ANNA MARIA LECIS COCCO ORTU*
Lo scioglimento anticipato non ha giocato a favore della rappresentanza femminile. Si direbbe che la famosa profezia di Simone de Beauvoir – “basterà una crisi perché i diritti delle donne vengano rimessi in discussione” – trovi applicazione anche in tema di crisi politiche e rappresentanza parlamentare poiché, malgrado i notevoli passi avanti compiuti negli ultimi anni, la presenza femminile nei banchi dell’Assemblea nazionale si è nuovamente ridotta e l’obiettivo della parità di genere appare ancora piuttosto lontano.
È questa una prima constatazione che si può avanzare alla lettura dei risultati delle recenti elezioni legislative francesi, anche se la ricerca delle cause richiede ovviamente l’analisi approfondita di molteplici fattori, dall’organizzazione interna dei partiti alla sociologia elettorale, che in queste poche righe potranno essere soltanto evocati in quanto richiederebbero il supporto dei metodi indagine propri ad altre scienze sociali.
Le 208 donne elette il 30 giugno e il 7 luglio scorsi, pari al 36% dei membri della camera bassa, sono di fatti meno numerose delle deputate della precedente legislatura (215), la quale aveva già visto una leggera inflessione del numero di parlamentari elette rispetto al record del 2017. In quell’occasione, erano state addirittura 224 le deputate, pari a quasi il 39% dei membri della camera bassa, con un aumento sorprendente di 13 punti percentuali rispetto alla precedente tornata elettorale del 2012. Sebbene questo risultato fosse ancora lontano dalla parità di 288 (o 289) su 577, in quell’occasione – quando le elezioni erano state vinte dalla maggioranza di centro costituita dal neonato partito En Marche e dai suoi alleati, trascinata dall’ampio successo ottenuto dal Presidente Macron in occasione dell’elezione al suo primo mandato – si era creduto ad un cambio di rotta, complice il rinnovamento del paesaggio partitico che, in assenza di “diritti di prelazione” da parte di deputati uscenti in seno alla neonata formazione politica, aveva favorito una più efficace applicazione delle norme volte a promuovere la parità. Sette anni dopo, la legislazione in questione continua a mostrare i suoi limiti e la strada per la parità è ancora in salita.
Per comprendere meglio il percorso verso la parità di genere nel parlamento francese, è opportuno ricordare non solo la normativa di riferimento e la sua applicazione da parte dei partiti (§ 2), ma anche le diverse soluzioni adottate dal legislatore per dare applicazione all’obbligo di promozione della parità in altre elezioni (§ 1), con risultati tanto più soddisfacenti quanto più ci si allontana dal cuore della decisione politica (§ 3).
1. L’obbligo costituzionale di promozione della parità e le sue diverse applicazioni.
Il legislatore francese ha il compito di “favorire l’uguale accesso di donne e uomini ai mandati elettorali e alle funzioni elettive”. Questa disposizione, enunciata oggi all’articolo 1 della Costituzione francese, non compariva nel testo originario del 1958, ma vi è stata inserita con la revisione costituzionale del 19991 proprio per consentire l’adozione di leggi volte a promuovere la parità nell’accesso ai mandati elettorali, dopo che per ben due volte il Consiglio costituzionale aveva dichiarato incostituzionali i primi tentativi del legislatore francese di inserire delle “quote” riservate al genere meno rappresentato (si tratta della note decisioni “Quotas par sexe I”, n. 82-146 DC del 18 novembre 1982, e “Quotas par sexe II” n. 98-407 del 14 gennaio 1999, che avevano sanzionato rispettivamente il divieto di inserire oltre il 75% di candidati dello stesso sesso nelle liste per le elezioni municipali e, nel 1999, l’obbligo di garantire la parità di genere nelle liste per elezioni regionali). La decisione del 1999 aveva però assortito la dichiarazione di incostituzionalità di un velato suggerimento per il legislatore costituente, precisando che tali disposizioni dovevano essere considerate non conformi al dettato costituzionale “allo stato attuale”.
