LA SENTENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA DEL 16 FEBBRAIO 2023 E LE GARANZIE DELLE INTERCETTAZIONI TELEFONICHE

La recente sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea (d’ora in poi CGUE)  nella causa C-349/21 del 16 febbraio 2023, che ha interessato lo Stato bulgaro, apre una riflessione sulle garanzie e sulle tutele sottese ai provvedimenti di autorizzazione alle intercettazioni, nonché – e in particolar modo – sul necessario bilanciamento tra i diritti coinvolti.

Ora, la Corte di Lussemburgo ha ammesso che un provvedimento – adottato da un Tribunale bulgaro – di autorizzazione all’intercettazione di comunicazioni telefoniche di soggetti accusati di partecipazione ad un’associazione a delinquere fosse privo di motivazione (poiché ricavabile dalla richiesta). In buona sostanza, secondo la CGUE, l’obbligo di motivazione non è violato quando la decisione si fonda su una richiesta che sia circostanziata e dettagliata e quando i motivi possono essere dedotti dalla lettura combinata dell’autorizzazione e della richiesta (cfr. il comunicato stampa n. 30/23 della CGUE).

L’esigenza processuale di acquisire delle prove non può, quindi, violare il rispetto dei principi fondamentali a tutela della sfera di libertà dell’essere umano, ossia la tutela della privacy sia nelle comunicazioni (art. 15 Cost.) che nel proprio ambito domiciliare (art. 14 Cost.).

Questi profili costituiranno oggetto della nostra attenzione. In via prioritaria si pone la questione:

Qual è lo stato dell’arte del bilanciamento dei diritti costituzionali coinvolti nel fenomeno delle intercettazioni in relazione all’esigenza processuale di acquisire le prove, tenuto anche conto degli innovativi strumenti offerti dalle nuove tecnologie?

Alla luce della decisione della Corte di Giustizia dell’Unione europea è possibile una riflessione, dal punto di vista dell’ordinamento italiano, sulla tutela della segretezza delle comunicazioni in caso di intercettazioni e sul tenore della motivazione dei provvedimenti che le dispongono?

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MARILENA COLAMUSSI
MARILENA COLAMUSSI
11 mesi fa

IL DIFFICILE BILANCIAMENTO TRA INTERCETTAZIONI TELEFONICHE E GARANZIE COSTITUZIONALI

Le intercettazioni telefoniche, quale mezzo di ricerca della prova nel processo penale, hanno una significativa rilevanza pratica, atteso che permettono di raggiungere risultanze probatorie definite «ad alto tasso di rendimento» sul terreno dell’efficienza delle indagini; è altrettanto significativa l’invasività di questo strumento rispetto al diritto alla riservatezza, tanto da rappresentare «la sua apicale compromissione».
Entrano in gioco anche i valori del “giusto processo”, che impongono di definire un equilibrio sul piano delle garanzie costituzionali: è evidente che l’efficienza investigativa non giustifica un abuso delle captazioni, con notevoli ricadute negative sul diritto di difesa, sulla parità in armi, sul contraddittorio e sull’onere della prova in capo all’accusa; quest’ultima non può, e non deve, trarre beneficio, sul terreno investigativo, a discapito delle garanzie difensive.
In concreto, il giudice autorizza il pubblico ministero ad adottare le intercettazioni con decreto “motivato”; questa previsione è espressione di civiltà giuridica, in quanto risponde alla garanzia costituzionale dell’obbligo di motivazione (art. 111, comma 6, Cost.), che, a sua volta, impone al giudice di svolgere un controllo di legittimità, un filtro giurisdizionale, utile a valutare autonomamente (cioè esaustivamente, e non con motivazione per relationem) la sussistenza dei presupposti applicativi dello strumento investigativo. La motivazione autonoma, formulata dal giudice, e non semplicemente mutuata dalla richiesta avanzata dal pubblico ministero, assicura un controllo endo ed extra processuale sulla legittimità dello strumento di ricerca della prova. In altri termini, la garanzia opera sia a livello endo-processuale, nella misura in cui permette alle persone direttamente coinvolte nel rito penale di impugnare il provvedimento, sia a livello extra-processuale, in quanto consente all’opinione pubblica di esercitare l’indispensabile controllo sulla corretta amministrazione della giustizia. La motivazione, dunque, è garanzia utile/necessaria a spiegare perché il risultato investigativo non può essere conseguito con nessun altro mezzo meno invasivo di quello delle intercettazioni, che si assumono come indispensabili, vale a dire come unico ed estremo strumento di ricerca della prova.
Non a caso, la recente riforma “Cartabia”, con riferimento specifico all’utilizzo del captatore informatico, ha implementato le garanzie, prescrivendo che il decreto che autorizza l’intercettazione tra presenti (mediante inserimento di un captatore) indichi «le specifiche ragioni» che rendono necessaria tale modalità per lo svolgimento delle indagini (art. 267, comma 1, c.p.p.).
Alla luce di queste brevi considerazioni, non convince la recente decisione della Corte di giustizia dell’Unione Europea (16 febbraio 2023) che legittima un provvedimento di autorizzazione all’intercettazione di comunicazioni, emesso dal presidente di un tribunale bulgaro, totalmente privo di motivazione, assumendo che quest’ultima possa essere desunta dalla richiesta presentata al Giudice, sul modello della motivazione per relationem.
Tale orientamento confligge anche con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ravvisa nell’obbligo di motivazione uno strumento di controllo giurisdizionale e di garanzia del giusto processo.
L’auspicio è che la posizione della Corte di Lussemburgo resti isolata e che in termini prospettici le scelte in tema di captazioni si fondino (al meno) su due direttrici generali: in primis, sul coordinamento di più valori, utile a conferire equilibrio alla disciplina (riservatezza, privacy, diritti di difesa, diritti alla prova, libertà fondamentali in materia di movimento, corrispondenza e domicilio, diritti alla celebrazione di un processo giusto ed efficiente, ex artt. 2-13-14-15-24-111 Cost.) ; in secundis, sull’efficienza processuale, perseguita attraverso indicazioni puntuali relative alle ragioni che rendano indispensabili le intercettazioni telefoniche, in quanto agli stessi risultati probatori non si possa pervenire attraverso alcuna altra via.
Ogni incursione nella sfera della vita privata non solo reca pregiudizio all’esercizio della funzione difensiva, ma conferma lo squilibrio esistente tra le parti essenziali del sistema processuale penale che, nonostante i buoni propositi, continua a rivelare un’anima inquisitoria.

