniugale si configura come un vincolo diverso da quello che ha fonte nell’unione civile, e non può essere ad esso assimilato perché se ne possa dedurre l’impellenza costituzionale di una parità di trattamento» (Cons. in dir., § 3.1.1). Da ciò ricava l’infondatezza della questione in relazione all’art. 3 Cost.
Lo stesso percorso argomentativo dei due precedenti induce la Corte all’accoglimento in base all’art. 2 Cost., perché l’automatismo dello scioglimento produrrebbe un «vuoto di tutela» che «entra irrimediabilmente in frizione con il diritto inviolabile della persona alla propria identità, di cui pure il percorso di sessualità costituisce certa espressione, e comporta un sacrificio integrale del pregresso vissuto» (Cons. in dir., § 4).
Una volta accertata l’illegittimità della disciplina impugnata e contestualmente esclusa la sussistenza di una discriminazione fra le due discipline poste a confronto, la Corte non può adottare l’additiva proposta dal giudice a quo, che presupporrebbe l’assimilabilità tra gli istituti.
Si sceglie pertanto la strada di una pronuncia additiva che elude le rime obbligate, individuando un rimedio in cui siano rispettate «le ragioni di proporzione ed adeguatezza del mezzo al fine». A tale scopo, la Corte ricerca nel sistema gli strumenti più idonei a evitare la cesura tra l’unione e il matrimonio conseguente alla pronuncia di rettificazione del sesso e costruisce un nuovo meccanismo, innescato dalla sospensione degli effetti della sentenza fino alla decorrenza del termine previsto per le pubblicazioni matrimoniali.
Da un punto di vista strettamente sostanzialistico, la decisione rimuove il pregiudizio denunciato dal giudice remittente, concretizzando la formula con la quale, già nella sent. n. 138/10, la Corte si riservava «la possibilità d’intervenire a tutela di specifiche situazioni».
Meno convincente è l’impianto concettuale sul quale si innesta questa pronuncia. Esso infatti poggia, come si è detto, sull’affermazione della indubbia differenza tra il matrimonio e le unioni civili: solo il primo ha un fondamento costituzionale, nell’art. 29, mentre le altre sono lasciate alla discrezionalità del legislatore, fatto salvo – come nel caso di specie – il richiamo alla tutela dei diritti inviolabili. A sua volta, la differenziazione nasce dalla lettura dell’istituto che la Corte ha imposto nel 2010: il matrimonio al quale si ispirarono i Costituenti è quello del codice del 1942 e, sia pure ammettendosi «nuove letture dei più tradizionali istituti del diritto civile», queste non possono «spingersi fino al punto d’incidere sul nucleo della norma». Nucleo che risulta concretizzarsi, nella catena di decisioni richiamate, esclusivamente nella natura eterosessuale dell’unione.
Per poter ammettere che una disciplina differenziata non costituisca una discriminazione lesiva dell’art. 3, c. 1, Cost. è necessario che la distinzione sia, a sua volta, giustificata dalla necessità di tutelare adeguatamente un interesse costituzionalmente rilevante. In particolare, la tutela che la Corte costituzionale rinviene nella peculiare ed esclusiva disciplina del matrimonio non si sostanzia in qualcosa di diverso dalla necessaria diversità del sesso dei coniugi. Se questa conclusione è corretta, è necessario chiedersi quale sia il valore di rilievo costituzionale tutelato, non tanto dall’art. 29 Cost., quanto dalla rigida lettura della Corte. In base a quali argomenti un istituto che si risolve nella tutela peculiare ed esclusiva accordata alle coppie eterosessuali può sottrarsi a censure rivolte in nome del divieto di discriminare in base al sesso? A questo interrogativo la Corte, finora, non ha risposto.
Il punto è centrale – anche se trattato incidentalmente – anche nell’ultima decisione, perché da tale premessa, che sorregge l’intera giurisprudenza costituzionale in materia, parte la ricerca della Corte di una soluzione alternativa rispetto a quella prospettata dal giudice a quo. L’alternativa, d’altronde, è obbligata solo postulando l’ontologica diversità del matrimonio rispetto ad ogni altra forma di convivenza. È anche evidente che, considerando costituzionalmente accettabile la conversione automatica del matrimonio in unione civile e rigettando lo stesso automatismo nel percorso inverso, con la sentenza n. 66/24 la Corte ha istituito una gerarchia implicita tra i due istituti.
Qui è necessaria un’ultima osservazione. La Corte, escludendo di trovarsi di fronte a rime obbligate (o, meglio, rifiutando di seguire quelle che il remittente proponeva), ha elaborato ex novo una disciplina integrativa del passaggio dall’unione civile al (possibile) matrimonio, che supplisce all’omissione legislativa facendo ricorso a una sorta di discrezionalità giudiziaria: solo in tal senso, del resto, può interpretarsi il richiamo nel testo della sentenza ai criteri di proporzionalità e adeguatezza. La previsione della sospensione degli effetti dello scioglimento del vincolo è infatti integralmente da attribuirsi alla creatività giurisprudenziale, non trovando alcun appiglio nella legislazione; la successiva disciplina del procedimento che conduce al matrimonio è desunta, per estensione, dalla legislazione vigente.
Sembra dunque consolidarsi la tendenza del giudice di costituzionalità (avviata con le decisioni in materia di aiuto al suicidio e proseguita con un nutrito gruppo di pronunce in tema di adeguatezza della sanzione amministrativa e penale) a sviluppare una propria capacità di normazione non più direttamente riconducibile al puntuale vincolo costituzionale, Al canone della ragionevolezza come modo di esercizio del controllo sulla discrezionalità legislativa si affianca ora la ragionevolezza come modo di esercizio della discrezionalità della Corte nella sua funzione propriamente legislativa.
* Professore ordinario di Diritto pubblico comparato – Università di Camerino