La revisione del 1999 ha quindi accolto tale indicazione, prevedendo un fondamento costituzionale esplicito che consentisse di derogare ai principi di uguaglianza e indivisibilità del corpo elettorale mediante l’adozione di leggi volte a rimuovere gli ostacoli alla parità di genere. Tale formulazione impone un obbligo costituzionale al legislatore, che è quindi tenuto ad adottare misure volte a perseguire la parità. L’impiego del termine “favorire” invece che “garantire” è stato tuttavia interpretato come volto a imporre un obbligo di mezzi e non di risultato, con la conseguenza che spetta al legislatore decidere se adottare misure meramente incitative o coercitive (Cons. cost. dec. n. 2015-465 QPC del 24 aprile2015).
Il legislatore ha quindi dato applicazione a tale principio con tecniche diverse a seconda del tipo di scrutinio, che vanno dalla soluzione debole, incitativa e non coercitiva, alla soluzione media, che impone la parità nelle liste senza che essa si traduca necessariamente in una parità perfetta nelle istanze elettive, ad una soluzione forte, che porta a garantire una rappresentanza paritaria.
La soluzione intermedia della parità nelle liste si applica a tutte le elezioni che si svolgono con sistema proporzionale e voto di lista con liste bloccate, nelle quali “ogni lista è composta alternativamente di candidati di sesso differente” con la conseguenza che “la differenza tra i numeri di candidati di ciascun sesso non può essere superiore a uno”. Questa misura trova applicazione nelle elezioni del consiglio municipale nei comuni di più di 1000 abitanti, nelle elezioni regionali, europee e senatoriali nei dipartimenti che eleggono più di due senatori.
È invece nella legislazione relativa alle elezioni del consiglio dipartimentale che troviamo, dal 20132, la soluzione forte, che ha portato ad una rappresentanza perfettamente paritaria. Per tali elezioni che si svolgono col maggioritario, il legislatore ha trasformato il sistema uninominale in binominale imponendo così, in ogni collegio, la presentazione di candidature in binomio, composto da un uomo e una donna. In questo modo, l’obbligo di parità nelle candidature si traduce in un risultato di rappresentanza perfettamente partitaria, con delle assemblee composte al 50% da donne e al 50% da uomini.
2. La ‘‘soluzione debole’’ delle elezioni legislative: il sistema incitativo che permette ai partiti di scegliere tra parità e sanzioni finanziarie.
La legge del 2000 “volta a favorire l’uguale accesso di donne e uomini ai mandati elettorali e alle funzioni elettive” ha invece previsto un’altra soluzione molto meno radicale per l’elezione dell’Assemblea nazionale, cuore della rappresentanza politica. I partiti sono tenuti a rispettare la parità nella scelta dei candidati presentati nei diversi collegi. Tale obbligo è però assortito di sanzioni finanziarie, senza conseguenze sulla validità delle candidature: se il divario tra il numero di candidati e di candidate nell’insieme delle circoscrizioni supera il 2%, il partito subisce una decurtazione della parte di finanziamento pubblico.
Questa misura ha effettivamente favorito un lento ma progressivo aumento della rappresentanza femminile, passata dal 10,9% del 1997, al 12,3% a seguito della prima applicazione della legge nel 2002, poi al 18,5% nel 2007 quindi 26% nel 2012. Tuttavia, come detto in precedenza, il più forte aumento si è registrato nel 2017, quando fattori estranei alla legge hanno permesso di darle una migliore applicazione.
La normativa incontra infatti due ostacoli principali. Innanzitutto, dal momento che lo scrutinio è uninominale, la presenza di candidate – fosse anche in egual numero rispetto ai candidati uomini – non si traduce necessariamente in un rafforzamento della rappresentanza femminile: le scelte dei partiti, di presentare candidate in circoscrizioni dove hanno più o meno chance di vincere il seggio, sono determinanti in tal senso. Inoltre, come sottolineato, il mancato rispetto della parità nelle candidature implica soltanto una sanzione pecuniaria, con la conseguenza che, sebbene l’ammontare della decurtazione sia stato ancora recentemente aumentato, molti partiti preferiscono vedere ridotte le proprie risorse finanziarie che presentare un egual numero di donne e uomini.
