ARIANNA PITINO*
Nella sentenza n. 181/2024 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che disciplinano la Polizia penitenziaria nella parte in cui distinguono in base al genere, in dotazione organica, i posti da mettere a concorso per il ruolo di ispettore.
Questa sentenza ha immediatamente attirato l’attenzione della dottrina giuridica, soprattutto di diritto dell’Unione europea ma anche di diritto costituzionale, per i profili attinenti ai rapporti tra l’ordinamento italiano e l’ordinamento dell’Unione europea, relativamente alla questione della c.d. doppia pregiudizialità.
Sono rimasti invece più in ombra i profili sostanziali di questa sentenza della Corte costituzionale che ha rimosso una discriminazione tra le donne e gli uomini in materia di occupazione e di carriera lavorativa, derivante dal fatto che la dotazione organica di accesso alla qualifica di ispettore della Polizia penitenziaria risultava ripartita in base al genere, applicando in modo generalizzato quanto previsto dall’art. 6, c. 2 della legge n. 395/1990, secondo cui il personale di polizia penitenziaria da «adibire a servizi di istituto all’interno delle sezioni deve essere dello stesso sesso dei detenuti o internati ivi ristretti».
Nelle righe che seguono ci si soffermerà soprattutto su questo secondo aspetto della sent. n. 181/2024 visto che, nell’approcciarsi all’ottantesimo anniversario dall’entrata in vigore della nostra Costituzione, ci troviamo purtroppo a constatare che nel nostro ordinamento giuridico le donne subiscono discriminazioni nel lavoro non soltanto per la presenza di stereotipi e di una cultura fortemente patriarcale, ma anche perché alcune discriminazioni risultano ancora cristallizzate in leggi dello Stato italiano.
Come già anticipato, uno degli aspetti interessanti affrontati nella sent. n. 181/2024 è quello dei rapporti tra l’ordinamento italiano e l’ordinamento dell’Unione europea. La notissima sentenza Granital del 1984 aveva fornito una sola impostazione, prevedendo la disapplicazione da parte dei giudici del diritto interno contrastante con il diritto sovranazionale dotato di effetti diretti e la possibilità di sollevare un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia in caso di dubbi sull’interpretazione del diritto dell’Unione europea.
Il nuovo filone di sentenze della Corte costituzionale, inaugurato a partire dalla sent. n. 269/2017, ha invece previsto un concorso di rimedi giurisprudenziali, tra cui i giudici ordinari possono scegliere. Oltre alla soluzione già prevista dalla sentenza Granital, se la questione ha un “tono costituzionale”, cioè un nesso con interessi o principi di rilievo costituzionale, il giudice può rimettere la questione alla Corte costituzionale per violazione degli artt. 117, c. 1 e 11 Cost. In questo caso, sarà la Corte costituzionale a decidere, eventualmente, di sollevare un rinvio pregiudiziale davanti alla Corte di giustizia.
Come ribadito nella sent. n. 181/2024, i due rimedi non sono né antitetici, né ordinati secondo un ordine di priorità. Se, dunque, la sentenza Granital muoveva dal presupposto che la natura dei rapporti tra l’ordinamento italiano e l’ordinamento dell’Unione europea configurasse due ordinamenti giuridici «autonomi e distinti, ancorché coordinati», la nuova impostazione suggerita dalla Corte costituzionale sembra dare atto del livello crescente di integrazione raggiunto dai due ordinamenti negli ultimi quarant’anni, soprattutto in relazione alla tutela dei diritti fondamentali. Senza rinunciare all’originaria impostazione dualista, la Corte costituzionale osserva, infatti, come i rapporti tra i due ordinamenti siano diventati di «mutua implicazione e di feconda integrazione», di «vicendevole arricchimento», di «integrazione tra le garanzie sancite dalle diverse fonti» nazionali ed eurounitarie, assecondando una «prospettiva armonica e complementare». L’entrata in vigore, nel 2009, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, inserita tra le fonti primarie del diritto sovranazionale, ha finito non solo per accrescere il livello di integrazione tra i due ordinamenti rispetto alla protezione, da ciascuno offerta, ai diritti fondamentali, ma ha anche reso necessario arricchire gli strumenti preposti alla loro tutela.
