L’INFLUENZA DEL PNRR SULL’ATTIVITÀ DI INDIRIZZO POLITICO. I SUOI RIFLESSI SULLA FORMA DI GOVERNO

L’indirizzo politico interno risulta fortemente vincolato dall’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR).
Il modo stesso di formazione delle decisioni politiche da parte del Governo ha subito un’importante trasformazione, dovendo essere concordata in modo dettagliato con gli organismi eurounitari e condizionata al raggiungimento degli obiettivi connessi alle sei missioni del PNRR.
Tale condizionamento ha avuto ed ha immediati riflessi su una serie di riforme strutturali da sempre invocate (anche a causa di politiche economico-finanziarie restrittive), quali la riforma delle pubbliche amministrazioni (citando in particolare il settore della scuola e quello degli appalti) e quella della giustizia.
Un Piano, a vocazione sostenibile ed inclusiva che condiziona la sovranità degli Stati ed è in grado di determinare l’indirizzo politico presente e, forse, futuro in quanto incide: sulla forma di governo, sull’impiego delle fonti del diritto, sulla stessa forma di Stato (e questo, anche sul versante dei rapporti con gli enti territoriali e con gli organi di controllo).
Questi profili costituiranno oggetto della nostra attenzione. In via prioritaria si pone la questione:
1) L’emergenza pandemica (prima) e il PNRR (dopo) hanno determinato un impatto nell’asse dei poteri tra Parlamento/Governo, nel senso di una decisiva valorizzazione e consolidamento dei poteri del Governo e di quelli esercitati dal Presidente del Consiglio, dai Ministri e dai tanti organi, più o meno provvisori, appositamente istituiti.
Persistendo la marginalizzazione del ruolo del Parlamento, ci possono essere margini di recupero degli spazi di azione del Parlamento? Quali? Questo nuovo assetto può considerarsi del tutto episodico perché dettato da fattori contingenti e temporanei o potrebbe rivelare una (forse già latente?) progressiva modifica degli equilibri della forma di governo a Costituzione invariata?

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Andrea Napolitano
Andrea Napolitano
11 mesi fa

Il PNRR, ed in modo particolare gli strumenti e le modalità previste per l’attuazione dello stesso, hanno impatto fortemente sull’attività del governo e sulla sua stessa struttura organizzativa.
Quest’ultimo può, infatti, essere considerato un atto di indirizzo politico di straordinaria rilevanza poiché si prefigge di indicare non solo le strategie dell’azione politica ma anche, e soprattutto, a definire gli strumenti normativi da utilizzare per dare esecuzione ai progetti e alle riforme strettamente connesse nonché le procedure di monitoraggio e controllo.
Come è noto, infatti, al PNRR è vincolato un importante e decisivo ritorno dello Stato e degli investimenti pubblici nella sfera economica, a partire dai programmi di transizione energetica e, sul piano infrastrutturale, nei settori dell’innovazione tecnologica e della digitalizzazione.
Tale circostanza reca, indubbiamente, un rinnovato, forte, protagonismo dei pubblici poteri nel sistema economico, dal quale derivano nuovi equilibri nelle relazioni tra mercato, istituzioni statali ed intervento pubblico nell’economia vincolati al rispetto di due aspetti fondamentali.
Il riferimento è, in primo luogo, alla questione del debito pubblico ed alla sua riqualificazione alla luce degli straordinari programmi di finanziamento sui mercati posti in essere dalla Commissione nell’interesse degli Stati membri.
In secondo luogo, bisognerà tener conto della questione della concorrenza, vale a dire la ridefinizione di tutte quelle politiche che hanno regolato il mercato prima dello scoppio della pandemia.
Si tratta quindi, di immaginare e sostenere un processo di integrazione tra le politiche industriali e la tutela della concorrenza, alla ricerca di un possibile punto di equilibrio dell’azione dell’UE e degli Stati- membri nel mercato interno.
A ciò si aggiunga, inoltre, come l’attuazione del Piano si innesti in un’ottica di sempre maggiore verticalizzazione della forma di governo parlamentare, derivante dal processo di integrazione europea, che ha portato un conseguente rafforzamento dell’esecutivo e dei suoi vertici a discapito degli organi rappresentativi nazionali.
Muovendo da tali basi è importante interrogarsi sulla circostanza secondo la quale lo svolgersi dell’azione politica entro un programma ben definitivo, dove i margini per la negoziazione risultano davvero ridotti, non implichi una declinazione dell’indiritto politico in chiave normativa ed un impegno dell’indirizzo politico anche di Parlamento e governo futuri.
Allo stesso modo, da un’analisi attenta può sottolinearsi tuttavia, come un Presidente del Consiglio che gode di una solida fiducia della maggioranza parlamentare potrebbe pienamente e liberamente interpretare le modalità di esecuzione degli obiettivi del PNRR tenendo conto delle priorità compatibili per ciascun Paese secondo il giudizio, pienamente discrezionale, del proprio governo.
Infine, l’attuazione al PNRR impatterebbe anche sulle dinamiche interne al governo andando a cristallizzare un dato di fatto.
E’ noto, infatti, come il decreto-legge 77/21, come convertito dalla legge 108/21 attribuisca assoluta centralità al presidente del consiglio e autonoma supremazia dei suoi poteri di indirizzo non solo in riferimento alla complessità soggettiva dell’istituzione governo ma anche rispetto al suo oggettivo programma.
Quest’ultimo, infatti, ha poteri di “indirizzo politico, impulso e coordinamento generale sull’attuazione del PNRR” e per questo promuove il coordinamento tra i diversi livelli di governo e propone l’attivazione dei poteri sostitutivi in caso di “ inadempimento, ritardo, inerzia o difformità” da parte di regioni, ministri, amministrazioni in relazione agli obblighi e impegni finalizzati all’attuazione del PNRR.
Nella governance del PNRR si evidenzia, inoltre, la definizione di una “collegialità ristretta” dalla quale deriva l’emarginazione del Consiglio dei Ministri competente alla sola individuazione dei soggetti in sostituzione o per il differimento di singole questioni da parte del Presidente del Consiglio.
Per questo motivo, quindi, la legge n° 108 rivela una verità costituzionale a lungo occultata dalle varie necessità politiche contingenti volte a negare l’effettivo autonomo primato del Presidente del Consiglio nel governo.

