La sentenza n. 211 del 2023 della Corte costituzionale: un’occasione per riflettere sul divieto di discriminazione a causa di maternità (e di paternità)?

La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità degli artt. 27, comma 2, e 28, comma 4, del D.lgs. n. 443 del 1992, ai sensi dei quali l’immissione in ruolo delle vincitrici del concorso per vice ispettori del Corpo di Polizia penitenziaria che si trovano in congedo di maternità deve essere posticipata alla frequenza del corso di formazione immediatamente successivo ai periodi di assenza.

Nel caso che ha dato origine alla questione di costituzionalità, sollevata dal Consiglio di Stato, la ricorrente, in stato di gravidanza al momento della vincita del concorso, lamentava come per effetto delle predette disposizioni la sua immissione in ruolo fosse stata ritardata di ben dodici anni.

La norma oggetto è stata, dunque, ritenuta dalla Corte costituzionale lesiva dei seguenti principi:
-dell’art. 3 Cost. poiché «il ritardo nell’immissione in ruolo si riflette nella discriminazione delle vincitrici assenti dal corso in considerazione della maternità rispetto agli altri vincitori del medesimo concorso»;
-dell’artt. 31 e 37 Cost., che tutelano la maternità e, con essa, l’interesse primario dei minori. A proposito, la Corte ricorda che «gli istituti nati a salvaguardia della maternità non hanno più, come in passato, il fine precipuo ed esclusivo di protezione della donna, ma sono destinati anche alla garanzia del preminente interesse del minore, che va tutelato non soltanto per quanto attiene ai bisogni più propriamente fisiologici ma anche in riferimento alle esigenze di carattere relazionale ed affettivo, collegate allo sviluppo della sua personalità».

La sentenza in definitiva costituisce una tappa importante della progressiva affermazione dei principi di non discriminazione per ragioni connesse alla gravidanza o alla maternità, come sancito dai principi costituzionali anzidetti, dal diritto dell’Unione europea (art. 2, paragrafo 2, lettera c, della direttiva n. 2006/54/CE) e dalla normativa nazionale (art. 25, D.lgs. n. 198 del 2006 “Codice delle pari opportunità”; art. 3 D.lgs. n. 151 del 2001 “Testo unico in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità”).

1)Dalla sentenza n. 211 del 2023 si evince come gli ostacoli posti all’accesso al lavoro per ragioni di maternità costituiscano non solo una discriminazione di genere in ambito lavorativo ma persino un disincentivo alla “la scelta della maternità” (cfr. cons. in dir. 2.4).
Tale duplice effetto è confermato nella realtà dai dati che dimostrano, da un lato, come la maternità sia la prima causa di abbandono del lavoro da parte delle donne (1 su 5 tra i 18 e i 49 anni lascia il lavoro al primo figlio); dall’altro lato, come in Italia si assista oggi ad una drastica diminuzione della natalità (- 183mila nascite dal 2008).
Quali strumenti devono essere messi in campo per promuovere l’eguaglianza di genere nel lavoro, garantendo al contempo un’effettiva conciliazione con la scelta della maternità?

2)La sentenza n. 211 del 2023 costituisce un’occasione per riflettere non solo sulla tutela costituzionale della maternità, ma anche della paternità. Nel nostro ordinamento il congedo obbligatorio di paternità ha una durata di soli dieci giorni (cfr. art. 27 bis D.lgs. n. 151 del 2001). Il divieto di discriminazione per ragioni legate alla maternità, fondato come ricorda la Corte costituzionale sugli articoli 3, 31 e 37 della Costituzione deve trovare applicazione anche per ragioni legate alla paternità? Se sì, in quali termini?

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