Recensione di: Francesca Rescigno al bel libro di Marilisa D’Amico: Parole che separano, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2023 

I libri destinati a lasciare il segno sono più spesso fonte di interrogativi e riflessioni che non di risposte certe, e questo bel volume di Marilisa D’Amico non fa eccezione. Il filo conduttore: le parole e le loro implicazioni sul piano giuridico – sociale, sono materia fluida e in continuo mutamento che l’Autrice affronta coraggiosamente con il proposito di delimitarne quanto più possibile i confini ma anche i rapporti con i temi Costituzionali, soprattutto i diritti inviolabili e l’eguaglianza da un lato, la libertà di espressione dall’altro. 

Se infatti l’espressione linguistica è innanzitutto una convenzione, funzionalmente indispensabile alla socialità, un suo utilizzo distorto può condurre a conseguenze anche disastrose, e le parole, destinate in origine a facilitare la comprensione reciproca, si fanno armi – parole che separano, appunto, o anche, in quanto strumenti di offesa, escludono, discriminano. 

Lingua e linguaggio, come emerge in più punti del volume, soffrono per definizione di un’antinomia che li vede specchi dell’esistente (“nomina sunt consequentia rerum”) e, allo stesso tempo, veicoli di trasformazione e di cambiamento (“nomina sunt omina”). Quando poi l’espressione linguistica diviene strumento per costringere la realtà di fatto e orientarla a proprio vantaggio, allora, come ben delineato nel primo capitolo di quest’opera, si ha il linguaggio dei regimi totalitari, che, ridotto ad enunciazione di slogan, pretende di ingabbiare il pensiero riducendolo a passivo contenitore delle idee “ufficiali”. Lo sforzo di chi ha elaborato la Carta costituzionale fu, all’opposto, quello di ripristinare un linguaggio inclusivo e rispettoso delle diversità. Apparentemente semplice, il linguaggio della Costituzione è in realtà frutto di una raffinata mediazione fra le diverse istanze che esso era chiamato a sintetizzare, e, pur con i limiti del proprio tempo, si ripropone oggi come modello linguistico antidiscriminatorio (è stato detto: “la costituzione non odia”). 

Tutto risolto, quindi? Purtroppo no, poiché anche il linguaggio della democrazia può presentare al proprio interno forme di “discriminazione invisibile”, come le definisce l’Autrice, tanto più insidiose e difficili da eliminare in quanto connaturate alla natura stessa del linguaggio democratico, per definizione frutto di libera scelta e non di un’imposizione autoritaria che ne sancisca la validità. La terminologia sessista, che ancora pervade, consapevolmente o meno, larga parte della nostra sfera comunicativa pubblica e privata, ne è forse il più chiaro esempio. Ma vi è di più, dal momento che la discriminazione non riguarda solo il linguaggio scritto bensì anche quello visuale in senso lato: un capitolo del volume è appunto dedicato alle forme sessiste di pubblicità televisive e, più in generale, all’uso improprio dell’immagine. 

La discriminazione linguistica assume poi la sua forma più intenzionale ed esplicita nel cosiddetto “linguaggio d’odio”, forma altrettanto detestabile di svalutazione ed esclusione del diverso da sé, che spesso si concretizza nell’attacco a bersagli “deboli” la cui necessità di tutela da parte della Repubblica rimanda inevitabilmente all’Art.3 Cost. Qui D’Amico affronta, da giurista di alto profilo, la questione relativa alla difesa della libertà di espressione del pensiero tutelata dall’Art. 21. Risulta tuttavia subito evidente come le forme di linguaggio dell’odio si pongano di per sé al di fuori del “libero pensiero” in quanto minacciano i diritti fondamentali della persona, tra cui anzitutto l’onore e la reputazione. Ciò è stato ben chiarito dalla giurisprudenza costituzionale, per cui il problema non è tanto quello di consentire tali forme di espressione deteriore, ma semmai accertare quali siano gli strumenti migliori e più efficaci per impedirle. A tale riguardo l’attuale apparato sanzionatorio, oltre che lacunoso, si traduce soprattutto in una dichiarazione di impotenza dello Stato democratico e rimanda alla possibilità (non sempre così teorica) di venire utilizzato a fini repressivi in situazioni nelle quali la democrazia dovesse essere minacciata. Così l’Autrice: “Una democrazia presidiata dal diritto penale…mostra la propria fragilità proprio nei momenti di crisi, nei momenti di trasformazione, dove la tentazione di difendersi dal dissenso potrebbe riemergere, utilizzando quelle stesse norme, nate in contesti non democratici, con la funzione di limitare o sopprimere la libera manifestazione del pensiero.” (pag. 38)

A corollario di quanto esposto vi è il crescente ruolo assunto dai social media e dall’intelligenza artificiale. È questo un argomento che sta a cuore all’Autrice non solo per i problemi che pone riguardo alla possibile amplificazione del linguaggio d’odio da parte degli algoritmi (non sempre controllabili), ma anche per le sue enormi potenzialità in senso correttivo. Al momento, l’immagine che D’Amico tratteggia ci rappresenta l’intelligenza artificiale come una giovane persona, “adolescente” di cui non conosciamo (o non conosciamo più) tutti i segreti, ma con la quale dobbiamo pur sempre trovare una forma efficace di interazione. Una sfida che impegnerà i ricercatori, ma anche i linguisti ed i giuristi, per gli anni a venire. 

Dove, allora, potremo trovare, se non una soluzione, almeno un punto di ripartenza? L’Autrice non ha, come si diceva all’inizio, formule magiche o ricette taumaturgiche da proporre; tuttavia, nel capitolo conclusivo, chi legge viene condotto verso una prospettiva di soluzione perfettamente coerente con le premesse: possiamo solo prevenire, e per prevenire occorre educare. Si tratta di un processo inevitabilmente lento e faticoso, ma che, unico e solo, può darci la speranza di risultati duraturi. 

Condividi questo post

guest
0 Commenti
Oldest
Newest Most Voted
Inline Feedbacks
View all comments