FRANCESCA RESCIGNO*
“In un mondo in cui l’amore e il sesso non conducono più alla riproduzione della specie, l’omicidio rappresenta lo stimolo principale alla procreazione. L’intento di sopprimere una vita diventa la chiave di volta per crearne altre” (1). La scrittrice giapponese Murata Sayaka nel suo racconto ‘Parti e Omicidi’ immagina un futuro in cui sono state riviste le regole sociali comprese quelle concernenti la riproduzione, per cui i bambini non nascono più da relazioni d’amore, ma, almeno nella maggior parte dei casi, da ‘gestanti’. Tutte le femmine, all’arrivo del menarca, vengono dotate di un dispositivo anticoncezionale per non incorrere in gravidanze indesiderate. Chi vuole un bambino può prenotarlo e ritirarlo presso il Center, rifornito di vite nuove da chi sceglie di procreare per gli altri. Non solo le donne, anche gli uomini possono decidere di restare incinti grazie all’introduzione nell’addome di un utero artificiale. Chi sceglie di diventare gestante deve portare a termine dieci gravidanze e quando l’ultimo nato sarà stato consegnato all’apposito Center, allora avrà la facoltà di indicare quale persona vuole che sia eliminata. L’omicidio al posto del ‘bonus bebè’, una morte per dieci vite, un paradosso che può farci inorridire, alzare le spalle perché in fondo si tratta solo di un grottesco racconto o, in alternativa, farci riflettere perché alla fine la maternità è sempre oggetto di interesse e controllo.
Mercoledì 16 ottobre 2024 resterà una data grigia per l’emancipazione femminile, è stato infatti approvato in via definitiva il ddl Varchi che espande oltre il territorio nazionale il reato della gestazione per altri (2), con un azzardo giuridico che verrà messo alla prova della realtà, una bandiera politica che non ha incontrato effettivamente una reale opposizione, una manifestazione di conservatorismo oltranzista che si ripercuote principalmente e fortemente sull’autonomia decisionale delle donne (3)
E così, dopo la stoccata dello scorso maggio con l’approvazione di un emendamento al decreto PNRR volto a consentire la presenza di gruppi anti-abortisti nei consultori, attraverso l’apposizione della fiducia viene assestato un altro colpo alla capacità di disposizione del proprio corpo per le donne.
Come noto, le frontiere della riproduzione si sono notevolmente dilatate con l’introduzione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita e l’accresciuta attenzione al corpo della donna in quanto “contenitore” di vita ha condotto all’adozione di una delle peggiori leggi possibili, si tratta della Legge n. 40 del 2004, per fortuna progressivamente smantellata dalla giurisprudenza costituzionale.
La GPA, in Italia, era già espressamente vietata proprio dalla Legge del 2004 che all’articolo 12, comma 6, prevede: “chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro”. Oggi però questo divieto è stato ‘trasformato’ in ‘reato universale’ affiancandosi a fattispecie quali: il genocidio, la tortura, la schiavitù e in generale tutti i peggiori i crimini contro l’umanità. In realtà la definizione di ‘reato universale’ è più politica che giuridica, per cui sarebbe più corretto parlare di ‘giurisdizione universale’ nel senso che ai tribunali nazionali è permesso perseguire i più gravi crimini del diritto internazionale, a prescindere dal luogo in cui sono stati commessi o dalla nazionalità di chi li ha commessi. Certamente risulta difficile, e decisamente imbarazzante, accomunare ai gravi crimini contro l’umanità già ricordati il nuovo ‘reato universale di GPA’ che peraltro prevede nel nostro Paese una pena massima di un paio d’anni di reclusione non applicabile per chi è incensurato.
