Prospettive giuridiche sugli effetti del cambiamento climatico e sulle altre emergenze sulla salute delle donne (Palermo, Febbraio, 2025).

SARA DE VIDO*

1. Questa breve nota trae origine dalla relazione che ho tenuto all’Università di Palermo il 13 febbraio 2025, al seminario “Cambiamenti climatici e altre emergenze croniche. Effetti sulla salute in una prospettiva di genere”. L’iniziativa è stata organizzata nell’ambito del progetto “GenREm – Gendering international legal response to chronic emergencies” finanziato dall’Unione Europea – Next GenerationEU – PNRR – Missione 4 Componente 2, Investimento 1.1 Fondo per il PRIN – Programma Nazionale di Ricerca e Progetti di Rilevante Interesse Nazionale, che coinvolge le università Ca’ Foscari di Venezia, Palermo e Firenze. 

Il post si concentrerà sulla relazione tra ambiente, o meglio gli effetti del cambiamento climatico e di altre “emergenze croniche ambientali” (così come definite, si veda infra, nel progetto GenREm), e corpo delle donne, riflettendo sul piano giuridico e in prospettiva ecofemminista sulla necessità di un cambio di paradigma nel modo in cui si intende il diritto e lo si interpreta. Questo post è strutturato come segue: il contesto, ovvero il diritto alla salute e alla salute riproduttiva delle donne nel diritto internazionale dei diritti umani; il problema, cioè l’impatto sproporzionato delle emergenze croniche ambientali sul corpo delle donne; la relazione tra corpo delle donne e territorio; la risposta giuridica all’embodiement a partire dalla sentenza della Corte interamericana dei diritti umani nel caso La Oroya.

2. Il contesto: il diritto alla salute e alla salute riproduttiva delle donne

Non è mia intenzione esaurire la complessità del tema legato al diritto alla salute e alla salute riproduttiva delle donne in poche righe, tuttavia è opportuno precisare il tessuto normativo, nel campo del diritto internazionale dei diritti umani, nel quale si colloca la relazione tra ambiente-corpo-territorio. I diritti riproduttivi non sono solo una componente del diritto umano alla salute, ma costituiscono altresì un importante tema di salute di interesse globale, una questione di sviluppo e di diritti umani. 

Le questioni riguardanti la salute riproduttiva delle donne sono emerse durante il decennio delle donne delle Nazioni Unite 1975-1985: gruppi di donne hanno organizzato il Tribunale Internazionale sui crimini contro le donne, che si è riunito a Bruxelles nel 1976, e il Tribunale e incontro internazionale sui diritti riproduttivi ad Amsterdam nel 1984. Del 1979 è la Convenzione contro l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne (CEDAW) che al suo articolo 12 va riferimento all’”accesso” (non al diritto) ai servizi di assistenza sanitaria, compresi quelli relativi alla pianificazione familiare, a condizioni di parità tra uomini e donne, e pone l’accento poi sui servizi appropriati in relazione alla gravidanza, al parto e al periodo post-partum. La Convenzione ha istituito un meccanismo di monitoraggio, il Comitato CEDAW, composto di esperti ed esperte indipendenti, che elabora osservazioni conclusive sul livello di attuazione negli Stati parte degli obblighi discendenti dallo strumento giuridico stesso e accoglie ricorsi individuali solo nel caso in cui lo Stato contro cui la procedura viene avviata abbia accettato questa specifica competenza del Comitato. I ricorsi individuali (comunicazioni) sfociano in una decisione del Comitato CEDAW (le c.d. “constatazioni”). 

