GUIDO RIVOSECCHI*
Sommario: 1. Autonomia regionale, risorse finanziarie e democrazia. – 2. Il modello costituzionale di autonomia finanziaria regionale. – 2.1. La scelta tra finanza autonoma o derivata. – 2.2. La distribuzione delle funzioni amministrative. – 2.3. L’esistenza o non di vincoli di destinazione sulle risorse trasferite. – 2.4. La funzione di coordinamento della finanza pubblica. – 3. La perdurante inattuazione dell’art. 119 Cost. – 4. La mancata determinazione dei livelli essenziali. – 5. I possibili rimedi: il “lato” delle spese e il “lato” delle entrate. – 6. Autonomia finanziaria regionale, principio democratico e doveri di solidarietà.
1. Autonomia regionale, risorse finanziarie e democrazia.
Il nesso tra Regioni, democrazia e finanza pubblica attraversa le norme costituzionali. Basti pensare che, senza adeguate dotazioni finanziarie, le Regioni non possono svolgere le loro funzioni e, dunque, l’entità delle risorse e il modo mediante il quale esse giungono agli enti territoriali incide sul grado di autonomia politica “effettiva”, intesa quale capacità di esprimere scelte di indirizzo.
Nell’ordinamento italiano, tra gli enti sub-statali soltanto le Regioni, in forza della loro autonomia politico-legislativa, costituiscono presidio contro ogni forma di accentramento, assicurando l’effettivo pluralismo istituzionale nell’articolazione territoriale dei pubblici poteri.
Le Regioni, soprattutto nei momenti di crisi, costituiscono elemento di bilanciamento e di garanzia rispetto all’accentramento dei poteri nel Governo, come si è visto durante la prima fase della pandemia in cui l’Esecutivo era pressoché privo di controllo parlamentare (per la difficoltà di riunire Assemblee e commissioni), ma era obbligato a “dialogare” con i Presidenti di giunta regionale perché i provvedimenti adottati dovevano trovare applicazione sui territori e ciò presupponeva, anche nell’emergenza, una forma di collaborazione tra Stato e Regioni.
A questo primo significato garantista della distribuzione territoriale del potere politico e delle risorse, si aggiunge, successivamente, in Italia a partire dalla riflessione di Carlo Esposito, una seconda direttrice che ricollega Regioni, democrazia e risorse per individuare nelle autonomie territoriali le istituzioni di «autogoverno dei governati» che «costituiscono per i cittadini esercizio, espressione, modo d’essere, garanzia di democrazia e di libertà»[1], anche in specifico riferimento alla garanzia dell’autonomia finanziaria[2].
Questa prospettiva è portata a compimento proprio dalla riforma del Titolo V del 2001 che, per riprendere le parole della Corte costituzionale, ha collocato «gli enti territoriali autonomi al fianco dello Stato come elementi costitutivi della Repubblica quasi a svelarne […] la comune derivazione dal principio democratico e dalla sovranità popolare»[3]. La legge costituzionale n. 3 del 2001 ha mutato i termini del rapporto tra unità e autonomia per effetto dell’espunzione dell’interesse nazionale e dell’introduzione del principio di sussidiarietà quale forma specifica di realizzazione del principio democratico perché esso opera come principio prescrittivo nella distribuzione delle funzioni a garanzia dell’ente di minori dimensioni, sostituendo il criterio di ispirazione centralistica degli interessi[4]. All’indomani dell’entrata in vigore del Titolo V, il punto è prontamente colto dalla giurisprudenza costituzionale nelle pronunce in cui la Corte afferma che, con l’eliminazione dell’interesse nazionale, viene meno la possibilità di attrarre funzioni allo Stato e di erodere la potestà amministrativa e legislativa delle Regioni[5].
Attraverso gli enti territoriali si può meglio avvicinare quell’ideale di “auto-normazione”, cioè del «vivere secondo le leggi che ci si è dati», che, in questo secondo significato del rapporto tra autonomie e principio democratico, risale all’antichità classica e poi alla filosofia politica di Rousseau e alla riflessione di Kelsen sul «rapporto […] tra democrazia e partecipazione dei membri dell’ordinamento alla sua creazione»[6].
Di qui la conclusione, successivamente avvalorata soprattutto dalla letteratura anglosassone nella relazione tra autonomia e impiego delle risorse, che sono preferibili processi di autogoverno nell’ambito di istituzioni territoriali perché la capacità dei singoli di incidere sui processi deliberativi pubblici è maggiore se questi si svolgono in ambiti più ristretti[7]; elemento, questo, che concorre in maniera decisiva alla realizzazione del principio democratico[8]. Da ciò segue la necessità di dotare gli enti sub-statali di adeguate risorse finanziarie per assicurare che tali processi deliberativi non siano eccessivamente dipendenti dal centro perché sarebbe altrimenti vanificata tale partecipazione.
Tutto ciò chiama immediatamente in causa il modello costituzionale di autonomia finanziaria, in quanto capace di condizionare la disponibilità delle risorse degli enti sub-statali.
2. Il modello costituzionale di autonomia finanziaria regionale.
L’art. 119 Cost., come le altre norme costituzionali sul governo dell’economia e dei conti pubblici, non accoglie una determinata teoria di finanza territoriale[9], configurando il “nostro” come un modello di finanza regionale “aperto” alle scelte del legislatore nei limiti di alcuni elementi prescrittivi, ancora largamente inattuati.