Nella sent. n. 181/2024 la Corte costituzionale dichiara che spetta ai giudici nazionali, in base alle caratteristiche dei casi sottoposti al loro esame, scegliere una delle due vie alternative della disapplicazione oppure del ricorso di costituzionalità. Essa sottolinea, però, come l’incidente di costituzionalità offra maggiori garanzie circa l’uniforme applicazione del diritto dell’Unione europea, vista l’efficacia erga omnes delle sentenze di accoglimento della Corte costituzionale. Quest’ultima strada viene perciò incentivata quando vi siano contestuali esigenze di certezza del diritto e di uniforme applicazione del diritto dell’Unione, che rischierebbero di essere compromesse in caso di incertezze interpretative da parte dei giudici o di perdurante applicazione di normative controverse da parte della pubblica amministrazione. Sempre secondo la Corte costituzionale, la via del ricorso di costituzionalità sarebbe inoltre da preferire quando la pronuncia di legittimità costituzionale ha un impatto sistemico che si riverbera oltre il caso concreto e quando sia necessario operare un bilanciamento tra principi di rango costituzionale.
Inoltre, la Corte costituzionale riconosce a sé stessa due possibilità in più rispetto ai giudici comuni. Per prima cosa, essa può accertare l’esistenza di un conflitto tra il diritto interno e quello eurounitario anche se quest’ultimo non è dotato di efficacia diretta. In secondo luogo, la Corte costituzionale dispone non solo del potere di annullare le disposizioni costituzionalmente illegittime ma, tramite sentenze manipolative, può colmare le eventuali lacune derivanti dalla sua pronuncia.
Nella sent. n. 181/2024, il Consiglio di Stato in sede di parere sul ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, anziché disapplicare il diritto interno ritenuto incompatibile con le norme dell’Unione europea che tutelano la non discriminazione e le pari opportunità tra le donne e gli uomini nel lavoro (art. 3, par. 2 TUE, art. 8 TFUE, artt. 21 e 23 Carta dei diritti UE, dir. 2000/78/CE, oltre alle plurime sentenze della Corte di giustizia), ha ritenuto di rimettere la questione alla Corte costituzionale per meglio garantire il principio di certezza del diritto. A livello nazionale, infatti, tale questione era già stata oggetto di precedenti giudizi, nell’ambito dei quali non era stata riscontrata nessuna violazione del diritto eurounitario o di norme costituzionali. Diversamente, invece, il Consiglio di Stato dubitava della compatibilità con il diritto dell’Unione europea e con l’art. 3 Cost. della regola per cui tutto il personale di Polizia penitenziaria deve essere dello stesso sesso dei detenuti, indipendentemente dalle funzioni svolte e dall’effettivo contatto, prevalente e costante, con le persone detenute. Tale applicazione generalizzata, infatti, generava una sproporzione notevolissima tra il personale maschile e quello femminile che poteva accedere ai ruoli della Polizia penitenziaria (sostituti commissari: 590 uomini e 50 donne; nei vari ruoli di ispettore: 2640 uomini e 375 donne), dando così luogo a significative disparità occupazionali e di carriera tra le donne e gli uomini.
Ragionando sulla sent. n. 181/2024, torna alla mente la legge Sacco (legge n. 1776/1919 e relativo regolamento n. 39/1920) che escludeva in modo generalizzato le donne non solo dalla magistratura e dal notariato, ma anche da tutti i ruoli del pubblico impiego che implicavano l’esercizio di diritti e di potestà politiche o la difesa militare dello Stato. Com’è noto, la legge n. 66/1963 (preceduta dalla sentenza n. 33/1960 della Corte costituzionale, sulla quale si tornerà più avanti) ha abrogato ogni limitazione all’accesso delle donne alle professioni e agli impieghi pubblici, con l’eccezione dell’arruolamento nelle Forze armate e nei corpi speciali delle Forze di polizia. A partire dall’approvazione della legge n. 380/1999, anche quest’ultima limitazione è stata rimossa, consentendo alle donne di accedere a tutte le carriere militari e ai corpi speciali, pur dovendo constatare come, in concreto, la presenza femminile rimanga complessivamente molto bassa (Forze armate, circa 8% e Forze speciali circa fra 3 e 5%).
