P.m.a. e autodeterminazione maschile

Con la sentenza n. 161 del 2023 la Corte costituzionale si è pronunciata sulla legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 3, della legge n. 40 del 2004, che prevede l’irrevocabilità del consenso dell’uomo dopo la fecondazione dell’ovulo.

Nell’ordinanza di rimessione è stato evidenziato come la norma censurata consenta di procedere all’impianto di embrioni crioconservati anche a grande distanza di tempo dalla fecondazione e anche laddove, come nel caso in questione, l’originario progetto di coppia sia venuto meno e l’uomo abbia cambiato idea in ordine al consenso precedentemente prestato.

La Corte costituzionale ha riconosciuto che la norma si colloca al limite di “scelte tragiche”, ma ha escluso la fondatezza della questione, ritenendo ragionevole il bilanciamento operato dal legislatore. La limitazione della libertà di autodeterminazione dell’uomo risulterebbe infatti giustificata dall’esigenza di tutelare preminenti interessi: la salute della donna che, facendo affidamento sul consenso dell’uomo, si sottopone al processo di p.m.a., fortemente invasivo per la sua integrità psico-fisica, e la tutela della dignità dell’embrione, che, sebbene non assoluta, è tuttavia costituzionalmente rilevante.

– Si ritiene opportuna la scelta legislativa di limitare la possibilità di autodeterminazione dell’uomo prevedendo l’irrevocabilità del suo consenso all’impianto dell’embrione dopo la fecondazione dell’ovulo?

– La pronuncia apre alla possibilità di fecondazione dopo la morte del partner? – È corretto considerare nel bilanciamento la dignità dell’embrione?

– È corretto considerare nel bilanciamento la dignità dell’embrione?

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Sara Di Giovanni
Sara Di Giovanni
8 mesi fa

