La sent. n. 192 del 2024 della Corte Costituzionale e gli atti amministrativi generali a contenuto normativo

RAFFAELE MANFRELLOTTI*

1. La sentenza n. 192 del 2024 della Corte costituzionale ha accolto, come noto, alcuni dei dubbi di costituzionalità che la dottrina aveva avanzato, anche in sedi istituzionali[1], già durante il percorso parlamentare della legge n. 86 del 2024.

In realtà, la pronunzia costituisce un tassello fondamentale non soltanto nella comprensione del modello di regionalismo espresso dalla Costituzione dopo la riforma del Titolo V (e nonostante l’improvvida formulazione di molte disposizioni oggetto di revisione come, appunto, l’art. 116 Cost.), ma altresì nell’inquadramento di una problematica spesso all’attenzione della riflessione scientifica: quello dell’impiego di atti amministrativi generali in funzione normativa senza i requisiti formali di cui all’art. 17 della l. n. 400 del 1988.

Con l’espressione atti amministrativi generali si identificano talune manifestazioni della funzione amministrativa la cui natura è tutt’oggi dubbia. Si tratta di atti non individuali, i quali si distinguono dai regolamenti o perché i loro destinatari sono determinabili (p. es.: i residenti in un determinato quartiere), per cui non sono atti generali, o perché disciplinano casi determinati (p. es.: il divieto di accedere in una certa piazza in una certa data), e perciò non sono atti astratti. La distinzione, netta sul piano teorico, è tuttavia nella pratica assai meno agevole. Le categorie dei regolamenti e degli atti amministrativi generali sono, nella prassi, utilizzate in maniera assai promiscua, ciò che ha talvolta consentito al Governo (e ai singoli Ministri) una vera e propria “fuga dal regolamento” preferendo l’impiego di atti amministrativi generali, indistinguibili dai regolamenti se non per la denominazione, a cui non è applicabile la disciplina dell’art. 17 della l. n. 400 del 1988: un esempio recente si è avuto nella regolazione dell’emergenza legata alla pandemia di Covid-19 del 2020, durante la quale il Governo ha adottato una pluralità di atti aventi contenuto indiscutibilmente normativo nella forma di decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (d.P.C.M.), e dunque di atti amministrativi e non di regolamenti. La giurisprudenza ordinaria ha fugato ogni dubbio sulla qualità di fonti degli atti formalmente amministrativi aventi contenuto generale ed astratto, con la con­seguente soggezione degli stessi al relativo regime[2].

Con la pronunzia in esame anche la Corte costituzionale, riprendendo alcuni motivi già espressi in passato[3], ha assimilato gli atti amministrativi generali (nella specie, i d.P.C.M.) ai regolamenti sotto il profilo dei limiti a cui soggiace qualsiasi disciplina di natura non legislativa. 

2. L’attribuzione di funzioni chiaramente regolatorie ad un atto la cui qualifica di regolamento è espressamente negata si presenta come una scelta priva di razionalità, in quanto deroga ingiustificatamente o, il che è peggio, con lo scopo esclusivo di eluderne le garanzie, all’art. 17, co. III, della legge 23 agosto 1988, n. 400. La censura sembra ancora più grave, alla luce del fatto che il risultato ultimo di siffatta operazione normativa è quello di prevedere atti che esplicano efficacia nei riguardi dei cittadini, privi delle garanzie procedimentali normalmente previste per tali atti: ossia, non soltanto il parere del Consiglio di Stato ma, altresì, la collegialità della deliberazione governativa. Per altro verso, la previsione si mostra, altresì, lesiva delle competenze costituzionalmente attribuite allo stesso Consiglio di Stato dall’art. 100 Cost., perché ne menoma il ruolo di “consulenza giuridico-amministrativa e di tutela della giustizia nell’amministrazione”; il che appare ancora più chiaro ove si rifletta sulle descritte vicende che hanno portato all’emanazione del decreto in esame.

In buona sostanza, l’art. 100 Cost. sembra presupporre un ruolo del Consiglio di Stato ogni volta che un atto trascenda i limiti dell’istituzione amministrativa per esplicare effetti nei riguardi dei cittadini, e questo al fine di salvaguardare il valore, costituzionalmente tutelato, della giustizia dell’amministrazione[4]. Non è ipotizzabile, nella vigenza dell’art. 100 Cost., la presenza di atti amministrativi che ledano tale valore (si badi, l’unico riferito, direttamente, all’amministrazione nel suo complesso, prescindendo dalla divisione della medesima, secondo una celebre ricostruzione[5], nei tre modelli ex artt. 5, 95 e 97 Cost., ciascuno con proprî criterî di legittimazione). Meno che mai, è ipotizzabile la presenza di fonti secondarie, prive della legittimazione dell’atto del Parlamento e degli strumenti procedimentali che rendano effettivo il supremo principio di giustizia cui sono soggette e, per ciò solo, in contrasto con tale principio. Alla luce di queste considerazioni, la previsione di cui all’art. 17, co, III, della legge 400/88, assume il carattere di specificazione del principio costituzionale ex art. 100 Cost., in quanto tale non derogabile dalla legislazione successiva. Proprio l’art. 100 sembra, allora, costituire un ulteriore parametro costituzionale violato dal decreto legge n. 24/2003. 