Nell’attesa dei prossimi passi giuridici (alcune coppie si sono già rivolte all’Associazione Coscioni per attivarsi contro questa novella legislativa), giova concentrarsi sulla specificità della fattispecie. Il nucleo della GPA riposa, come già detto, nel fatto che una donna che porterà avanti la gravidanza non è destinata ad essere la madre giuridica del nascituro, che sarà invece inserito in una coppia etero o omo sessuale o riconosciuto quale figlio di una persona single. Il punto è se sia ipotizzabile ricorrere a pratiche di questo tipo per soddisfare un ipotetico ‘diritto ad un figlio’ e se tale diritto sia configurabile. La Consulta con la sentenza n. 162 del 2014 che ha posto fine al divieto di fecondazione eterologa sembrava aver riconosciuto una sorta di “diritto al figlio” nel momento in cui scriveva: “La determinazione di avere o meno un figlio, anche per la coppia assolutamente sterile o infertile, concernendo la sfera più intima e intangibile della persona umana, non può che essere incoercibile, qualora non vulneri altri valori costituzionali. Nessuna legge dello stato italiano può vietare alle coppie il ricorso alla fecondazione eterologa…perché la scelta di diventare genitori e formare una famiglia che abbia anche dei figli costituisce espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi” (4). In tal senso discriminare le coppie assolutamente sterili o infertili costituiva una palese violazione del principio di eguaglianza ed era irragionevole. Caduto il divieto di fecondazione eterologa però non tutte le coppie sono state messe in condizione di realizzare il proprio desiderio di genitorialità: prescindendo dalle coppie omosessuali o dai genitori single posti tradizionalmente in una posizione di inferiorità o, peggio, di inesistenza, permane infatti una discriminazione per le coppie impossibilitate a condurre a termine una gravidanza, per cui proprio chi ha problemi più gravi viene escluso dalla possibilità di diventare genitore. La donna, infatti, oggi può donare i propri gameti, può ricevere un embrione formatosi grazie ai gameti di un’altra donna e di un altro uomo che non sia il proprio compagno di vita, ma non può volontariamente prestarsi, nemmeno a titolo gratuito, ad ospitare un embrione (contenente o meno suo materiale genetico) che al termine della gravidanza non sarà considerato come suo figlio, e questo malgrado la stessa donna possa legittimamente decidere di interrompere una gravidanza o anche di partorire in anonimato senza apparire in alcun modo quale madre del nato che sarà quindi legalmente abbandonato. Esiste quindi una sorta di corto circuito giuridico per cui è lecito abbandonare un figlio alla nascita o subito dopo, auspicando per lui un futuro migliore grazie all’istituto dell’adozione; ma non è consentito condurre a termine consapevolmente una gravidanza per un’altra madre, una madre intenzionale che non ha altra possibilità per coronare il suo desiderio di maternità, o comunque per un’altra famiglia (anche formata da persone dello stesso sesso) che sia impedita da ostacoli naturali alla realizzazione della sospirata genitorialità.
Eppure, la GPA non procura alcuna lesione della propria integrità fisica, nessun danno permanente al corpo della donna: la madre gestazionale, infatti, è esposta ai rischi che sono propri di qualsiasi maternità, comuni quindi ad ogni gestante. Si potrebbe allora pensare che il problema riposi nella possibile natura “contrattuale” di tale prestazione, ma allora si dovrebbe ritenere legittima la GPA fatta a titolo solidaristico e gratuito, ma così non è.
La realtà è altrove, come dimostra una pronuncia della Consulta dove il giudice delle leggi definisce la ‘maternità surrogata’ quale pratica “che offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane” (5).
Il centro del ragionamento è dunque la dignità delle donne e in parte anche quella del bambino che “diviene un ‘mezzo’, uno ‘strumento’ per realizzare desideri altrui, tanto che il suo
apparire al mondo coincide con la perdita immediata della relazione per lui più importante proprio perché è l’unica che conosce, oltre che la più naturale, quale quella materna; l’assenza di quella relazione significa, inoltre, far coincidere la sua prima esperienza di vita, il suo battesimo al mondo con l’esperienza dell’abbandono” (6). In realtà però la ‘dignità del nato’ andrebbe contestualizzata diversamente considerando che ancor prima di venire al mondo, come previsto dalla Legge n. 194, è possibile al fine di preservare la salute psico-fisica della donna interrompere la gravidanza privilegiando la dignità di chi è già persona rispetto a quella di chi deve ancora diventarlo; in seguito alla nascita invece il bambino può essere abbandonato usufruendo del parto in anonimato, che gli renderà impossibile in ogni caso conoscere le sue origini biologiche, oppure potrà essere abbandonato anche in un momento successivo perché la madre o il nucleo genitoriale non è in grado (non può o non vuole) prendersi cura del bambino stesso. Insomma, se si vuole porre l’accento sul best interest of the child il problema non è l’utero che ha ospitato il bambino, bensì la tutela e la garanzia approntate dall’ordinamento per il suo benessere psico-fisico come piccola persona.