Si potrebbe così essere indotti a credere che oggi le discriminazioni giuridiche tra le donne e gli uomini nell’accesso al lavoro siano ormai un ricordo (neanche troppo) lontano e che le discriminazioni che ancora si verificano vadano ricondotte esclusivamente a fattori extra-giuridici (stereotipi lavorativi, radicamento culturale della divisione tra lavoro produttivo e riproduttivo in base al genere, ecc…). Certamente, dall’entrata in vigore della Costituzione a oggi, i passi compiuti per garantire la parità di genere nel lavoro sono stati notevolissimi e la maggior parte delle discriminazioni giuridiche sono state eliminate. Tuttavia, alcune discriminazioni ancora persistono e non è sempre agevole individuarle, poiché si collocano in settori interstiziali dell’ordinamento giuridico dove possono passare inosservate e risultare difficili da riconoscere – anche da parte dei giudici – se non si conoscono in modo approfondito determinati contesti lavorativi e non si dispone di una solida preparazione in materia di discriminazioni di genere e pari opportunità.
La Corte costituzionale con la sent. n. 181/2024 ha dunque rimosso una non più accettabile discriminazione giuridica nei confronti delle donne nell’accesso all’occupazione e alla carriera nell’ambito della Polizia penitenziaria. Ciò è stato possibile dopo avere riscontrato che gli ispettori svolgono funzioni di coordinamento e direttivi, anche relativamente alla formazione e all’istruzione, oltreché di raccordo tra i vari ruoli della Polizia penitenziaria, senza che il contatto diretto e continuativo con le persone detenute assurga a «connotazione qualificante e indefettibile del lavoro prestato». Pertanto, secondo la Corte costituzionale, la riserva prevista a favore di personale maschile nella dotazione organica e nei posti messi a concorso si scontrava con i principi di ragionevolezza e di proporzionalità, non trovando giustificazione in esigenze di funzionalità ed efficienza della Polizia penitenziaria. Si veniva inoltre a creare una situazione di svantaggio molto ampio per le donne, precludendo loro non solo l’accesso al ruolo di ispettore, ma anche ad incarichi più prestigiosi conseguenti ad esso, per motivi riconducibili esclusivamente al genere di appartenenza.
Dopo avere accertato quanto sopra, pur senza richiamare esplicitamente l’art. 97 Cost., la Corte costituzionale ha osservato come le norme oggetto di impugnazione determinavano anche una violazione della regola del concorso pubblico visto che, ai fini dell’ingresso nel ruolo di ispettore, assumeva rilievo non solo la collocazione in graduatoria ma, appunto, il genere. Come si è puntualmente verificato, ciò poteva condurre all’esito paradossale per la pubblica amministrazione di dover assumere persone che nella valutazione concorsuale avevano conseguito punteggi più bassi, soltanto perché di genere maschile.
La Corte costituzionale, avendo riscontrato anche la violazione del principio del concorso pubblico, conclude dicendo che «la disparità di trattamento ingenera, dunque, effetti distorsivi che si ripercuotono sull’efficienza stessa dell’amministrazione». A questo proposito si può osservare come le norme dichiarate incostituzionali violavano, in termini più ampi, il principio di buon andamento della pubblica amministrazione, che presuppone la cura efficace ed efficiente dell’interesse pubblico dello Stato in un settore, tra l’altro, particolarmente delicato e sensibile dell’ordinamento giuridico come il sistema penitenziario. Nel caso in questione, infatti, l’ordinamento si è privato per molto tempo non solo di una parte delle professionalità (femminili) migliori in quanto collocate più in alto in graduatoria ma, escludendo sistematicamente le donne dall’accesso ai ruoli di direzione nell’ambito del sistema penitenziario, ha impedito loro di contribuire in modo effettivo, con il proprio punto di vista e la propria esperienza, all’elaborazione ed implementazione di decisioni di tipo gestionale ed organizzativo che hanno un impatto determinante su chi lavora nel sistema penitenziario e, soprattutto, sulle persone detenute. In questo senso, la sent. n. 181/2024 sembra quindi destinata ad avere un “impatto sistemico”, andando ad incidere positivamente sul buon andamento dell’intero sistema penitenziario e sull’interesse pubblico dello Stato relativamente al fine rieducativo della pena e al contenimento dei costi economici e sociali derivanti dalla commissione di reati.