Il diritto alla salute, come originariamente concepito negli strumenti giuridici internazionali sui diritti umani, rifletteva, e per alcuni aspetti riflette ancora, una concezione della salute orientata al maschile, dove le questioni relative alla salute riproduttiva erano palesemente assenti o relegate ad uno dei ruoli che la società attribuisce alla donna, ovvero la maternità (Chapman). In particolare, le femministe si sono preoccupate del ruolo della medicina paternalistica, che presume l’incapacità delle donne di fare scelte autonome sul proprio corpo senza raccomandazioni professionali e perpetua sistemi di oppressione, e hanno evidenziato il fatto che molti problemi di salute specificamente legati alle donne non hanno ricevuto attenzione specifica (Putnam). Sul piano giuridico, il corpo e delle donne è stato ed è oggetto di oppressione, attraverso leggi che limitano l’autodeterminazione delle donne. Ad esempio, gli Stati hanno storicamente sfruttato i corpi delle donne per definire le loro politiche di popolazione, trasformando in legge la sottomissione sociale delle donne (Reproductive States). Più recentemente, posizioni anti-gender stanno minando alle fondamenta il diritto all’accesso alla salute riproduttiva delle donne. Pertanto, il corpo femminile è un corpo di genere (gendered), che riflette su di esso schemi sociali di oppressione e di dominio. Come affermato da Catherine MacKinnon, la capacità delle donne e il loro ruolo nella procreazione hanno determinato gli svantaggi sociali a cui le donne sono state soggette. I corpi delle donne sono, in altri termini, determinati socialmente (Purdy). Secondo Rebecca Cook, istituzioni ‘male-gendered’ hanno giustificato “intervention in women’s reproductive self-determination, by invoking public order, morality, and public health”. Cook, riferendosi al “pervasive neglect” della salute delle donne, e Virginia Leary, la quale affermava che “questioni relative alla salute delle donne hanno ricevuto minore attenzione nella ricerca medica”, descrivevano una situazione, negli anni Novanta, che è presente ancora oggi, nonostante l’affermazione dei diritti umani delle donne e una crescente consapevolezza da parte delle donne del proprio corpo e della propria autonomia (così anche Erin Nelson e Sara De Vido).

Nel 2016, il Working Group sulla questione della discriminazione nei confronti delle donne nel diritto e nella prassi, istituito a livello Nazioni Unite, ha parlato esplicitamente di “strumentalizzazione” del corpo delle donne:

Women’s bodies are instrumentalized for cultural, political and economic purposes rooted in patriarchal traditions. Instrumentalization occurs within and beyond the health sector and is deeply embedded in multiple forms of social and political control over women. It aims at perpetuating taboos and stigmas concerning women’s bodies and their traditional roles in society, especially in relation to their sexuality and to reproduction.

3. Il problema: cambiamento climatico e altre emergenze croniche ambientali e come impattano in modo sproporzionato sulle donne

La violenza è spesso concepita come evento o azione che “esplode” in un determinato momento della storia, ad esempio un disastro naturale. Il diritto internazionale sulla gestione dei disastri si focalizza sulle questioni giuridiche che originano dalla prevenzione, risposta e la recovery di diversi eventi catastrofici naturali, ma anche da disastri provocati dall’umanità, quali gli incidenti industriali su larga scala. Tuttavia, questa concezione della violenza è in grado di cogliere solo una parte delle situazioni prodotte dall’attività umana e non riesce ad identificare altre forme che non sono “né spettacolari né istantanee”, quanto piuttosto “incrementali”. La violenza lenta (termine coniato da Rob Nixon) è una forma apparentemente invisibile, benché i suoi effetti si producano tanto sugli esseri umani, in prospettiva intragenerazionale e intergenerazionale, quanto sulla natura. Esempi ne sono il cambiamento climatico, lo scongelamento del permafrost, l’acidificazione degli oceani, la deforestazione, l’innalzamento dei mari, l’utilizzo di pesticidi, l’utilizzo di sostanze come il mercurio (si veda la malattia di Minamata). Ad esempio, in Kiribati, inondazioni di acqua marina hanno inquinato i pozzi, limitando l’accesso delle donne residenti in aree rurali all’acqua, ma anche alla legna da ardere necessaria per preparare il cibo e alle piante medicinali. La violenza lenta può sfociare in un disastro ambientale – e probabilmente tutti gli esempi citati sfoceranno prima o poi, nel breve, medio, lungo, lunghissimo termine, in un disastro di grandi proporzioni – ma la sua particolarità è quella di prodursi gradualmente e, proprio per questo, essere poco e male considerata, anche sul piano giuridico, bloccati nella “trappola” del presente o quantomeno dell’imminente. Nel progetto GenREm abbiamo utilizzato il termine “emergenze croniche ambientali”, che deriva dall’idea innovativa di violenza lenta ed elabora ulteriormente il concetto di eventi a lenta insorgenza elaborato a livello di Nazioni Unite per  apprezzare le vulnerabilità situazionali e l’impatto sproporzionato di queste emergenze su donne e ragazze, specialmente di coloro che si pongono all’intersezione di diverse forme di discriminazione. L’aggettivo cronico dà l’idea di qualcosa di radicato, spesso silenzioso e sicuramente invisibile, ma che ha un impatto sulle donne, sull’ambiente, sulle generazioni presenti e future, sia umane che non umane (al tema è dedicato il volume S. De Vido, D. Russo, E. Tramontana (eds), Gendering international legal responses to chronic emergencies, di prossima uscita per Elgar). La riflessione su alcune forme di violenza lenta comincia gradualmente a vedersi nel lavoro di organismi delle Nazioni Unite. Così, la Commissione delle Nazioni Unite sullo status delle donne, nella sua sessantaseiesima sessione dal 14 al 25 marzo 2022, ha identificato il suo tema prioritario in Achieving gender equality and the empowerment of all women and girls in the context of climate change, environmental and disaster risk reduction policies and programmes. Nelle conclusioni del 29 marzo 2022, la Commissione ha confermato l’impatto sproporzionato del cambiamento climatico, del degrado ambientale e dei disastri sulle donne, le quali sono maggiormente esposte a rischi e alla perdita dei mezzi di sussistenza, ma ha altresì evidenziato l’importanza di riconoscere il ruolo delle donne come agenti del cambiamento (agency). Qualche mese più tardi, nel luglio 2022, la Special Rapporteur sulla violenza contro le donne, le sue cause e conseguenze, Reem Alsalem, ha pubblicato un rapporto sulla violenza contro le donne nel contesto della crisi climatica, incluso il degrado ambientale e la relativa risposta e mitigazione del correlato rischio di disastro. Già nel titolo emerge, più chiaramente rispetto alla Raccomandazione CEDAW che si limitava ad estendere le medesime osservazioni svolte con riguardo al cambiamento climatico a forme di degrado ambientale, la correlazione tra cambiamento climatico ed altre forme di emergenza ambientale cronica. La Special Rapporteur ha, infatti, osservato che “the combined impacts of sudden-onset natural disasters and slow-onset events, environmental degradation and forced displacement seriously affect women’s and girls’ rights to life, access to food and nutrition, safe drinking water and sanitation, education and training, adequate housing, land, decent work and labour protection”.

