LORENZA VIOLINI*
1. Il processo di attuazione dell’art. 116, III comma, ha radici che risalgono al 2007, anno in cui si riscontrano i primi tentativi da parte di alcune regioni di attivare il processo allo scopo di ottenere alcune funzioni ritenute cruciali per l’esercizio pieno delle proprie funzioni. Dalle funzioni alle politiche, si diceva in quegli anni, con ciò indicando la volontà non solo di essere soggetti di un decentramento coronato da qualche funzione legislativa, ma anche di potere essere soggetti politici a tutti gli effetti, capaci di scelte organizzative e sostanziali a tutto campo. Le tappe intermedie di questo processo sono note, tutte costellate da passi avanti e da molti stop, fino ad arrivare all’ultima legislatura la quale – pur tra le svariate vicissitudini che ha ospitato, non ultimo la pandemia da Covid – ha certamente contribuito a rinfocolare sia le aspettative sia le opposizioni.
Ora, subito dopo le ultime elezioni, svoltesi nel 2022, il processo menzionato ha ripreso la sua marcia, che ha visto uno spostamento dell’asse della discussione dalla negoziazione delle intese, in forma bilaterale, tra Governo e Regioni richiedenti, di cui alle Bozze di intesa del 2019, alla predisposizione di un disegno di legge nazionale finalizzato non solo all’attuazione procedimentale dell’art. 116, III comma, ma anche alla – previa – definizione dei livelli essenziali delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali da erogare in modo uniforme su tutto il territorio nazionale, dei relativi costi e fabbisogni standard nonché alla piena attuazione della legge sul federalismo fiscale.
Questo passaggio, adottato in continuità con le proposte di legge avanzate da precedenti governi (v. pdl Boccia) si è reso necessario per dimostrare l’intento politico volto a tenere nella dovuta considerazione le crescenti resistenze presenti nel Paese, soprattutto al Sud, e nella sua classe politica, alla differenziazione. Tali resistenze erano presenti in sede accademica, in sede politica e nell’opinione pubblica, influenzata dall’insieme degli scritti che fanno parte del filone denominato “la secessione dei ricchi” , espressione che pure Roberto Bin considerava (e credo ancora consideri) una vera e propria fake news.
2. La scelta di inserire nella legge di bilancio 2023, all’art. 1, commi dal 768 al 798, norme relative alla materia, ha due aspetti non necessariamente connessi l’uno con l’altro se non per una logica meramente temporale: uno è finalizzato a porre rimedio, oltre alle carenze infrastrutturali ben note, al malfunzionamento dello Stato sociale, ritenuto – e a ragione – fonte già da ora di discriminazioni territoriali; l’altro, invece, mira a disegnare il percorso attuativo del regionalismo differenziato, soprattutto per far fronte alle critiche di snaturamento del ruolo del Parlamento a favore delle intese di provenienza del potere esecutivo nei diversi livelli di governo.
Le scelte del Governo in carica hanno portato ad una correzione – seppur non radicale – dell’approccio rispetto al tema del potenziamento dell’autonomia. Si è infatti verificato che, spostando il baricentro della politica nazionale dall’autonomia alle proposte di regolazione dei livelli essenziali, da indentificare sulla base della legislazione vigente e da regolamentare secondo le procedure previste nella legge di bilancio nonché del ddl governativo tempestivamente presentato al Senato, il percorso regionale di individuazione delle richieste di “ulteriori funzioni e condizioni particolari di autonomia“ si sia preso una pausa di riflessione, in attesa degli effetti delle iniziative governative.
Tale effetto è in un certo senso paradossale. E, invero, non che nelle Preintese del 2018 o nelle Bozze di Intesa del 2019 non fosse chiaramente riconosciuta l’esistenza di una riserva di legislazione esclusiva statale per la determinazione dei LEP. Al contrario: nei documenti ricordati sempre si faceva presente che i livelli essenziali non avrebbero dovuto essere intaccati dalle richieste regionali. E, tuttavia, il cambio di paradigma imposto dalla legislazione nazionale al dibattito politico e accademico ha contribuito a ricalibrare la discussione anche a livello regionale, più orientata non tanto a fare richieste di mero aumento delle competenze quanto a contrastare il crescente centralismo, visto con crescente fastidio dalla burocrazia regionale. E, pertanto, in presenza di scelte nazionali molto ben caratterizzate, è comprensibile che anche le Regioni si interroghino su come procedere ad elaborare le loro richieste: in generale, le richieste ragionali meramente ampliative delle competenze conducono ad un incremento delle funzioni amministrative regionali, incremento che necessita di un contestuale adeguamento non solo delle risorse finanziarie (su cui la discussione è ancora aperta) ma anche dell’intera struttura burocratica regionale chiamata a farvi fronte. Così, nei fatti, si sono attivati percorsi di riflessione coerenti con il nuovo quadro nazionale anche a motivo del radicale cambio di atteggiamento nella posizione dell’Emilia Romagna di Bonaccini per i noti problemi interni al maggiore partito di opposizione e, in generale, al clima di attesa rispetto all’approvazione – considerata imminente – della legge nazionale.