Nonostante i molti aspetti positivi fin qui evidenziati a proposito della sent. n. 181/2024, non si possono però tacere alcuni passaggi della stessa che appaiono poco convincenti sotto il profilo della piena affermazione dei principi di non discriminazione e pari opportunità tra le donne e gli uomini nel lavoro.
La Corte costituzionale, in merito alle tutele apprestate dall’ordinamento interno e da quello sovranazionale, dichiara che «il principio di eguaglianza e le prescrizioni poste dal diritto dell’Unione europea convergono nel rendere effettiva la parità di trattamento, in una prospettiva armonica e complementare, che consente di cogliere appieno l’integrazione tra le garanzie sancite dalle diverse fonti» (punto 10 del considerato in diritto). Quando, però, la Corte costituzionale passa ad analizzare, singolarmente, i livelli di protezione nazionale e sovranazionale, l’armonia e la complementarità sembrano venire meno.
Il giudice delle leggi, relativamente all’art. 3 Cost., richiama la sent. n. 56/1958 e la «regola dell’eguaglianza» in base al sesso riconosciuta, per la prima volta, proprio in questa sentenza. La Corte costituzionale, quindi, rinvia testualmente alla sent. n. 56/1958, nel punto in cui si dichiara che il legislatore può tener conto «nell’interesse dei pubblici servizi, delle differenti attitudini proprie degli appartenenti a ciascun sesso, purché non resti infranto il canone fondamentale dell’eguaglianza giuridica». La Corte costituzionale sembra così riproporre l’idea, presente appunto nella sent. n. 56/1958, che in ambito lavorativo il genere possa essere legittimamente assunto come requisito attitudinale. Tale approccio interpretativo ha alimentato per lungo tempo, anche dopo l’entrata in vigore della Costituzione, l’idea della minore capacità se non addirittura dell’incapacità delle donne nel lavoro (mentre la capacità degli uomini è sempre stata data per scontata), soprattutto in alcuni settori che, ancora oggi, restano fortemente segregati al maschile (ambiti STEM o, appunto, quelli inerenti alle forze militari e di polizia) mentre altri, ritenuti più adatti alle donne, risultano segregati al femminile (ad es. l’insegnamento scolastico).
Nella sent. n. 181/2024 sembra problematico anche il riferimento, in modo generico, alla facoltà del legislatore di prevedere il “sesso” come requisito attitudinale «nell’interesse dei pubblici servizi». La Corte costituzionale, infatti, avrebbe potuto cogliere l’occasione per distaccarsi da tale risalente giurisprudenza e riconoscere in modo esplicito che tra le idoneità richieste per accedere a un pubblico ufficio il genere non può assurgere a requisito attitudinale. Eventualmente, anche riconoscendo, in via eccezionale, che il genere può assumere rilievo soltanto in particolari situazioni lavorative espressamente individuate e in modo strettamente conforme ai principi di ragionevolezza e di proporzionalità.
In prospettiva più ampia, il rinvio alla sent. n. 56/1958 sembra porsi in netto contrasto con le conclusioni cui la Corte costituzionale giunge nella sent. n. 181/2024, per almeno due motivi. La sent. n. 56/1958 era apparsa davvero poco confortante sotto il profilo della parità di genere, visto che il giudice delle leggi aveva dichiarato la non incostituzionalità delle norme che disponevano che nei collegi giudicanti delle Corti di assise le donne non potevano essere presenti in numero superiore agli uomini. Inoltre, sempre nella sentenza n. 56/1958, travalicando il significato dell’art. 37, c. 1 Cost., la Corte costituzionale aveva dichiarato che, relativamente alle donne, le condizioni di lavoro dovevano essere «consone alla sua essenziale funzione di sposa e di madre», individuando, implicitamente, queste come “attitudini femminili” per eccellenza.