Il soggetto che si vuole controllare (e che si finge di voler proteggere) non è il bambino, bensì la donna e il modo migliore per farlo è quello di agire sul concetto di dignità. Nel mondo però ci sono 66 Paesi in cui la GPA è legale, ci si domanda dunque se la dignità femminile sia una questione geografica. L’idea che la donna non sia naturaliter in grado di decidere con piena consapevolezza di sé di portare in grembo e far nascere un bambino che non instaurerà con lei un successivo rapporto emotivo e giuridico di filiazione risponde solamente ad un moderno pregiudizio, una pericolosa forma di sessismo, decisamente più raffinata di molte altre che hanno contraddistinto il cammino di emancipazione delle donne, ma pur sempre un preconcetto legato alla falsata e discutibile considerazione dell’inferiore attitudine decisoria femminile e costituisce esso stesso una lesione della dignità femminile (7). Difendere la dignità della donna significa credere nella sua capacità di scelta e di autodeterminazione anche rispetto a scelte personalissime ed eticamente sensibili; la donna è “degna” e “capace” quando decide di interrompere una gravidanza, così come
quando sceglie la strada del parto anonimo o il ricorso all’adozione, scelte intime, mai sindacabili, che richiederebbero un Legislatore discreto, laico, capace di creare la necessaria cornice normativa di contorno volta unicamente a proteggere l’autodeterminazione femminile e a tutelare il nato. Così, la donna deve poter essere considerata “degna” e “capace” anche se si rivolge ad una madre gestazionale o se decide di esserlo, aspettandosi unicamente che lo Stato le fornisca i riferimenti giuridici di contorno necessari per tutelare l’interesse del nato e di se stessa, e non certo un giudizio morale basato sulla sua fisiologica incapacità decisionale.
La dignità è alla base del principio di eguaglianza ed anche del diritto alla salute, ed entrambi richiedono e garantiscono capacità autodeterminativa consentendo ad ogni soggetto (donna e uomo) di esprimere con piena consapevolezza le proprie attitudini, desideri, volontà, purché naturalmente non siano in contrasto con quelle degli altri soggetti o dell’intera collettività; il desiderio di avere una famiglia caratterizzata dalla presenza di figli non urta contro alcuna esigenza della collettività, per questo appare incomprensibile la previsione del divieto di contribuire (a titolo gratuito, ma anche eventualmente oneroso) a realizzare tale legittimo desiderio.
La presenza delle associazioni antiabortiste nei consultori e negli spazi pubblici (laici!) dove, obiezione di coscienza permettendo, si pratica l’interruzione di gravidanza, ed ora l’introduzione del reato universale di GPA, costituiscono gravi violazioni dello spazio di autodeterminazione di ogni singola donna, anche di coloro che mai farebbero ricorso a queste pratiche, e ledono il fondamentale diritto alla salute.
Come donna, cittadina e studiosa inorridisco davanti a bandiere politiche piantate, ancora una volta, sul corpo e sulla salute delle donne, atti che rappresentano un affronto al faticoso ma instancabile cammino di liberazione femminile e che non possono lasciarci in alcun modo indifferenti.
*Professoressa associata di Istituzioni di Diritto Pubblico e Diritto delle Pari Opportunità – Università di Bologna
[1] Cfr. M. Sayaka, Parti e omicidi, Roma, 2024.
[2] In questo breve contributo non si usano volutamente le definizioni denigratorie di ‘maternità surrogata’ e ‘utero in affitto’, il termine gestazione per altri è più che corretto poiché si tratta di una pratica che prevede che la gravidanza venga condotta da una donna a favore di terzi e ciò può avvenire sia a titolo gratuito che dietro compenso. Da ora in avanti si utilizzerà l’acronimo GPA.
[3] Il testo approvato è formato da un solo articolo, che modifica l’articolo 12 della legge 40, aggiungendo un paragrafo che recita: “se i fatti di cui al periodo precedente, con riferimento alla surrogazione di maternità, sono commessi all’estero, il cittadino italiano è punito secondo la legge italiana”.
[4] Cfr. Sentenza Corte costituzionale n. 162 del 2014 in Giurisprudenza Costituzionale, 2014, 2563.
[5] Sono le parole utilizzate dalla Corte al punto 2.1.1 della Sentenza n. 272 del 2017.
[6] Così F. Angelini, Bilanciare insieme verità di parto e interesse del minore. La Corte costituzionale in materia di maternità surrogata mostra al giudice come non buttare il bambino con l’acqua sporca, in Costituzionalismo.it, 2018, n. 1, 155.
[7] In tal senso illuminanti le parole della Corte suprema della California, nella causa Johnson c. Calvert, quando afferma “The argument that a woman cannot knowingly and intelligently agree to gestate and deliver a baby for intending parents carries overtones of the reasoning that for centuries prevented women from attaining equal economic rights and professional status under the law”. Cfr. Corte suprema della California, Johnson c. Calvert, 20 maggio 1993, in Foro italiano, 1993, IV, c. 337, con nota di G. Ponzanelli, California e “vecchia” Europa: il caso del contratto di maternità surrogata.