In primo luogo, le prescrizioni costituzionali affermano l’esigenza di assicurare una certa autonomia di entrata e non solo di spesa poiché l’art. 119, secondo comma, Cost. si riferisce espressamente a «risorse autonome» e a «tributi ed entrate propri» degli enti.
In secondo luogo, occorre assicurare a tutti gli enti l’applicazione del principio di corrispondenza tra funzioni e risorse distribuite ai diversi livelli territoriali di governo, in base al quale le risorse ordinarie degli enti – derivanti da tributi propri, compartecipazioni al gettito di tributi erariali e fondo perequativo – debbono consentire di «finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite» (art. 119, quarto comma, Cost.); funzioni che, in virtù del principio di sussidiarietà (art. 118 Cost.), non possono dipendere dalla “inadeguatezza” delle risorse finanziarie a disposizione delle Regioni, dovendo, invece, essere distribuite in via preventiva e a prescindere dai profili finanziari. In base alle funzioni effettivamente attribuite alle Regioni ex art. 118 Cost. sarà successivamente necessario quantificare le risorse alle stesse spettanti per l’efficace svolgimento delle funzioni preventivamente distribuite[10]. Il principio di corrispondenza tra funzioni e risorse, in uno con quello di sussidiarietà, che deve governare integralmente l’allocazione delle funzioni, è da intendersi come principio di portata generale, precettiva e costituzionalmente necessaria, secondo quanto ripetutamente affermato dalla giurisprudenza costituzionale[11].
Infine, occorre rammentare la necessità di ottemperare agli obblighi costituzionali di perequazione (art. 119, terzo comma, Cost.), rivolti ad attenuare le asperità fiscali e i divari territoriali e ad adempiere ai doveri costituzionali di solidarietà per garantire l’eguaglianza dei diritti costituzionali.
Pur con questi vincoli posti dall’art. 119 Cost., il grado di autonomia finanziaria dipende da alcune variabili, in sé ben note, dal combinarsi delle quali si desume il tasso di autonomia o di accentramento del sistema e la conseguente capacità degli enti sub-statali di concorrere alla realizzazione del principio democratico.
2.1. La scelta tra finanza autonoma o derivata.
La prima variabile generale che incide sul livello di autonomia e sulla conseguente identificazione delle funzioni regionali è rappresentata dalla scelta di un sistema di finanza autonoma o derivata: l’una si basa prevalentemente su entrate proprie, con la conseguenza che la capacità di spesa dipende dall’attitudine a produrre gettito fiscale della comunità locale; l’altra su trasferimenti dal centro. Sono poi diffusi modelli ibridi, basati sulla combinazione dei due istituti o su entrate condivise mediante il sistema delle compartecipazioni territoriali al gettito di tributi erariali. Tali regole sono riconducibili al coordinamento della finanza pubblica inteso in senso statico[12], che è rivolto a ordinare le relazioni finanziarie tra Stato e Regioni mediante la predeterminazione degli ambiti di entrata e di spesa che sorreggono l’articolazione verticale del potere politico rispetto all’esercizio delle funzioni. A tali fini non è indifferente la scelta del modello di finanza – autonoma o derivata – a partire dalla definizione delle basi imponibili, delle compartecipazioni e dei tributi scelti per il finanziamento delle funzioni. Tali opzioni condizionano il margine di identificazione delle funzioni (e la conseguente determinazione della quantità e della qualità dei servizi): la finanza autonoma in favore degli enti decentrati, quella derivata prevalentemente in favore dello Stato[13].
Nella realtà degli ordinamenti odierni, vengono solitamente adottati modelli ibridi. La scelta di un punto di mediazione tra finanza derivata e finanza autonoma concorre a conformare l’autonomia politica degli enti sub-statali. Ciò condiziona le modalità di esercizio della funzione legislativa regionale e il grado di articolazione dei poteri pubblici preposti allo svolgimento delle funzioni e alla realizzazione delle scelte di indirizzo in maniera più o meno rispondente al criterio di prossimità in favore dell’ente di minori dimensioni e al principio democratico.
2.2. La distribuzione delle funzioni amministrative.
La seconda variabile dell’autonomia finanziaria è data dalla disciplina legislativa delle funzioni amministrative da parte statale e regionale[14]. Negli ordinamenti composti alla distribuzione delle competenze e delle funzioni, generalmente fissata in Costituzione, non sempre segue la coerente assegnazione delle risorse. La limitazione dell’autofinanziamento regionale e la prevalenza di trasferimenti erariali rendono gli enti sub-statali, pur autonomi nell’impiego dei fondi, dipendenti dal centro, con l’effetto di produrre spesso la dissociazione tra potere impositivo e potere di spesa, e appannare la responsabilità finanziaria dei diversi livelli territoriali di governo, rovesciando il necessario parallelismo tra rappresentanza e tassazione[15].
Nell’ordinamento italiano, il principio di sussidiarietà e la necessaria connessione tra funzioni e risorse, rispettivamente costituzionalizzati dagli artt. 118 e 119, quarto comma, Cost., si esplicano su due versanti: a) i criteri di allocazione delle funzioni implicano che esse siano distribuite tra i vari livelli di governo in via preventiva rispetto alla distribuzione delle risorse; b) a tale distribuzione delle funzioni deve seguire l’adeguato finanziamento.