Rispetto al ragionamento complessivo della sent. n. 181/2024, inoltre, il richiamo alla sent. n. 56/1958 appare inconciliabile con ciò che la stessa Corte costituzionale sostiene nel punto immediatamente successivo, prendendo in considerazione il diritto sovranazionale e le eccezioni al principio di parità di trattamento da questo previste. Questa volta, l’oggetto della sua argomentazione si sposta sulle attività lavorative che per «loro natura o visto il contesto in cui si sono svolte» possono giustificare l’assunzione di una persona di un determinato genere, a condizione che tale status personale assurga a «requisito essenziale e determinante dell’attività lavorativa» (dir. 2006/54/CE, art. 14, par. 2). Il punto di osservazione, in questo caso, sembra corretto e idoneo a garantire l’effettività dei principi di non discriminazione e pari opportunità in base al genere: sono, infatti, la natura dell’attività lavorativa e/o il contesto a richiedere, in via eccezionale, la presenza di personale femminile o maschile e non, all’opposto, i lavoratori e le lavoratrici a possedere a priori attitudini particolari per svolgere questo o quel lavoro, determinate dal genere di appartenenza.
L’interpretazione dell’art. 3 Cost. fornita dalla Corte costituzionale richiamando la sent. n. 56/1958 appare dunque inconciliabile con quella proposta, qualche riga più sotto, richiamando le norme del diritto sovranazionale. Riferendosi allo stesso periodo temporale, la Corte costituzionale avrebbe potuto richiamare la sent. n. 33/1960 anziché la sent. n. 56/1958. Benché, infatti, anche la sent. n. 33/1960 conservi qualche profilo di ambiguità nel riconoscere, comunque, al legislatore la possibilità di indicare il sesso come requisito attitudinale, tale affermazione risulta attenuata dall’esigenza di garantire «l’efficace e regolare svolgimento dell’attività pubblica» in «casi determinati», circoscrivendo così l’eventualità di scelte arbitrarie da parte del legislatore. Inoltre, a differenza della sent. n. 56/1958, la sent. n. 33/1960 ha avuto un effetto dirompente nel rimuovere le discriminazioni giuridiche che limitavano l’accesso delle donne agli uffici pubblici, inaugurando così un percorso fecondo di tutela della non discriminazione e delle pari opportunità tra le donne e gli uomini nel lavoro.
Non è questa la prima volta che la Corte costituzionale pare mostrare qualche difficoltà nel pronunciarsi su questioni attinenti alla parità di genere nell’accesso al lavoro, facendo riaffiorare l’idea che l’essere donna o uomo possa costituire un requisito attitudinale in ambito lavorativo. Di recente, si può ricordare la sent. n. 1/2022, nella quale la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata contro la legge che prevede che debba esservi corrispondenza tra il genere degli educatori (e delle educatrici) e i minori verso cui essi svolgono funzioni educative, rispettivamente, nei convitti (riservati ai maschi) e negli educandati (riservati alle femmine). La Corte costituzionale ha così rinviato al legislatore il compito di intervenire a modificare tale disciplina, bilanciando il principio di parità di accesso al lavoro fra donne e uomini e le esigenze di tutela dei minori, tenuto conto degli «orientamenti» e dei «valori radicati nella coscienza sociale».
Nella sent. n. 181/2024 la Corte costituzionale non fuga del tutto le ambiguità che ancora sembrano aleggiare intorno alla rilevanza del genere come requisito attitudinale in ambito lavorativo. Allo stesso tempo, però, la Corte costituzionale non esita qui ad annullare le norme che limitavano l’accesso delle donne al ruolo di ispettore della Polizia penitenziaria, affermando così la piena effettività dei principi di non discriminazione e di pari opportunità tra le donne e gli uomini.
*Professoressa associata di Istituzioni di diritto pubblico, Università di Genova