Con la propria decisione, la Corte costituzionale conferma la scelta del legislatore in ordine alla «cristallizzazione»[1] del consenso (evidentemente solo maschile, ben potendo la donna sempre rifiutare l’impianto in utero) dal momento della fecondazione dell’ovulo.
Per procedere in tale direzione, il Giudice delle Leggi ha operato un bilanciamento tra i diversi interessi coinvolti, individuati nella salute psicofisica della madre, nella dignità dell’embrione e nella libertà di autodeterminazione rispetto alla scelta di diventare genitore del padre.
La Corte costituzionale si colloca al limite di una “scelta tragica”, provocando di fatto il “sacrificio” della libertà dell’uomo a fronte di un necessario bilanciamento verso i diritti della donna e la dignità dell’embrione, giustificata alla luce del ragionevole contemperamento operato dal legislatore.
La scelta legislativa di limitare la possibilità di autodeterminazione dell’uomo prevedendo l’irrevocabilità del suo consenso all’impianto dell’embrione dopo la fecondazione dell’ovulo trovava, nell’impostazione originaria della disciplina, la sua giustificazione in un impianto normativo, quello della legge n. 40 del 2004, che ancora non aveva conosciuto gli interventi “modificativi” della Corte costituzionale. La ratio del divieto di revoca del consenso era rinvenibile nella volontà di garantire la creazione di un nucleo famigliare aderente quanto più possibile al modello tradizionale di famiglia, con correlativa tutela degli embrioni creati che dovevano essere impiantati immediatamente con un unico e contemporaneo intervento.
Gli interventi della Corte costituzionale sulla legge 40 del 2004 hanno però determinato mutamenti profondi nelle scelte di fondo del legislatore del 2004.
In particolare, per ciò che qui interessa, bisogna considerare che lo “scenario normativo” della legge n. 40 del 2004 conosce un primo importante cambiamento in seguito (anche) alla sentenza n. 151 del 2009. Infatti, cadendo l’obbligo di unico e contemporaneo impianto degli embrioni creati nel numero massimo di tre per ogni ciclo di stimolazione ovarica e l’obbligo di trasferimento immediato degli stessi in utero, con conseguente possibilità di differimento per ogni tipo di pregiudizio per la salute della donna e dunque di crioconservazione degli embrioni creati (anche in numero superiore a tre), la sentenza richiamata ha aperto alla possibilità che tra fecondazione dell’ovulo e impianto in utero dell’embrione possa trascorrere un lasso di tempo importante. Quel “nuovo scenario normativo” della legge n. 40 del 2004 lo si deve dunque cogliere nella possibilità che si determini una “discrasia temporale” tra fecondazione dell’ovulo e transfer dell’embrione in utero, che di fatto ha provocato lo «sgretolamento»[2] di un aspetto della legge sulla procreazione medicalmente assistita che, secondo parte della dottrina[3], già nasceva come intrinsecamente problematico.
Per questo motivo, si ritiene non si possa parlare di “scelta opportuna” del legislatore in quanto essa ad oggi si colloca in un impianto normativo fortemente modificato nella sua struttura da interventi “correttivi” della Corte costituzionale. Ciò imporrebbe di considerare la scelta legislativa non con riferimento al momento storico dell’approvazione della legge n. 40 del 2004, bensì in una lettura combinata che tenga conto, da un lato, degli interventi “correttivi” della Corte costituzionale e, dall’altro, delle ulteriori disposizioni di cui si compone la legge in oggetto.
Inoltre, per rispondere al secondo quesito, la sentenza n. 161 del 2023 ha determinato, per certi versi, una possibile “apertura” su una importante previsione della legge n. 40 del 2004, ossia il divieto di fecondazione post mortem, considerando i requisiti soggettivi di accesso alle tecniche previsti dalla normativa.
Occorre, infatti, rilevare come la sentenza n. 161 del 2023 abbia determinato un ulteriore allontanamento dall’impianto originario della legge del 2004 che mirava a garantire la creazione di un modello di famiglia considerato idoneo per il nato, che risultava essere quello formato da un uomo e una donna uniti in matrimonio o conviventi more uxorio. Infatti, la “paternità costretta” dalla cristallizzazione del consenso potrebbe determinare, ove sia possibile l’impianto dell’embrione a grande distanza di tempo dalla fecondazione, una sopravvenuta conflittualità interna al nucleo famigliare. La Corte esplicita, infatti, nelle sue argomentazioni, che fra l’interesse del nato a vivere in una famiglia non conflittuale e l’interesse a nascere prevale quest’ultimo.
L’art. 30. Cost., nella sua accezione di tutela e promozione del diritto al benessere psichico e fisico dei figli attraverso l’inserimento in una famiglia che offra loro due genitori di sesso diverso, quindi, pare trovare un proprio limite nel diritto alla vita del nascituro e nel diritto all’integrità fisica e psichica della madre, in quanto diritti tutelati agli artt. 2 e 32 Cost.
In tal modo, però, vengono evidentemente meno alcuni requisiti soggettivi di accesso imposti dalla stessa legge n. 40 del 2004.
Ciò posto, dunque, ci si dovrebbe interrogare sulla “capacità” della cristallizzazione del consenso al momento della fecondazione dell’embrione di determinare una “apertura” verso la possibilità di procedere al transfer in utero anche laddove sia intervenuta la morte dell’uomo. In altri termini, non essendo più rilevante l’eventuale dissenso dell’uomo a procedere alle tecniche di fecondazione assistita, e stante la sua assenza – in termini biologici – nella prosecuzione dell’eventuale gravidanza, ci si deve interrogare sulla possibilità di interpretare le disposizioni della legge n. 40 del 2004 nel senso della possibilità di concludere le pratiche mediche di procreazione già avviate anche qualora l’uomo che aveva fornito il gamete maschile sia successivamente deceduto – prima o dopo la fecondazione dell’embrione – ma abbia comunque prestato il suo consenso prima del momento indicato dall’art. 6, comma 3, della legge n. 40 del 2004.
Per quanto riguarda la terza domanda, occorre considerare due aspetti importanti: in primo luogo, che all’embrione occorre garantire idonea tutela come previsto dalla stessa legge n. 40 del 2004, che le dedica non solo l’art. 1, ma anche il capo VI e i suoi artt. 13 e 14.
Nello specifico, l’art. 1 dispone che le pratiche di procreazione medicalmente assistita devono essere svolte secondo le modalità previste dalla legge, che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito.
Inoltre, la sezione VI, Misure a tutela dell’embrione, prevede all’art. 13 il divieto di sperimentazione sugli embrioni umani, sancendo che «la ricerca clinica e sperimentale su ciascun embrione umano è consentita a condizione che si perseguano finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche ad essa collegate volte alla tutela della salute e allo sviluppo dell’embrione stesso […]. Dunque, la tutela dell’embrione è declinata nella sua componente di tutela della salute e dello sviluppo dello stesso.
In secondo luogo, è la stessa Corte costituzionale ad aver riconosciuto la «dignità antropologica» (cfr. Corte cost., sent. 84 del 2016 e sent. 229 del 2015), attribuendole pertanto un ruolo nel bilanciamento di interessi laddove entri in gioco l’embrione stesso.
Di conseguenza, si potrebbe ritenere che in virtù delle previsioni normative di cui alla legge n. 40 del 2004 da un lato, e delle importanti interpretazioni che la Corte costituzionale ha proposto in merito alla tutela dell’embrione dall’altro, quest’ultimo deve essere inteso come titolare di interessi – corrispondente, in questo caso, alla tutela della sua dignità – laddove si debba procedere ad un bilanciamento dei diversi interessi coinvolti.

[1] B. Liberali, La cristallizzazione del consenso maschile nella fecondazione assistita e la sua trasformazione in strumento di tutela dell’«investimento fisico ed emotivo» della donna, in Studium Iuris, 2023, VI, in corso di pubblicazione.
[2] Così P. Sanfilippo, Dal 2004 al 2014: lo sgretolamento necessario della legge sulla procreazione medicalmente assistita, in Diritto penale contemporaneo, 2014.
[3] Ibidem