4. L’intersezione: perché il corpo delle donne. E della relazione tra corpo e territorio

Sul corpo delle donne si vedono gli effetti della violenza strutturale, una violenza che non è solo determinata dal persistente inquinamento e dalle forme di emergenza ambientale cronica che si è detto, ma anche da schemi strutturali di potere che pongono le donne in posizione subordinata. L’antropologa argentina Rita Segato ha parlato di violenza politica sul corpo delle donne, riferendosi al caso Ciudad Juarez, al confine tra Messico e Stati Uniti, luogo della globalizzazione economica e del neoliberalismo che è stato teatro di efferate violenze e uccisioni di donne in quanto donne. Sono crimini che Segato descrive come esibizione di un dominio discrezionale sulla vita e sulla morte di un territorio al limite, un dominio che è rappresentato ed iscritto nel corpo delle donne. La violenza contro il corpo delle donne è espressione di dominio: “en el feminicidio la misoginia por detrás del acto es un sentimiento más próximo al de los cazadores por su trofeo: se parece al desprecio por su vida o a la convicción de que el único valor de esa vida radica en su disponibilidad para la apropiación” (Segato).  Il legame con il territorio è cruciale nell’analisi di Segato; nel caso specifico un territorio di confine, dove la violenza è ‘vivente’ e tollerata dalle istituzioni. 

Le donne, specialmente coloro che si trovano all’intersezione di diversi motivi di discriminazione – donne di colore, donne sfollate, donne indigene, donne appartenenti a minoranze, donne a basso reddito, donne con disabilità, ragazze, ecc. – sono particolarmente colpite dalla contaminazione e dal degrado ecologico, che riflette l’oppressione di una parte dell’umanità sulla natura. Così, ad esempio, in Colombia, la coltivazione dei fiori, un lavoro prevalentemente femminile svolto in aree a basso reddito, determina un impatto sproporzionato sulle donne, che sono esposte ai pesticidi e a condizioni di lavoro molto difficili (Flórez et al). La produzione di fiori, celebrata come un’opportunità di impiego per le donne, ha cambiato la terra e i corpi delle donne: i loro corpi sono avvelenati, feriti e silenziosi. La posizione mantenuta per molte ore e i prodotti chimici incidono negativamente sui cicli corporei delle mestruazioni e della gravidanza. Come è stato argomentato: 

La produzione di corpi avvelenati, malati e silenziosi configura una corporeità femminile alienata, un’esperienza di corpi apparentemente senza dolore e un’esperienza lavorativa in cui il dolore è inevitabile. Dal punto di vista indigeno, si potrebbe dire che il dolore che le lavoratrici dell’agroindustria dei fiori sentono è un’espressione del dolore della terra; e la corporeità alienata è un’espressione dell’alienazione del territorio (della loro biodiversità e delle fonti d’acqua) da parte del settore dei fiori (Flórez et al).