2.3. L’esistenza o non di vincoli di destinazione sulle risorse trasferite.
Alla scelta per un sistema derivato di finanza territoriale e alla distribuzione delle funzioni si aggiungono altre due variabili che influiscono sul grado di autonomia e sulla conseguente capacità di concorrere alla realizzazione del principio democratico: la sussistenza o non di trasferimenti erariali con vincolo di destinazione e la richiamata funzione di coordinamento finanziario.
Nell’ordinamento regionale italiano, storicamente caratterizzato da un modello di finanza derivata, la transizione a un sistema in cui i finanziamenti statali sono limitati a finalità perequative o all’erogazione di risorse aggiuntive rispetto al normale esercizio delle funzioni – fermo restando che si tratta di istituti fondamentali nella realizzazione dell’eguaglianza sostanziale –, rappresenta una variabile particolarmente incisiva ai fini dell’effettiva garanzia di autonomia che assiste le Regioni nel realizzare proprie politiche e scelte di indirizzo, inverando il principio democratico.
Non è certamente un caso che, all’indomani dell’entrata in vigore del Titolo V, la giurisprudenza costituzionale abbia affermato che, in virtù di limiti immediatamente desumibili dall’art. 119 Cost., al di fuori degli interventi straordinari previsti dal quinto comma, non è consentito al legislatore statale prevedere finanziamenti di scopo riconducibili a materie di competenza regionale[16], né istituire fondi settoriali di finanziamento delle attività degli enti autonomi[17], poiché ciò si risolverebbe in strumento di ingerenza dello Stato nell’esercizio delle loro funzioni e di sovrapposizione di indirizzi governati centralmente a quelli decisi dalle Regioni[18].
Successivamente, la Corte ha limitato le pronunce di accoglimento alla parte in cui le norme statali, pur istituendo vincoli di scopo, non prevedevano alcuna partecipazione delle Regioni all’adozione dei decreti ministeriali di riparto dei fondi, “imponendo” l’intesa in Conferenza ai fini delle scelte circa l’effettivo trasferimento delle risorse[19]. L’orientamento richiamato sembra ormai segnare il punto del massimo sindacato a cui si può spingere la Corte (rispetto alle più incisive pronunce originarie), se soltanto si pensa che le stesse Regioni, nei più recenti giudizi di legittimità costituzionale, si limitano a richiedere l’introduzione di un istituto di leale collaborazione in Conferenza ai fini del riparto dei fondi, anziché richiedere una pronuncia “caducatoria” delle leggi istitutive dei fondi stessi in materia di loro competenza legislativa.
Tali orientamenti della giurisprudenza costituzionale confermano che non è soltanto il carattere derivato della finanza territoriale a limitare l’autonomia politica degli enti, ma anche la previsione di vincoli di destinazione nell’impiego delle risorse trasferite rispetto alla possibilità di realizzare autonome scelte di indirizzo.
Alla stregua di quanto detto, dallo studio della più recente giurisprudenza costituzionale risulta che, salvo il caso del trasporto pubblico locale, norme statali istitutive di fondi a destinazione vincolata in linea generale non possono ritenersi conformi a Costituzione, con le seguenti eccezioni: a) chiamata in sussidiarietà; b) concorrenza di competenze; c) fondi rivolti a garantire «interventi speciali» e «risorse aggiuntive» ai sensi dell’art. 119, quinto comma, Cost.
2.4. La funzione di coordinamento della finanza pubblica.
L’ulteriore variabile di cui tenere conto per misurare il grado di autonomia regionale è rappresentata dalla funzione di coordinamento finanziario, qui intesa in senso dinamico, quale insieme di istituti che consentono di rimodulare periodicamente l’apporto delle autonomie territoriali al conseguimento degli obiettivi di governo dei conti pubblici. È evidente, infatti, che quanto più intensa e penetrante è la funzione di coordinamento, tanto meno autonoma è la finanza.
Al passaggio da una finanza quasi esclusivamente derivata ad un modello parzialmente compartecipato, corrisponde, già nel corso degli anni Novanta del secolo scorso, l’esigenza di rafforzare il coordinamento finanziario.
Nel corso degli anni, la Corte costituzionale ha riconosciuto allo Stato la possibilità di comprimere in maniera sempre più penetrante l’autonomia politica delle Regioni[20], tanto più per effetto della legge costituzionale n. 1 del 2012, soprattutto per il comma premesso all’art. 97 Cost., che richiama il complesso delle pubbliche amministrazioni (dunque, anche quelle regionali) ad assicurare l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico, e per la competenza speciale ed esclusiva, riservata alla legge rinforzata di attuazione della riforma, di dettare le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare tali obiettivi[21], resi progressivamente opponibili anche alle autonomie speciali[22].
Le variabili richiamate sono sempre state integralmente governate dal legislatore statale e nel corso della storia del regionalismo italiano la loro combinazione non ha favorito l’autonomia.
3. La perdurante inattuazione dell’art. 119 Cost.
La combinazione delle variabili richiamate nel caso italiano delinea un assetto della finanza territoriale ancora in larga parte di carattere derivato, nonostante le prescrizioni costituzionali del rinnovato art. 119 Cost. che rafforza l’autonomia finanziaria al fine di superare le contraddizioni originarie del regionalismo italiano. Al primo tentativo di realizzare il disegno costituzionale di autonomia corrispondeva infatti l’istituzione di un modello di finanza regionale basato unicamente su trasferimenti erariali. Esso affonda le radici nella riforma tributaria dell’inizio degli anni Settanta (legge n. 825 del 1971 e decreti legislativi conseguenti), caratterizzata da un’accentuata centralizzazione delle imposte e del prelievo.