Alessandro Morelli
Alessandro Morelli
11 mesi fa

L’emergenza sanitaria determinata dalla diffusione del Covid e la successiva reazione dell’Unione europea, concretizzatasi nel piano Next Generation EU, funzionale al finanziamento di riforme e investimenti poi dettagliatamente definiti dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), hanno accentuato fino all’esasperazione fenomeni e tendenze già da tempo in atto nel nostro ordinamento, tra cui soprattutto il condizionamento esercitato dalle istituzioni dell’Unione europea sulle decisioni politiche degli organi nazionali di governo, il protagonismo dell’Esecutivo e la marginalizzazione del Parlamento.
Sul versante dei processi di produzione del diritto, l’“amministrativizzazione” delle fonti normative ha raggiunto il suo culmine con lo smodato ricorso, durante la pandemia, ai decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, atti dall’incerta natura giuridica (in tema, per tutti, L. Castelli), la cui non illegittimità è stata però riconosciuta dalla Corte costituzionale (sent. n. 198 del 2021).
A tali decreti, peraltro, si sono affiancati diversi altri tipi di atti, alcuni dei quali di ancor più incerta natura, che hanno integrato in modo sostanziale una regolazione confusa, contraddittoria, spesso incomprensibile.
Appare difficile non concordare con chi ha rilevato come il ricorso ai d.P.C.m. sia apparso una soluzione necessaria alla luce dell’ormai ordinario impiego dei decreti-legge come normali strumenti di regolazione (G. Silvestri).
Analoga vicenda si è verificata con il Next Generation EU. Il condizionamento esercitato dall’Unione europea sulla formazione del bilancio dello Stato si è evoluto in un’influenza molto più incisiva, consistente nel vincolo alla realizzazione di importanti riforme strutturali riguardanti diversi ambiti, tra i quali quelli strategici della giustizia e della pubblica amministrazione (E. Catelani).
Le numerose condizionalità che gravano sugli Stati beneficiari degli aiuti finanziari hanno ridotto drasticamente gli spazi degli organi nazionali nell’esercizio dell’attività di governo, ponendo vincoli riguardanti l’an, il quid e il quando di quest’ultima e lasciando solo un ridotto margine di discrezionalità in riferimento al quomodo, il che determinerebbe, com’è stato scritto, l’attribuzione al Governo di una residua attività di «indirizzo amministrativo» (F. Salmoni).
Non intendo qui affrontare la questione dell’impatto del «vincolo esterno», alimentato anche, e soprattutto, dalle richiamate condizionalità, sulla sovranità e sull’autonomia dell’indirizzo politico dello Stato (sul punto si confrontino le diverse opinioni di A. Sciortino, F. Bilancia, E. Cavasino). Condivido, in merito, le riserve manifestate in dottrina sull’uso di quest’ultima categoria, che appare ispirata da una visione autarchica inadeguata all’odierno contesto istituzionale, caratterizzato da una fitta rete di interrelazioni tra ordinamenti statali e organizzazione sovranazionale europea (A. Morrone). Il problema rimane quello di come assicurare, in uno scenario caratterizzato da un elevato grado di complessità, l’effettività del principio democratico e la tutela dei diritti fondamentali, che integrano il patrimonio costituzionale europeo.
Non è facile prevedere, allo stato, se il processo descritto sia irreversibile e se i mutamenti istituzionali dallo stesso indotti assumeranno un carattere permanente o meno. Il fatto che si tratti di tendenze già in atto, solo accentuate dalle ultime vicende e, quindi, già presenti da tempo nell’ordinamento, parrebbe indicare che la riduzione degli spazi di discrezionalità degli attori politico-istituzionali interni e le dinamiche riscontrate nei rapporti tra Governo e Parlamento corrispondano a trasformazioni strutturali della forma di governo, che potrebbero condurre perfino a cambiamenti della forma di Stato.