Così, alle ultime elezioni, sono state presentate poco più di 1600 donne su un totale di circa 4000 candidature, con notevoli differenze tra i partiti quanto al rispetto della parità.
I partiti di destra e di estrema destra, che sin dall’introduzione della legge hanno sistematicamente più difficoltà a presentare un elevato numero di candidate, sono stati anche stavolta lontani dall’obiettivo. La maglia nera spetta al partito di Eric Ciotti, nato dalla scissione dai Repubblicani per appoggiare il Rassemblement National (RN), che ha investito solo 11 donne su circa 60 candidati, e al partito della destra gollista dei Repubblicani, che ha presentato solo 100 candidate per 224 candidati. Ha fatto molto meglio il Rassemblement National, con circa il 47% di candidate donne (per cui dovrebbe comunque subire un’importante penalizzazione, ma a fronte di uno straordinario incremento del proprio finanziamento grazie all’aumento del numero di deputati eletti), anche se una buona parte in posizione non eleggibile.
La coalizione di sinistra si avvicina all’obiettivo della parità nelle candidature, senza tuttavia raggiungerlo. Un’esatta parità si ritrova nelle candidature de La France Insoumise (LFI), seguita dai comunisti (PCF) e dagli Ecologisti (EELV). Ancora lontana dall’obiettivo, invece, la formazione socialista del PS, a dimostrazione del fatto che per i grandi partiti tradizionali è più difficile presentare candidate donne andando a rimettere in discussione posizioni acquisite da deputati uscenti o da altre figure di riferimento dell’apparato di partito.
Infine, all’interno della coalizione di centro, se i MoDem e Renaissance sono riusciti a garantire una quasi esatta parità, altri partner hanno fatto molto peggio (come ad esempio Horizons, il partito dell’ex primo ministro di Macron e prossimo candidato alle presidenziali, Edouard Philippe). In totale, la coalizione dell’ex maggioranza presidenziale ha presentato solo il 43,5% di candidate, contro il 48,5% delle elezioni legislative del 2022.
Se però si passa dal bilancio del numero di candidate a quello delle deputate elette, le percentuali diminuiscono quasi ovunque, e in particolare a destra, mostrando l’impatto delle strategie dei partiti quanto alla scelta di candidare donne in collegi con maggiori o minori chance di essere elette.
La coalizione di sinistra del Nuovo Fronte Popolare (NFP) ha la quota maggiore di donne elette (41,6%), con al suo interno la formazione dei Verdi che si distingue come l’unica che registri un maggior numero di deputate (53,6%) che di deputati. Segue il blocco di centro, con una percentuale di elette pari al 40,7%, contro 43,5% di candidate. Ma è il RN che registra il più ampio scarto tra candidate e elette: il partito di Marine LePen conterà tra le proprie fila all’Assemblea solo un terzo di donne, quando le candidate erano quasi la metà, molte delle quali assenti dal dibattito e da qualunque attività di campagna, il che ha portato la stampa a parlare di “candidature fantasma”3. Peggio del RN fa comunque la destra gollista, che si conferma tradizionalmente ostile alla rappresentanza femminile, con solo il 26,1% di deputate nel proprio gruppo.
Il trend osservato in Francia, con il record del 2017 e il leggero calo da allora, in concomitanza col calo dei consensi per la formazione macronista, dimostra – come osservato anche in Italia – come sia più facile raggiungere una rappresentanza paritaria all’interno di formazioni politiche di più recente formazione, o comunque meno stabilmente rappresentate in parlamento, piuttosto che in seno a partiti tradizionali dove le gerarchie e le posizioni acquisite sono fortemente stabilite e, in particolare in un sistema uninominale, è più difficile “togliere il seggio ad un uomo per darlo ad una donna”.