Come allora osservato tempestivamente da Livio Paladin, il sostegno finanziario alle Regioni e agli enti locali era conseguentemente affidato a un duplice sistema di trasferimenti statali, mentre le entrate proprie degli enti sub-statali venivano confinate a una dimensione irrilevante[23]. Pertanto, proprio nella fase in cui il legislatore procedeva all’attuazione del disegno autonomistico (1970-72), il finanziamento delle funzioni delle autonomie territoriali e la conseguente possibilità di realizzare politiche di autogoverno veniva a dipendere integralmente dai trasferimenti erariali, soprattutto nel quadro dell’originario art. 119 Cost., che riservava la disciplina delle forme e dei limiti dell’autonomia finanziaria alle leggi della Repubblica.
Anche quando, dopo la riforma del Titolo V del 2001, sono state incrementate le compartecipazioni e – in misura minore – i tributi propri, i caratteri originari della finanza regionale hanno costantemente condizionato in senso restrittivo il margine di autoidentificazione delle funzioni degli enti sub-statali, subordinandolo all’individuazione delle risorse e quindi rimettendolo al modello eteronomo di finanziamento delle scelte di indirizzo[24]. Nonostante la costituzionalizzazione del principio di sussidiarietà, le funzioni sono ancora in larga parte affidate all’amministrazione centrale e, quindi, come si è detto, il principio di corrispondenza tra funzioni e risorse non è mai stato misurato partendo dal riordino dell’amministrazione centrale e le risorse sono state trasferite senza tenere conto dell’effettivo assetto delle funzioni.
Tutto ciò, ora come in origine, rende le Regioni dipendenti dai trasferimenti erariali, limita l’autoidentificazione delle funzioni e l’autonomia politico-legislativa e produce la dissociazione tra potere impositivo e potere di spesa, rovesciando il parallelismo tra rappresentanza e tassazione, con il rischio di attenuare il nesso tra autonomie e principio democratico[25].
4. La mancata determinazione dei livelli essenziali.
A tali difficoltà nella stabilizzazione delle relazioni finanziarie tra Stato e Regioni, indispensabile, invece, a consentire agli enti sub-statali di concorrere alla realizzazione del principio democratico, si aggiungono ulteriori problemi dovuti alla perdurante inattuazione di alcuni istituti fondamentali del Titolo V Cost., indispensabili, invece, ad assicurare il rendimento del sistema policentrico.
Basti pensare alla questione della determinazione dei livelli essenziali, la cui mancanza rischia di pregiudicare la garanzia dei diritti e la certezza e la proporzionalità delle risorse da assegnare alle Regioni. Occorre anzitutto ricordare che, all’indomani dell’entrata in vigore del Titolo V del 2001, il legislatore statale non ha pienamente colto la portata innovativa del titolo di competenza in parola, come invece sostenuto da una vastissima letteratura che qui può essere soltanto cennata. Infatti, esso, lungi dal costituire – come avrebbe dovuto – il parametro al quale conformare la condizione del beneficiario dei diritti rispetto alla media degli altri cittadini ed esprimere così il legame sociale che dà vita alla cittadinanza[26], o lo strumento di contemperamento della «spinta egualitaristico-redistributiva» con la «naturale tendenza alla differenziazione dei sistemi autonomistici»[27], o, ancora, la «chiave di volta del sistema di attuazione dei diritti fondamentali»[28], è stato invece prevalentemente utilizzato dal legislatore per indicare, peraltro in modo disorganico e frammentato, l’elenco delle prestazioni da erogare in maniera uniforme sul territorio nazionale e le misure strumentali a garantirne l’esigibilità[29].
Poiché l’art. 117, secondo comma, lett. m), Cost. si riferisce a prestazioni che, per competenza, devono essere erogate anche dalle Regioni, la determinazione dei livelli essenziali finisce per incidere sui principali comparti di spesa dei bilanci regionali, e condiziona il finanziamento delle prestazioni, nel senso che, una volta fissati i livelli, al di sotto di essi non è consentito scendere nell’erogazione dei servizi e nello stanziamento delle relative risorse. I livelli essenziali, quindi, una volta determinati, costituiscono garanzia dell’eguaglianza dei diritti, indicando la soglia di prestazioni il cui finanziamento diviene costituzionalmente necessario. La loro determinazione, pertanto, deve essere assistita da moduli di leale collaborazione tra Stato e Regioni, come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza costituzionale[30], poiché occorre valutare le risorse disponibili tra centro e periferia al fine di assicurare la contestualità del finanziamento[31]. D’altro canto, l’individuazione dei livelli essenziali conforma le relazioni tra i poteri rispetto a valori costituzionali “unificanti” e costituisce una duplice garanzia per i beneficiari dei diritti. In primo luogo, essa indica il grado di tutela che si traduce in prestazioni misurabili e, quindi, esigibili (e conseguentemente azionabili davanti al giudice), tanto più significativo nei periodi di crisi[32]. In secondo luogo, tale determinazione fornisce il punto di riferimento per le modalità di organizzazione e il finanziamento delle prestazioni che lo Stato deve assicurare anche nelle fasi avverse del ciclo economico, ancor più rilevante alla stregua della perdurante inattuazione dell’art. 119 Cost. e dell’incompiuto adempimento degli obblighi costituzionali di perequazione. Ne consegue che la determinazione dei livelli essenziali costituisce il punto di riferimento per il finanziamento delle funzioni regionali, appunto a garanzia della spesa costituzionalmente necessaria, come ripetutamente affermato anche dalla giurisprudenza costituzionale[33].