Parimenti difficile è prevedere se e come sia possibile recuperare spazi di autonomia e di discrezionalità per il Parlamento, muovendo dalla premessa che ciò sia necessario tanto a restituire effettività alle forme della democrazia rappresentativa quanto a consentire un controllo democratico sulla definizione delle politiche pubbliche.
Quel che si può notare, al riguardo, è che il processo riformatore in corso non sembra mettere in discussione ma piuttosto agevolare le tendenze richiamate.
Si riscontra, innanzitutto, una perdurante disattenzione per il ruolo del Parlamento, i cui componenti sono stati perfino ridotti di un terzo con la legge costituzionale n. 1 del 2020. Il dibattito sulla legge elettorale, che, anche per l’operare di strumenti di distorsione delle stesse scelte degli elettori – come i meccanismi delle liste bloccate e delle candidature multiple – non assicura un soddisfacente grado di rappresentatività alle Camere, si è, al momento, esaurito e non appare probabile una sua ripresa in tempi brevi.
Il rilancio del Parlamento non è, dunque, tra le priorità dell’attuale agenda delle riforme istituzionali.
Per quanto riguarda, invece, le proposte di trasformazione della forma di governo, pur nella varietà delle opzioni finora avanzate (presidenzialismo, semipresidenzialismo, premierato), esse tendono tutte a un’ulteriore semplificazione dell’assetto istituzionale e a un deciso rafforzamento del Potere esecutivo e, segnatamente, del suo vertice, anche sul piano della legittimazione politica, che si vorrebbe ricondurre direttamente al circuito elettorale. Una siffatta trasformazione, utile ad agevolare le dinamiche dei processi decisionali a livello sovranazionale, oltre che ad accrescere il peso del Governo nelle relazioni tra quest’ultimo e i Presidenti di Regione, ormai impropriamente ribattezzati “Governatori” in forza della legittimazione elettorale di cui godono, rischierebbe di produrre una degenerazione drastica della stessa forma di Stato qualora non fosse accompagnata da un contestuale e proporzionato potenziamento dei contrappesi e delle garanzie costituzionali.
Laddove i processi di riforma o, più ampiamente, di produzione normativa non siano semplicemente rivolti ad assecondare le trasformazioni delle dinamiche interistituzionali già avvenute o in atto, essi rischiano, d’altro canto, di risultare velleitari. Questo è, in particolare, il caso dell’attuazione dell’autonomia differenziata, che, per l’operare degli strumenti e dei vincoli finanziari della governance europea, a conti fatti, potrebbe rimanere sulla carta.
Su quest’ultimo versante, il ruolo del Parlamento potrebbe forse essere rilanciato da una riforma strutturale del bicameralismo perfetto che riuscisse a dare voce agli enti regionali nella sede centrale della rappresentanza politica. Una riforma, anche quest’ultima, altamente improbabile nell’attuale momento politico, dopo il referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 che ha bocciato il progetto Renzi-Boschi, il quale, com’è noto, aveva tra i suoi contenuti principali proprio l’introduzione del bicameralismo differenziato.
La rivitalizzazione delle istituzioni rappresentative nazionali, tuttavia, richiederebbe un rilancio, per così dire “dal basso”, della partecipazione democratica, che potrebbe forse trovare un’importante sollecitazione in una rifondazione dei partiti, promossa attraverso l’introduzione di un’adeguata disciplina inerente alla loro organizzazione interna, volta ad assicurarne la democraticità (sul punto ora R. Bin). Interventi di tal genere, tuttavia, come quelli riguardanti il sistema elettorale, incontrano le più ferme resistenze delle forze politiche, che continuano a individuare nelle carenze dell’assetto istituzionale le sole ragioni di sofferenza dell’ordinamento, trascurando quelle che riguardano lo stesso sistema politico-partitico.