ETTORE SQUILLACI
ETTORE SQUILLACI
11 mesi fa

LA DISCIPLINA DELLE INTERCETTAZIONI NEL PRISMA DEI VALORI COSTITUZIONALI

Il tema dei rapporti tra le attività di intercettazione e i diritti costituzionali potenzialmente compromessi dalla condotta di chi accede ad un canale comunicativo che dovrebbe essergli precluso, si presta ad essere analizzato anzitutto al metro dell’art. 15 Cost.
Come è noto, siffatta disposizione tutela la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, statuendo che la loro limitazione possa essere consentita «soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria». Prevede, inoltre, che tale limitazione debba avvenire con le «garanzie stabilite dalla legge». Espressione da intendersi riferita anche alla necessaria individuazione «dei casi e dei modi» di aggressione alla sfera individuale, in linea con quanto previsto dal medesimo dettato costituzionale per la libertà personale (art. 13) e l’intimità del domicilio (art. 14). Da quest’ultimo punto di vista, riprendendo una classica definizione dottrinale, può affermarsi che il domicilio rappresenta la proiezione ‘spaziale’ di una persona, mentre la comunicazione riservata ne costituisce l’estrinsecazione ‘spirituale’.
Come ha chiarito la Corte costituzionale (sent. n. 81/1993), la stretta attinenza della libertà e della segretezza delle comunicazioni al nucleo essenziale dei valori della personalità implica un particolare vincolo interpretativo, diretto a conferire a quella libertà, per quanto possibile, un significato espansivo.
Spetta dunque al legislatore il difficile compito di individuare i «casi» e i «modi» di limitazione dei molteplici valori costituzionalmente rilevanti ora richiamati e al provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria quello di legittimare le predette restrizioni.
Concorre a complicare il quadro il fatto che gli artt. 14 e 15 Cost. non stabiliscono alcunché circa il grado di compromissione ‘tollerabile’ del diritto all’intimità del domicilio e delle comunicazioni, al cospetto delle contrapposte esigenze di una giustizia penale che rivendica spazi di legittimazione sempre più estesi in nome di vere o presunte emergenze da fronteggiare.
Assai utile, in questa prospettiva, risulta l’art. 8 Cedu, il quale subordina la legittimità della intrusione nella vita privata per fini di giustizia alla condizione che essa sia necessaria «in una società democratica». Da qui l’esigenza di un’attenta ponderazione dei valori in gioco, da effettuarsi nel rispetto del generale principio di proporzionalità: nemmeno l’irrinunciabile esigenza di contrastare i fenomeni criminosi più gravi e allarmanti può far sì che la sorveglianza elettronica, con tutto ciò che comporta in termini di possibile lesione dei diritti fondamentali della persona, venga attuata con modalità tali da porsi in conflitto con le basi democratiche dello Stato.
Queste impeccabili proclamazioni di principio si scontrano però con il noto deficit di tipicità dell’assetto codicistico nazionale in materia di intercettazioni, il cui statuto appare differenziato non solo sulla scorta del rango degli interessi in rilievo, ma anche in ragione dello specifico strumento captativo di volta in volta considerato.
Le pur ampie cautele approntate dal nostro sistema in tema di «Limiti di ammissibilità» (art. 266 c.p.p.), «Presupposti e forme del provvedimento di autorizzazione del giudice» (art. 267 c.p.p.), nonché in materia di «Esecuzione delle operazioni» (art. 268 c.p.p.), lasciano tuttora irrisolto il vero problema di fondo. Ossia quello concernente l’individuazione di adeguati controlimiti ad una tecnica di indagine dalla micidiale capacità intrusiva, capace di cagionare non soltanto una lesione immediata della riservatezza, perché contestuale al compimento dell’atto, ma anche una lesione successiva (spesso assai più grave della prima), destinata a consumarsi con l’utilizzo della notizia riservata all’interno del processo o mediante la pubblicazione dell’atto processuale.