La capacità di erogare i livelli essenziali è diventato il parametro su cui misurare: a) quanto alle leggi statali, a seconda dei vari periodi presi in esame, la ragionevolezza dei “tagli lineari” dei finanziamenti o delle norme di c.d. auto-coordinamento (con le quali viene talvolta rimesso alle Regioni, in sede di intesa in Conferenza, il riparto degli oneri annuali conseguenti alla riduzione della spesa complessiva unilateralmente fissata dallo Stato)[34]; o, ancora, dei vincoli imposti dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (d’ora in poi: PNRR) sull’impiego delle risorse rispetto agli obiettivi prefissati; b) quanto alle leggi regionali, la proporzionalità e la ragionevolezza delle scelte allocative delle Regioni a tutela del diritto alla salute, individuando i livelli stessi il limite oltre il quale non può essere compressa la spesa costituzionalmente necessaria al soddisfacimento del diritto[35]. Ciò dimostra che, una volta determinati tali livelli, le risorse necessarie al finanziamento delle relative prestazioni devono ritenersi costituzionalmente vincolate, in quanto legate alla soglia di esigibilità del diritto da garantire in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale.
In sintesi, la determinazione dei livelli essenziali è atto di indirizzo politico, nel senso che il livello essenziale è distinto dal nucleo incomprimibile del diritto ed indica l’elenco delle prestazioni da erogare in maniera uniforme sul territorio nazionale[36]. Una volta individuato, però, il finanziamento delle prestazioni incluse nel livello essenziale deve ritenersi costituzionalmente vincolato, e il potere centrale non può privare le Regioni delle risorse necessarie a meno di pregiudicare la soglia di eguaglianza che, invece, il legislatore ha scelto di garantire[37].
Ben lontano dal costituire uno strumento di riduzione dei divari territoriali (per i quali servirebbero piuttosto scelte di politica economica assunte a livello centrale), la determinazione dei livelli essenziali, in una prospettiva giuridico-costituzionale, costituisce uno dei pochi presidi nella disponibilità delle Regioni per ottenere risorse “certe” e dimostrare, quando occorre anche nel giudizio costituzionale, che lo Stato non assicura il principio di corrispondenza tra funzioni e risorse e non garantisce alle Regioni risorse adeguate alla realizzazione di autonome scelte di indirizzo[38].
Al riguardo, deve essere ricordato il decisivo contributo della giurisprudenza costituzionale che ha sviluppato soluzioni e strategie argomentative volte a garantire non soltanto, come già eravamo abituati, il principio collaborativo nelle relazioni finanziarie tra Stato e Regioni, ma, in un contesto di finanza ancora derivata, anche la stabilità delle relazioni finanziarie, affermando: a) che nelle fasi di crisi la riduzione dei finanziamenti regionali deve essere di carattere transitorio e temporaneo e comunque idonea ad assicurare il finanziamento dei livelli essenziali[39]; b) che le scelte sul finanziamento regionale devono essere effettuate nell’ambito di un trasparente confronto tra Governo e Parlamento affinché vi sia una piena consapevolezza e assunzione di responsabilità almeno rispetto alla garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni[40]; c) che le leggi di bilancio, statali e regionali, devono assicurare la trasparenza e la correttezza nell’impiego dei fondi a garanzia della responsabilità politica e del principio democratico[41].
Da quest’ultimo punto di vista, la giurisprudenza costituzionale ha edificato una vera e propria dottrina sulla trasparenza delle decisioni finanziarie e sul bilancio come «bene pubblico» che, mediante il sistema dei saldi e il controllo/accertamento della Corte dei conti, consente di «sintetizzare e rendere certe le scelte» allocative[42]. In questa prospettiva, il principio di rendicontazione dell’impiego delle risorse regionali si collega al circuito democratico-rappresentativo, essendo strumentale al principio della responsabilità politica e alla responsabilità di mandato. I rendiconti (e il relativo giudizio di parificazione), attribuendo certezza giuridica ai conti e assicurando trasparenza e veridicità delle scritture contabili, consentono di verificare come sono state utilizzate le risorse rispetto ai programmi e agli impegni assunti dagli amministratori pubblici[43].
5. I possibili rimedi: il “lato” delle spese e il “lato” delle entrate.
In questo contesto, al fine di rinsaldare il nesso tra autonomia regionale, impiego delle risorse e principio democratico, occorrerebbe anzitutto verificare gli orientamenti della legislazione finanziaria statale per saggiarne la loro compatibilità con l’art. 119 Cost.
Distinguendo “lato” delle spese e “lato” delle entrate degli enti sub-statali, quanto al primo occorre anzitutto ricordare che, specie dagli anni della c.d. legislazione della crisi (2011-2014), il coordinamento della finanza pubblica e l’armonizzazione dei bilanci hanno impresso una forza accentratrice al riparto di competenze consentendo l’interferenza statale con qualsiasi titolo di competenza regionale. Il coordinamento finanziario può ormai esplicarsi mediante la predisposizione di vere e proprie limitazioni frapposte allo svolgimento dell’autonomia, allorché si tratti di determinare il bilancio degli enti territoriali: nel suo complesso, nel rapporto tra entrate e spese, nelle singole voci che lo compongono e nelle riduzioni di spesa annualmente commisurate rispetto all’esercizio finanziario precedente, imposte da norme statali sempre più puntuali e dettagliate[44]. Sicché, pur affermando che gli effetti “emergenziali” delle crisi non possono determinare l’alterazione dell’ordine costituzionale delle competenze[45], anche la giurisprudenza costituzionale ha favorito la progressiva espansione del coordinamento finanziario, imponendo forti limitazioni di spesa degli enti sub-statali[46].