In Ecuador, l’interconnessione tra sfruttamento della natura e sfruttamento delle donne è legata alla pesca dei gamberi. Le donne Concheras, di discendenza africana, sono soggette a discriminazione perché sono donne, a causa della loro etnia, ma anche a causa dell’esaurimento delle risorse ecologiche che sono alla base dei loro mezzi di sussistenza. Come è stato sottolineato, “una lente ecofemminista mette a fuoco come il potere del patriarcato capitalista anglo-europeo suprematista bianco operi per emarginare simultaneamente donne e natura” (Mallory). Diversi studi testimoniano che le donne affrontano ulteriori vulnerabilità legate al clima e che le donne appartenenti ad un gruppo etnico minoritario sono doppiamente svantaggiate. Si deve tuttavia osservare come vi sia poca ricerca sull’identità di genere e l’orientamento sessuale quale motivo di ulteriore discriminazione per le donne rispetto a ciò che chiamiamo “emergenze croniche ambientali”: “l’omofobia si infiltra nel discorso sul cambiamento climatico, distorcendo la nostra analisi delle cause del cambiamento climatico e delle soluzioni di giustizia climatica, e mettendo un cuneo tra gli attivisti internazionali” (Gaard).

Anche l’estrattivismo può essere ritenuto un’emergenza cronica ambientale, perché, pur essendo presentato spesso come una opportunità occupazionale ed economica, gradualmente corrode i corpi e causa violazioni dei diritti umani fondamentali. In America Latina, le storie coloniali e postcoloniali sono state, e continuano a essere, fondamentali nel plasmare e perpetuare le disuguaglianze che sono prodotte attraverso queste attività.

A tale riguardo, pensatrici femministe decoloniali latinoamericane partono dall’osservazione di come il capitalismo estrattivista sia un modello di sviluppo che contribuisce ad acuire pratiche coloniali che sono allo stesso tempo di genere, classiste e razziste (Boudewijn e Jenkins). L’ecofemminismo ha dato voce alle donne organizzate collettivamente per contestare l’estrazione su larga scala delle risorse e dei suoi impatti, enfatizzando le molteplici forme di violenza da loro vissute dalle donne nelle cosiddette zonas de sacrificio (Bolados García e Sánchez Cuevas). Rodríguez Aguilera (2021), nel suo lavoro sul razzismo ambientale di genere a Oaxaca, in Messico, ha chiesto alle donne intervistate cosa avessero provato “quando vedevano le lagune morire lentamente” e la loro risposta oscillava tra la tristezza, nel vedere la laguna morire progressivamente davanti ai loro occhi, e la rabbia nei confronti del governo che non aveva fatto nulla per risolvere la situazione. La relazione corpo-territorio può essere concettualmente definita “come la relazione ontologica inseparabile tra corpo e territorio: ciò che è vissuto dal corpo è simultaneamente vissuto dal territorio in una relazione di codipendenza” (Zaragocin e Caretta). In prospettiva post-coloniale, è possibile altresì riflettere sulla relazione tra corpo delle donne e accesso all’acqua pulita (Zaragocin, Caretta et al). Benché tutti i generi siano esposti alle sostanze chimiche derivanti dall’estrazione mineraria, le donne, proprio alla luce del loro ruolo sociale, possono affrontare livelli più elevati di esposizione a tossine pericolose per il contatto con la terra, l’acqua e le colture (Boudewijn e Jenkins). Spostandoci ad altri continenti, un caso di emergenza cronica ambientale, che viene affrontato nel progetto GenREm, è quello dell’inquinamento da mercurio di Minamata, dove il collegamento tra acqua-territorio-salute riproduttiva delle donne si è manifestato intrecciandosi con schemi di discriminazione e sfruttamento già presenti ed ulteriormente esacerbati dall’attività di una impresa. 