3. Tutto ciò posto, volendo tentare di indentificare gli effetti nel breve del percorso dell’autonomia per tramite della attuazione dell’art. 116, III comma, vanno distinti due momenti: da un lato le prospettive che si aprono (o si dovrebbero aprire) a seguito dell’approvazione del ddl Calderoli e della definizione dei livelli essenziali. In proposito occorre riferirsi all’esito del Comitato tecnico-scientifico con funzioni istruttorie per l’individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni (CLEP) meglio noto come la Commissione Cassese, esito importante “ai fini della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) indipendentemente da chi vengano forniti, che sia lo Stato, le Regioni, le Province o i Comuni”.
In particolare si segnala che, in prospettiva, i livelli essenziali o sono già presenti,come già accade per le prestazioni di tipo sanitario che sono previsti dai LEA (livelli essenziali di assistenza), in quanto prestazioni e servizi che il Sistema Sanitario Nazionale è tenuto a fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento di una quota di compartecipazione sotto forma di ticket, con le risorse pubbliche raccolte attraverso la fiscalità generale, o vanno individuati e quantificati secondo la procedura prevista dal ddl in esame, ove già identificati dalle leggi di settore, rispetto ai quali occorre un passo ulteriore, ossia la valutazione degli stessi sulla base dei costi e fabbisogni standard e non più rispetto alla spesa storica. E, infatti, il ddl Calderoli prefigura un percorso per pervenire alla definizione dei livelli essenziali e dei fabbisogni e dei costi standard affidato ad una Cabina di Regia a sua volta supportata dalla Commissione tecnica per i fabbisogni standard con l’ausilio della Società Soluzioni per il sistema economico, dell’Istat e del Cinsedo. Si ricollegano così i due momenti fondamentali per l’organizzazione di uno Stato sociale efficiente: l’identificazione delle prestazioni e i loro costi, cui va aggiunta la costruzione di strutture amministrative adeguate, purtroppo non sempre presenti nell’ambito delle amministrazioni competenti. Si potrebbe in proposito ragionare di “livelli essenziali strutturali”, un tema su cui si riflette da tempo tanto che, ad esempio, nel settore dell’assistenza sociale, vi sono già norme che prevedono (e quantificano) il numero di assistenti sociali necessari perché si pervenga all’erogazione di servizi coerenti con il bisogno. Lo stesso vale per i centri per l’impiego, anch’essi da potenziare, rispetto ai quali si parla (e giustamente) di obiettivi di servizio per segnalare l’attivazione di percorsi che nel tempo possano pervenire ad erogare servizi sulla base dei livelli essenziali già normativamente identificati.
4. Se preliminare all’attuazione del percorso dell’autonomia è un così complesso percorso, che peraltro non è riconducibile ai soli livelli essenziali delle 23 materie previste dall’art. 116, III comma, ma dovrebbe coinvolgere tutte le strutture pubbliche che erogano prestazioni ai cittadini, che dire dei destini del regionalismo differenziato ove questo non sia connesso all’individuazione dei LEP? E che ne sarà delle richieste regionali? La domanda è molto interessante ma la risposta e ancora molto oscura. Si potranno richiedere funzioni relative alle procedure di controllo oppure funzioni da regolare in modo semplificato rispetto alla legislazione nazionale vigente? Si pensi per esempio alla materia ambientale, un settore in cui vi sarebbe molto da discutere, viste le complesse normative ove si intrecciano competenze dell’Unione europea e competenze nazionali; analoghe riflessioni andranno fatte per ogni materia, e non solo a favore delle Regioni richiedenti ma anche a favore dell’intera collettività nazionale. In questo caso, la classica affermazione di chiusura, secondo cui vi è ancora molto da chiarire, non è certo di maniera.
* Professoressa ordinaria di Diritto Costituzionale – Università degli Studi di Milano.