Tali orientamenti, spesso tradottisi in veri e propri “tagli lineari” che perseguono finalità opposte al miglioramento delle priorità allocative (c.d. spending review), hanno finito per imporre consistenti riduzioni della spesa per sanità e servizi; sicché il deflagrare della crisi pandemica ha colto le Regioni impreparate sul piano dell’organizzazione e della provvista finanziaria.
In questo contesto, a meno di non vanificare le prescrizioni costituzionali sull’autonomia finanziaria, occorrerebbe anzitutto saggiare gli orientamenti della legislazione finanziaria statale con riguardo alla loro compatibilità con l’art. 119 Cost.
Sul lato della spesa, una prima linea di intervento potrebbe essere quella di innalzare il livello di generalità dei principi del coordinamento finanziario, recuperando gli originari orientamenti della giurisprudenza costituzionale[47] e affidando così alla legislazione statale il compiuto di fissare limiti riferibili a macro-grandezze di finanza pubblica capaci, cioè, di assicurare la partecipazione delle autonomie al conseguimento degli obiettivi senza però imporre dettagliati vincoli alle singole voci di bilancio degli enti. Tale orientamento potrebbe rivelarsi utile anche la prospettiva di un maggior coinvolgimento delle Regioni nella fase di attuazione del PNRR.
Una seconda direttrice dovrebbe riguardare la verifica della sussistenza di fondi statali con vincolo di destinazione in materie di potestà legislativa regionale al fine di comprendere sino a che punto risorse trasferite a destinazione vincolata (ad esempio per politiche sociali o sanitarie) possano ritenersi compatibili con i principi costituzionali sull’autonomia finanziaria.
Negli ultimi anni, come si accennava, la giurisprudenza costituzionale appare meno rigorosa rispetto agli orientamenti assunti all’indomani dell’entrata in vigore del Titolo V (e quindi maggiormente incline a riconoscere deroghe al divieto di istituire fondi vincolati), ma il principio dell’incompatibilità dell’autonomia finanziaria con i fondi statali vincolati andrebbe comunque valutato alla stregua di un’analisi della vigente legislazione finanziaria statale, anche alla luce delle possibili interferenze con le risorse messe a disposizione in determinati ambiti materiali dal PNRR, come dimostra la tendenza in atto nella decretazione d’urgenza quanto all’organizzazione della c.d. Cabina di regia e ai procedimenti di impiego delle risorse di derivazione europea che vedono un coinvolgimento non sempre adeguato degli enti sub-statali e del sistema delle Conferenze. Infatti, lungi dal costruire un sistema bottom up nell’impiego delle risorse, la legislazione richiamata è costantemente imperniata sul richiamo all’interesse nazionale nell’attuazione del PNRR e agli obblighi assunti in sede di esecuzione del Regolamento (UE) 2021/241 istitutivo del dispositivo per la ripresa e la resilienza[48].
La necessaria riduzione (o eliminazione) dei fondi statali con vincolo di destinazione, capaci di comprimere l’autonomia di spesa degli enti regionali, dovrebbe poi essere bilanciata dall’incremento delle risorse spettanti in via “ordinaria” agli enti sub-statali al fine di garantire l’espletamento delle funzioni ad essi affidate.
Una terza direttrice lungo la quale monitorare la legislazione finanziaria statale concerne gli “spazi” che residuano agli enti sub-statali sul lato della spesa. Anche in questo caso occorrerebbe adeguare la legislazione finanziaria statale alle consolidate acquisizioni della giurisprudenza costituzionale secondo la quale: l’eventuale riduzione delle risorse destinate alle autonomie deve essere temporanea e parametrata alle funzioni; lo Stato deve garantire il concorso al finanziamento dei livelli essenziali nelle fasi avverse del ciclo economico[49]; il contributo degli enti territoriali agli obiettivi di finanza pubblica deve essere assicurato nel rispetto dei principi di coordinamento e della legge rinforzata di attuazione dell’art. 81 Cost., senza che lo Stato possa imporre ulteriori oneri alle autonomie[50]; le norme contabili sulla determinazione e “calcolo” dell’equilibrio devono preservare «spazi finanziari» per le autonomie territoriali idonei a garantire la programmazione delle risorse secondo principi di proporzionalità e adeguatezza[51], senza precludere, ad esempio, agli enti sub-statali di disporre dell’avanzo di amministrazione regolarmente accertato con l’approvazione del rendiconto o delle risorse già destinate a copertura di spese imputate a esercizi successivi secondo il meccanismo di garanzia costituito dal fondo pluriennale vincolato[52].
Anche per questo terzo profilo, relativo alla garanzia degli “spazi” finanziari a disposizione degli enti sub-statali per l’impiego delle risorse, occorrerebbe procedere ad una analitica “mappatura” della legislazione statale relativa alla spesa regionale per provvedere ad adeguarla alle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza costituzionale.