5. La risposta giuridica e di come traduciamo giuridicamente questo embodiement: il corpo delle donne che “assorbe” le emergenze croniche ambientali

Il concetto di embodiment, sviluppato da geografe femministe, riconosce il corpo come parte della produzione di conoscenza. Ci si deve chiedere cosa comporti giuridicamente questo embodiement, che fa emergere realtà importanti ed ignorate dal diritto, in termini di obblighi in capo agli Stati e di accesso alla giustizia. Come tradurre, in altri termini, una relazione antropologica e sociologica come quella corpo/salute delle donne-territorio/stato ambientale? Sul piano giuridico, il metodo di analisi che guida il progetto GenREm è l’ecofemminismo, un pensiero, che pur con molteplici sfaccettature, si è caratterizzato per la denuncia degli schemi di oppressione tra esseri umani e di una parte degli esseri umani nei confronti della natura. La descrizione dell’ecofemminismo va oltre lo scopo di questo contributo, ma è opportuno evidenziare come questo approccio sia stato sottovalutato dal giurista internazionalista. Una delle ragioni è l’accusa di essenzialismo mossa alle ecofemministe negli anni Novanta; accusa che è fondata per alcuni aspetti, ma che per altri banalizza la ricchezza di un pensiero che non ha semplicemente eguagliato le donne con la natura. Allo stesso tempo, comunque, dovrebbe essere altresì riconosciuto che né l’ecofemminismo, né l’umanesimo ambientale (environmental humanities) abbiano preso in seria considerazione la disciplina giuridica. Eppure, l’ecofemminismo ha un grande potenziale di applicazione quale metodo giuridico del diritto internazionale, perché mette in discussione categorie giuridiche monolitiche, quali quelle di disastro, corpo e territorio, e le riconsidera alla luce dell’interdipendenza tra tutte le specie (umane e non umane) e con la natura. 

Il pensiero giuridico, soprattutto del c.d. Global North, si limita spesso a riconoscere l’impatto sproporzionato di quelle che noi definiamo come emergenze croniche ambientali sulle donne e le ragazze, senza cogliere strutture discriminatorie sottostanti, incluso il post-colonialismo, e intersezionali elementi di discriminazione che dovrebbero modellare forma e contenuto delle riparazioni. A riguardo, alcuni passi avanti nel considerare la relazione tra degrado ambientale-donne-salute delle donne (anche riproduttiva) sono stati fatti dalla Corte interamericana dei diritti umani nel caso La Oroya c. Peru del 22 marzo 2024 (con commento di Boyd). Il caso riguardava un caso di emergenza cronica ambientale, ovvero l’inquinamento atmosferico provocato dall’attività di un complesso metallurgico locale, i cui effetti si erano esacerbati a causa dell’assenza di una regolamentazione e supervisione statale adeguate. In particolare, la Corte ha confermato che l’esposizione a piombo, cadmio, arsenico e diossido di zolfo ha rappresentato un rischio significativo per la salute delle vittime, le quali non hanno ricevuto un’adeguata assistenza medica dallo Stato quando si sono ammalate. Ha rilevato altresì che l’esposizione all’inquinamento ambientale ha causato gravi alterazioni nella qualità della vita delle vittime, causando sofferenze fisiche e psicologiche con maggiore effetto su bambini, donne e anziani. La Corte ha poi osservato che la presenza di piombo nel corpo può costituire un rischio per lo sviluppo del feto durante la gravidanza e che il Comitato ONU per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne ha segnalato come gli Stati debbano adottare misure efficaci per ridurre le emissioni di carbonio, il degrado del suolo, la sua contaminazione e tutti gli altri pericoli e rischi ambientali che contribuiscono al cambiamento climatico, avendo effetti negativi sproporzionati sulle donne. Merita menzione quanto evidenziato da una delle persone incaricate della perizia, Caroline Weill, la quale ha osservato che il lavoro di cura assegnato in modo diseguale alle donne è reso più pesante dall’impatto dell’inquinamento ambientale. Con riferimento ad una specifica testimonianza, Maria 16 ha dichiarato che sua madre “[si è presa cura] di loro e ha sofferto per i disturbi [suoi] e delle [sue] sorelle”. La Corte ha riportato inoltre che alcune presunte vittime hanno riferito di aver avuto problemi di fertilità e, secondo quanto dichiarato da Maria 13 all’udienza pubblica, quattro donne incinte hanno sofferto di un “profondo mal di testa” e “hanno perso i loro bambini”. Si coglie in questa analisi quanto si diceva supra sulla relazione tra corpo-territorio-degrado ambientale. Il degrado ambientale riflette ed esacerba schemi di discriminazione e si esprime nella violazione dei diritti umani delle donne, nonché materialmente sui loro corpi. La Corte interamericana ha riscontrato che il Perù avesse violato, tra gli altri, il diritto ad un ambiente sano (protetto per la Corte dall’articolo 26 della Convenzione interamericana sui diritti umani del 1969), il diritto alla vita, all’integrità personale e i diritti delle persone minori di età. 