Il tema è destinato ad acquisire una rilevanza crescente alla luce della introduzione nel codice di rito della disciplina delle intercettazioni effettuate mediante captatore informatico (art. 266, co. 2-bis, c.p.p.). Una disciplina della cui estrema aggressività sembra essersi mostrato consapevole lo stesso legislatore, il quale con la recente riforma ‘Cartabia’ ha previsto che il decreto di autorizzazione all’intercettazione tra presenti mediante captatore informatico debba indicare «le specifiche ragioni che rendono necessaria tale modalità per lo svolgimento delle indagini» (art. 267, co. 1, c.p.p.).
Malgrado ciò, resta più che concreto il rischio di una grave lesione alla privacy delle persone che fanno uso del dispositivo informaticamente modificato o che entrano comunque nel suo raggio di azione. Specie se si considera la natura non ‘stanziale’ del dispositivo ‘infetto’, il quale risulta idoneo a captare comunicazioni domiciliari ed extra-domiciliari. Con l’intuibile rischio che alle legittime violazioni della segretezza delle comunicazioni si accompagnino illegittime violazioni dell’intimità domiciliare, cagionate dalla vocazione ‘onnivora’ e a-selettiva di questa tecnica di intercettazione.
All’incertezza e all’ambiguità del diritto legislativo si accompagnano poi le non sempre condivisibili soluzioni di un diritto giurisprudenziale divenuto sempre più ‘creativo’. Si consideri, in quest’ottica, quell’ormai consolidato orientamento ermeneutico volto a ritenere legittima – a prescindere dalla natura e/o dalla gravità del reato per il quale si procede – la motivazione per relationem dei decreti autorizzativi di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni quando il giudice faccia richiamo alle richieste del pubblico ministero e/o alle relazioni di servizio della polizia giudiziaria, ponendo così in evidenza, per il sol fatto d’averle prese in esame e fatte proprie, l’iter cognitivo e valutativo seguito per giustificare l’adozione di quel particolare mezzo di ricerca della prova (vd., ad esempio, Cass., sez. V, 7 settembre 2020, n. 866). Poco importa che si tratti di moduli prestampati, redatti secondo la tecnica standardizzata dei formulari e sprovvisti di un’argomentazione autonoma che dia conto della valutazione del giudice. È sufficiente che essi contengano un rinvio all’istanza dell’ufficio inquirente affinché quest’ultima venga ritenuta parte integrante del decreto autorizzativo.
Ecco perché l’interprete nazionale può restare stupito solo sino a un certo punto dalla recente sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, secondo la quale l’obbligo di motivazione del provvedimento di autorizzazione alle intercettazioni non è violato quando la decisione si fonda su una richiesta circostanziata e dettagliata e quando i motivi possono comunque essere dedotti dalla lettura combinata dell’autorizzazione e della richiesta.
Si tratta, invero, di una conferma della giurisprudenza interna poc’anzi descritta, resa tuttavia ancor più preoccupante dall’indubbia autorevolezza dell’organo dal quale promana e dalla potenziale estensione delle sue ricadute applicative anche ad altri ordinamenti nazionali.
L’esigenza che il fine non prevalga sul mezzo dovrebbe sempre essere tenuta presente, specie nelle materie in cui la contrapposizione tra tutela del singolo e difesa sociale rende più scivoloso il campo di tensione tra istanze di certezza del diritto e aspirazioni di giustizia sostanziale.