Va infine rammentato che la premessa di ogni ragionamento sulla razionalizzazione del lato della spesa è ravvisabile nel completamento della transizione al sistema dei costi e dei fabbisogni standard, indispensabile per assicurare criteri omogenei di misurazione del costo delle funzioni secondo i principi di trasparenza e sincerità dei conti, ridurre le inefficienze allocative e garantire il funzionamento del sistema di perequazione a fini solidaristici.
Guardando al “lato” delle entrate, il diritto vigente (legge n. 42 del 2009 e decreti legislativi conseguenti) prevede che le funzioni connesse ai LEP dovrebbero essere finanziate mediante addizionale IRPEF, compartecipazioni all’IVA, tributi propri derivati e quote del fondo perequativo, mentre le funzioni c.d. “libere” dovrebbero essere finanziate da tributi regionali propri in senso stretto e derivati, da addizionali a tributi erariali e dal fondo perequativo, assicurando la contestuale soppressione dei trasferimenti statali.
Tale sistema di finanziamento, come si è detto, non ha trovato applicazione per la scelta politica di mantenere una gestione largamente accentrata delle risorse, come risulta dai già menzionati rinvii disposti dal legislatore – da ultimo, al 2027 – circa l’applicazione della disciplina vigente sull’autonomia tributaria delle Regioni e sulla perequazione. Infatti, tali rinvii hanno avuto ad oggetto la disciplina vigente relativa al sistema delle risorse regionali delineato dal decreto legislativo n. 68 del 2011: a) rideterminazione dell’addizionale regionale IRPEF in misura tale da assicurare un gettito corrispondente sia al gettito attuale sia ai trasferimenti statali da sopprimere in base al medesimo decreto legislativo; b) nuova struttura della compartecipazione regionale all’IVA; c) fiscalizzazione di tutti i trasferimenti statali di parte corrente e, ove non finanziati tramite il ricorso all’indebitamento, in conto capitale, alle Regioni a statuto ordinario; d) disciplina del fondo perequativo generale.
Pertanto le entrate tributarie delle Regioni a statuto ordinario sono attualmente quelle già vigenti anteriormente alla legge n. 42 del 2009 sul federalismo fiscale. Le possibilità di manovra da parte regionale sulla leva fiscale sono limitate alla determinazione delle aliquote entro una forbice fissata dalla legge dello Stato e – in alcuni casi – alla facoltà di differenziare i soggetti passivi (per “scaglioni di reddito” per l’addizionale IRPEF, per categorie economiche per l’IRAP).
Anche sul lato delle entrate occorrerebbe anzitutto adeguare la legislazione statale alle prescrizioni contenute nell’art. 119 Cost., eliminando quelle norme che prevedono meri trasferimenti e assicurando contestualmente incrementi alle risorse proprie degli enti sub-statali per garantire il rispetto del principio di corrispondenza tra funzioni e risorse.
In secondo luogo, il vigente quadro normativo indica un significativo sottodimensionamento dei tributi propri regionali dal punto di vista non soltanto quantitativo, ma anche qualitativo, incidendo, questi ultimi, sin dai primi tentativi del legislatore regionale, in maniera pressoché irrisoria sull’autonomia dell’ente territoriale[53].
Sul punto, non sono state ancora garantite le condizioni idonee ad assicurare l’effettiva autonomia tributaria regionale e locale, che possono essere individuate nelle seguenti: a) esistenza di ambiti della potestà impositiva adeguati alle esigenze di differenziazione costituzionalmente previste; b) limitazione delle interferenze statali sui tributi regionali.
Sotto il primo profilo, occorrerebbe verificare la possibilità di estendere quantitativamente il novero dei presupposti d’imposta affidati alla potestà impositiva regionale, valutando anche la possibilità di rimuovere dalla legge n. 42 del 2009 il divieto di doppia imposizione statale-regionale sul medesimo presupposto, comunque nel rispetto dei principi di territorialità e di continenza del tributo e facendo salva la funzione di coordinamento statale. La soluzione ipotizzata non parrebbe in contrasto con quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 102 del 2008 perché secondo il Giudice delle leggi la c.d. riserva di presupposto – poi “positivizzata” dagli artt. 2, comma 2, lett. o) e 7, comma 1, lett. b), n. 3) della legge n. 42 del 2009 – non discende dai principi costituzionali, ma soltanto dalla mancanza (al momento della sentenza) dei principi fondamentali di coordinamento poi dettati dalla legge n. 42 del 2009 che quindi ben potrebbero essere oggetto di modificazione alla stregua delle richiamate esigenze[54].
Sotto il secondo profilo, invece, si dovrebbero ridurre i vincoli che la legislazione statale impone alla stessa potestà impositiva regionale, sia per i (limitati) presupposti che sono ad essa riconosciuti, sia con riguardo ai tributi propri derivati.