In termini di conseguenze dell’accertata violazione della Convenzione interamericana sui diritti umani, la Corte ha riconosciuto la natura collettiva del diritto a un ambiente sano e ha sottolineato come nei casi in cui l’alta tossicità delle sostanze sia ben stabilita, lo Stato deve sviluppare e implementare leggi e politiche con un più alto standard di diligenza. Oltre alle riparazioni individuali, la Corte ha ordinato allo Stato peruviano di elaborare una diagnosi di base che stabilisca il livello di contaminazione a La Oroya (un piano d’azione entro 18 mesi con priorità per le aree a rischio maggiore per l’ambiente e la salute, elaborato con la partecipazione attiva delle vittime). Ha altresì richiesto attenzione medica specializzata per tutte le persone con sintomi e malattie legate all’esposizione alla contaminazione a La Oroya attraverso istituzioni mediche pubbliche, con un’attenzione speciale ai bambini, alle madri incinte e agli anziani. Ha poi previsto che lo Stato attui un piano di compensazione ambientale applicabile al Centro Metallurgico di La Oroya che garantisca una perdita netta zero di biodiversità, un’identificazione dell’equivalenza ecologica da un’analisi dei servizi ecosistemici e la ricerca di un’”addizionalità” nella compensazione ambientale. Alle compagnie minerarie, lo Stato deve richiedere di affrontare le conseguenze e la compensazione per i danni ambientali causati dalle loro operazioni in conformità con il principio chi inquina paga. 

È proprio in queste parole che si avverte il potere trasformativo delle riparazioni. In un’ottica ecofemminista, un approccio giuridico intersezionale “ascolta” molteplici esperienze non per produrre una “singola” e inconfutabile verità, ma per interpretare gli obblighi giuridici in capo agli Stati presenti nel (pur limitato) quadro giuridico disponibile. Un metodo ecofemminista intersezionale al diritto garantisce una giustizia ambientale che comprende i modi in cui “i sistemi di oppressione (come il razzismo, la discriminazione di genere e il degrado ambientale) sono interconnessi e si rafforzano reciprocamente”. Significa, ad esempio, che nel decidere casi di emergenze croniche ambientali dalla prospettiva del diritto dei diritti umani, gli organismi internazionali e le corti regionali dovrebbero usare l’intersezionalità per modellare obblighi positivi di diligenza e per “misurare” le riparazioni. Tornando all’esempio della Colombia, l’assistenza sanitaria occupazionale è stata ignorata dall’industria dei fiori, anche perché in molti casi gli effetti dei pesticidi si manifestano una volta che le persone si ritirano dalla vita lavorativa. Questo è precisamente ciò che intendiamo per emergenze croniche ambientali, perché gli effetti si manifestano (o meno, potendo anche rimanere latenti) dopo molti anni sia sui corpi delle donne sia sulla terra. In prospettiva ecofemminista, il classico obbligo di prevenzione, per le emergenze croniche ambientali, si compone della rilevazione dell’emergenza e della comprensione della sua natura attraverso un’analisi dei modelli sociali di oppressione; si esemplifica, ad esempio – ce lo insegna la Corte interamericana – nell’obbligo di classificare il livello di tossicità dei pesticidi che includa gli effetti sulle donne e nella previsione di forme di sostegno sensibili al genere e di lungo periodo.Come il libro legato al Progetto GenREm cercherà di dimostrare, c’è ancora molto da fare nella dottrina giuridica, e nella giurisprudenza – basti pensare all’assenza di prospettiva di genere nella sentenza della Corte europea dei diritti umani nel caso Canavacciuolo – per collegare razza, classe, disabilità, colonialismo e post-colonialismo, specialmente se con riferimento a emergenze croniche ambientali, lente ed invisibili. Un metodo ecofemminista al diritto internazionale aiuta a rileggere sentenze e decisioni, partendo dal dato normativo esistente, frutto esso stesso di un sistema giuridico patriarcale, per scardinare dicotomie quali quella privato/pubblico, natura/umanità (o meglio parte di questa) e riconcettualizzando obblighi giuridici e forme di riparazione.

*Professoressa ordinaria di diritto internazionale, Università Ca’ Foscari di Venezia.

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