Non è una questione privata: la tutela di Saman Abbas nelle aule della Corte d’Assise d’Appello di Bologna

AURORA MAGGI*

L’omicidio di Saman Abbas è stato perpetrato dal suo nucleo familiare. Così ha stabilito la Corte d’Assise d’Appello di Bologna, che ha radicalmente riformato la sentenza di primo grado, riconoscendo la responsabilità penale non solo dei genitori – per i quali è stata confermata la condanna all’ergastolo – ma anche dei due cugini, anch’essi condannati all’ergastolo, e aggravando la pena dello zio, da 14 a 22 anni di reclusione. La giovane donna aveva rifiutato di sposare il cugino in Pakistan un anno prima della sua morte, avvenuta il 1° maggio 2021. Il fratello di Saman Abbas è stato il testimone chiave durante il processo, nei confronti del quale tutti i responsabili sono stati condannati al risarcimento del danno.

Dalla lettura del dispositivo emerge un punto fermo: «Genitori, zio e cugini sono tutti colpevoli, i familiari di Saman, di omicidio e soppressione di cadavere, con le aggravanti della premeditazione e dei motivi abbietti e futili». È una sentenza che assume un rilievo simbolico e giuridico profondo, poiché riconosce la natura sistemica della violenza perpetrata: Saman Abbasè stata privata prima che della vita, della libertà e del diritto all’autodeterminazione.

La Corte ha esplicitamente rifiutato l’inquadramento dell’omicidio come fatto privato, affermando, al contrario, la sua natura di espressione di una violenza strutturale, nutrita da un contesto culturale e patriarcale che ha trovato nella famiglia il suo principale veicolo. I cugini, ritenuti complici dello zio, sono stati dunque inseriti in questo disegno criminoso collettivo.

A emergere è una responsabilità corale, non solo giuridica ma anche culturale: il rifiuto, da parte di Saman, di piegarsi a un matrimonio forzato organizzato in Pakistan ha innescato una dinamica di controllo, coercizione e, infine, uccisione. La famiglia, anziché costituire uno spazio di protezione e libera formazione dell’identità della ragazza, si è fatta strumento di annullamento della sua volontà. Il matrimonio forzato viola, tra gli altri, l’art. 16 della Dichiarazione universale dei diritti umani nel quale viene disposto che il matrimonio potrà concludersi soltanto nei casi in cui sia stato espresso consenso libero e pieno dei futuri coniugi. Un’articolata definizione di tale fenomeno si rinviene all’art. 37 della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica. Si fonda su due specifici elementi la costrizione consapevole e volontaria di indurre un/una adulto/a o un/a bambino/a a contrarre matrimonio e il «fatto di attirare intenzionalmente con l’inganno un adulto o un bambino sul territorio di uno Stato Parte o di uno Stato diverso da quelle in cui risiede, allo scopo di costringerlo a contrarre matrimonio». Una delle caratteristiche del matrimonio forzato è la sua potenziale degenerazione nel delitto d’onore.

In tal senso, la pronuncia della Corte d’Appello si distingue anche per il superamento della logica della vittimizzazione secondaria che aveva caratterizzato il giudizio di primo grado: restituisce dignità a Saman Abbas e, con lei, a tutte le donne che vivono sotto il giogo di un potere patriarcale che ne soffoca libertà, desideri e autonomia.

Questa sentenza contribuisce ad affermare che ogni femminicidio non è un fatto isolato, ma un fenomeno sociale e culturale, un fallimento collettivo, esito estremo di una visione liberticida della libera volontà femminile. E l’omicidio di Saman Abbas – ora finalmente riconosciuto nella sua piena gravità – ne è l’ennesima, tragica conferma.

*Dottoranda di Ricerca in Diritto Pubblico Comparato, Socia di Rete per la Parità e Tirocinante presso il Tribunale di Sorveglianza di Roma

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