3. Un bilancio variabile che conferma come la parità sia tanto più difficile da raggiungere quanto più ci si avvicina al circuito della decisione politica.
La legislazione favorevole alla parità ha condotto a risultati variabili a seconda del sistema di voto. Il voto di lista, accompagnato da rigidi vincoli quanto alla composizione paritaria delle liste dei candidati, ha permesso che la parità divenisse una realtà effettiva nei consigli comunali dei comuni con più di 1.000 abitanti, nei consigli regionali, nei consigli dipartimentali e nella rappresentanza francese al Parlamento europeo.
Secondo la Direzione Generale degli Enti Locali (DGCL), dopo le ultime tornate elettorali a livello locale, la percentuale di consigliere elette ha raggiunto il 42% nei consigli municipali, il 48% nei consigli regionali e il 50% in seno ai consigli dipartimentali, dove il sistema maggioritario binominale assicura una rappresentanza paritaria. Nei comuni con meno di 1.000 abitanti, dove vige un maggioritario con norme sulla parità soltanto incitative, i progressi sono più limitati: 37,6% di donne nei consigli comunali dopo le elezioni del 2020 contro il 46,6% nei comuni con 1.000 o più abitanti. Lo scenario cambia se ci si sposta sugli esecutivi, principale centro decisionale all’interno degli enti locali. La percentuale di donne elette sindaci rimane bassa (19,8% dopo le elezioni del 2020) e solo quattro donne sono presidenti di regione. Al Senato, l’aumento del numero di senatori eletti con lo scrutinio proporzionale, cui si applica l’obbligo di liste paritarie con l’alternanza di genere, ha favorito un progressivo incremento della rappresentanza femminile, passata da meno del 6% nel 1998 al 36% odierno.
Le leggi sulla parità hanno dunque permesso grandi passi in avanti in termini di accesso delle donne alle funzioni elettive. Tuttavia, la parità pare tanto più facile da raggiungere quanto più si è lontani dal cuore della decisione politica, mentre il soffitto di cristallo resta ancora infrangibile quando si tratta di accedere a posizioni di più alta responsabilità o più grande prestigio. Il neonominato governo4 va a confermare questa tendenza: a fronte di una perfetta parità formale tra donne e uomini, le donne sono in minoranza tra i ministri col portafoglio e sono escluse dai ministeri più importanti, come Giustizia, Interno e Esteri.
* Professoressa associata di Diritto pubblico – Sciences Po Bordeaux.
[1] Inserita dapprima all’articolo 4, è stata poi spostata all’articolo 1 in occasione della corposa revisione del 2008, che ha peraltro esteso l’applicazione del principio all’ambito professionale e sociale.
[2] Legge organica n. 2013-403 del 17 maggio 2013.
[3] Il fenomeno delle candidature fantasma ha in realtà interessato anche candidati uomini. A dispetto della crescita di consenso e dei suoi straordinari exploit elettorali, infatti, il RN non è ancora capillarmente radicato in maniera omogenea nel territorio e avuto pertanto difficoltà a trovare un numero sufficienti di candidati per competere in tutte le circoscrizioni. A questa difficoltà, che ha portato ad una ricerca affrettata di prestanome e candidati “fantasma” o “pappagallo” il cui nome era sistematicamente accompagnato dalle foto dei leader Marine LePen o Jordan Bardella, si è aggiunta la necessità di non esporre profili di candidati troppo apertamente razzisti, antisemiti o islamofobi non sufficientemente allineati alla linea di “dediabolizzazione” portata avanti dai dirigenti (il giornale di inchiesta Mediapart aveva contato oltre un centinaio di candidati e candidate che si erano messi in luce per dichiarazioni o comportamenti problematici).
[4] Decreto del 21 settembre 2024, recante nomina dei ministri.