In realtà, la dottrina ha dimostrato che la tradizionale distinzione tra atti amministrativi generali e regolamenti si basi su criterî di assai difficile verifica, sul piano pratico, quale il rispetto delle “norme sulla normazione” che sono applicabili soltanto ai secondi, in particolare sotto il profilo del nomen juris[6]. In buona sostanza, le due categorie si presenterebbero, sul piano fenomenico, come l’una quale sorta di “doppione” dell’altra, indistinguibili sotto il profilo del contenuto normativo. La conseguenza di tale impostazione porterebbe, tuttavia, a postulare la possibile elusione di tutto il sistema delle garanzie previste per gli atti regolamentari solo che a questi si attribuisca l’“etichetta” di atti amministrativi generali. In realtà, la dottrina in esame supera questo paradosso sul piano della legittimazione, nel momento in cui sembra individuare un ulteriore criterio formale di distinzione nella diversa configurazione della partecipazione degli interessi degli amministrati al procedimento di formazione dell’atto[7]. Ora, può, in astratto, condividersi sulla fungibilità tra le garanzie legate al principio di legalità e quelle che discendono dalla partecipazione al procedimento amministrativo, nel quadro del sistema costituzionale attuale. Tuttavia, queste ultime resterebbero lettera morta se il sistema non predisponesse strumenti di tutela che ne garantiscano l’effettività. Alla luce di quanto si è già detto, sembra che il mezzo di tutela più coerente con l’assetto sistemico complessivo sia costituito proprio dal giudice della giustizia dell’amministrazione, ai sensi dell’art. 100 Cost. Sicché, anche a voler seguire l’impostazione che afferma la fungibilità tra atti amministrativi generali e regolamenti, nel caso di specie la previsione normativa si presenta, in ogni caso, illegittima nella parte in cui disattende questo essenziale momento di verifica stabilito dalla Costituzione.

3. Il punto 13.2 della pronunzia in esame affronta la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, co. VII della l. n. 86 del 2024 nella parte in cui prevede che atti amministrativi generali, qualificati come d.P.C.M., possano modificare i decreti legislativi adottati ai sensi del co. I della legge per la determinazione dei l.e.p.

Il ragionamento della Corte è interessante, nella prospettiva della presente riflessione, perché assimila i d.P.C.M. ai regolamenti di cui all’art. 17 della l. n. 400 del 1988 in ragione del dato obiettivo del contenuto normativo. Pur senza motivare expressis verbis, tutto il percorso argomentativo della Corte costituzionale si fonda sull’assimilazione degli atti amministrativi generali ai regolamenti ogni volta che i primi pongano norme generali d astratte, il che li riconduce al paradigma dell’art. 17 della l. n. 400 per quanto concerne i limiti della funzione regolamentare.

Nel caso di specie, la Corte ha censurato l’applicabilità della delegificazione finalizzata alla “modifica di un atto legislativo futuro ad opera di un atto sostanzialmente regolamentare (il d.P.C.M.)” , perché tale espediente regolativo non consente l’individuazione da parte della legge di delegificazione delle norme legislative da abrogare in violazione dei rapporti tra le fonti correttamente delimitati dal secondo comma dell’art. 17 della l. n. 400 del 1988. Ne consegue che, per la Corte costituzionale, il citato art. 17 assume il ruolo di un parametro di legittimità implicito (o, quanto meno, di un tertium comparationis) ogni volta che il legislatore affidi funzioni regolamentari ad atti amministrativi generali non denominati regolamenti con l’effetto, voluto o meno, di eludere l’applicazione della norma legislativa citata.

Questa precisazione consente un’ulteriore riflessione quanto alla sindacabilità del conferimento di funzioni sostanzialmente normative ad atti privi del nomen juris di regolamento non soltanto quanto all’elusione dei limiti sostanziali della funzione regolamentare ma, altresì, di quelli formali e, segnatamente, dell’obbligo di acquisizione del parere del Consiglio di Stato. Lo scenario di un ricorso al giudice amministrativo avverso un atto sostanzialmente normativo per violazione dell’art. 17 della l. n. 400, ovvero di un conflitto interorganico sollevato dallo stesso Consiglio di Stato per la tutela delle proprie competenze ex art. 100 Cost. è oggi possibile proprio sulla base dei chiarimenti offerti dalla sentenza n. 192 del 2024, e contribuirà forse a risolvere il problema dell’abuso dell’esercizio di funzioni normative da parte di atti formalmente non regolamentari.

*Professore ordinario di Diritto costituzionale e pubblico, Università degli Studi di Napoli Federico II – raffaele.manfrellotti@unina.it


[1] G. De Minico, Memoria per la Commissione Affari costituzionali della camera dei Deputati (audizione del 12 marzo 2024), consultabile su Astrid-online.

[2] C. Cass., sez. III, ord. n. 8883 del 2020.

[3] C. cost., sent. n. 116 del 2006.

[4] G. Abbamonte – R. Laschena, Giustizia amministrativa, in Trattato di diritto amministrativo diretto da G. Santaniello, XX, Padova, 2001, pp. 274 ss.

[5] M. Nigro, La pubblica amministrazione tra Costituzione formale e Costituzione materiale, in Studi in memoria di V. Bachelet, II, Milano, 1987, pp. 389 ss.

[6] G. Clemente di San Luca, L’atto amministrativo fonte del diritto obiettivo, Napoli, 2003, pp. 475 ss.; G. Della Cananea, Gli atti amministrativi generali, Padova, 2000, pp. 375 ss.

[7] G. Della Cananea, Gli atti amministrativi generali, cit., p. 395.


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