L’esigenza irrinunciabile è quella di assicurare l’operatività del fondo perequativo generale previsto dall’art. 119, terzo comma, Cost., mentre, a tutt’oggi, la perequazione è concretamente affidata a fondi settoriali previsti per i diversi ambiti materiali (sanità; trasporto pubblico locale) e tutto ciò rischia di pregiudicare le istanze unitarie e l’effettivo adempimento dei doveri costituzionali di solidarietà, come affermato anche dalla giurisprudenza costituzionale[55]. In particolare, al fondo con carattere generale, disciplinato dall’art. 7 del decreto legislativo n. 56 del 2000, si aggiungono i fondi perequativi settoriali come quello concernente la sanità (art. 12 del decreto legislativo n. 502 del 1992), oltre che, per gli enti locali, il Fondo di solidarietà comunale (art. 23 del decreto legislativo n. 68 del 2011). Diverso il caso dei fondi destinati al finanziamento di specifiche funzioni in determinati ambiti materiali (come il trasporto pubblico locale) che costituiscono, in realtà, trasferimenti vincolati. Il citato d.lgs. n. 56 del 2000 disciplina il riparto del fondo perequativo nazionale in funzione dei trasferimenti alla singola Regione in relazione alla capacità fiscale, alla dimensione geografica della popolazione residente e al fabbisogno per la spesa sanitaria, nonché alla compartecipazione all’IVA, trasferita a ciascuna Regione a seguito delle operazioni di perequazione, e quindi in aumento o in diminuzione rispetto al conteggio iniziale, senza che sia consentito alcun margine di manovrabilità. Appaiono maggiormente conformi alle prescrizioni dell’art. 119 Cost. i già richiamati criteri dettati dall’art. 9 della legge n. 42 del 2009 per la determinazione delle risorse derivanti dal fondo perequativo, assicurando il finanziamento della differenza tra il fabbisogno finanziario necessario alle competenze legislative regionali e ai LEP e il gettito regionale dei tributi ad esse dedicati. Tale meccanismo di perequazione integrale per le funzioni connesse ai LEP dovrebbe essere esteso, come si è detto, a tutte le funzioni amministrative il cui esercizio dipende da scelte statali per assicurare il principio di connessione tra funzioni e risorse e adempiere i doveri di solidarietà.
Deve essere infine ricordato che anche il PNRR contiene un apposito paragrafo dedicato al tema del federalismo fiscale – ancora inattuato – prevedendo azioni dirette all’attuazione della legge n. 42 del 2009 per ottimizzare l’allocazione delle risorse degli enti territoriali, rinviando a tali fini all’apposito Tavolo tecnico istituito presso il Ministero dell’economia e delle finanze.
6. Autonomia finanziaria regionale, principio democratico e doveri di solidarietà.
Il legislatore statale e la giurisprudenza costituzionale hanno tentato di estendere i principi dell’art. 119 Cost. anche autonomie speciali, per le quali gli statuti speciali non prevedono alcuna specifica connessione tra funzioni e risorse[56] e le relazioni finanziarie tra Stato e autonomie speciali hanno conseguentemente seguito un percorso sostanzialmente inverso a quello prefigurato dall’art. 119 Cost. per le Regioni di diritto comune. Infatti, la finanza delle autonomie speciali realizza una sorta di tertium genus tra finanza autonoma e finanza derivata, poiché le entrate sono quantificate in percentuale predeterminata negli statuti in relazione a quanto riscosso sui territori. A ciò ha fatto seguito la progressiva accentuazione del suo carattere “negoziale” mediante la valorizzazione degli accordi che definiscono il contributo agli obiettivi di finanza pubblica e il finanziamento delle funzioni. È, infatti, attraverso accordi bilaterali – a prescindere dalla fonte in cui essi si traducono, norme di attuazione o legge rinforzata – che, da un lato, vengono individuate le funzioni e le risorse da trasferire e, dall’altro lato, viene periodicamente ridefinito l’apporto delle autonomie speciali al conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, assicurando la sostenibilità economica del disegno di autonomia particolare.
È appena il caso di ricordare che il sistema e l’entità del finanziamento disciplinato da statuti, norme di attuazione e altre fonti atipiche, in cui sono stati trasfusi gli accordi, riflette rilevanti differenze all’interno dei singoli enti dotati di autonomia particolare per storia, capacità di attuare le competenze statutarie, efficienza amministrativa, quantità e qualità dei servizi forniti ai cittadini.
Al di là delle specifiche vicende delle singole Regioni del mondo composito della specialità[57], devono essere sottolineati i seguenti elementi: a) l’evoluzione del quadro macroeconomico e della finanza pubblica statale ha condizionato anche le scelte di governo della finanza delle autonomie speciali, in quanto parte del complesso delle amministrazioni chiamate ad assicurare il rispetto dell’equilibrio di bilancio e la sostenibilità del debito pubblico; b) si sono progressivamente determinati, almeno in taluni casi, disallineamenti e distonie tra il meccanismo delle compartecipazioni secondo quote prestabilite e l’esercizio delle funzioni per realizzare autonome politiche[58].
Basti pensare all’evoluzione del sistema finanziario delle Province autonome di Trento e di Bolzano, riflesso della capacità dei territori di acquisire un novero crescente di funzioni (anche per la tendenza dello Stato a delegare ulteriori funzioni, ad invarianza di risorse); e, all’opposto, al sistema finanziario della Regione siciliana, rivelatosi inidoneo a garantire il finanziamento dell’ampio catalogo delle competenze statutarie senza ricorrere a trasferimenti erariali.
Nel tempo, mediante il ricorso agli accordi di finanza pubblica, le asimmetrie sono state parzialmente ricomposte attraverso la determinazione di riserve nel bilancio dello Stato degli aumenti di gettito che si erano determinati, la rinuncia da parte delle Regioni alle entrate in quota fissa, la riduzione o soppressione dei trasferimenti e il successivo adeguamento delle norme finanziarie statutarie, sempre maggiormente incentrate sulle compartecipazioni[59].
In questo contesto, gli accordi finanziari hanno introdotto meccanismi maggiormente definiti rispetto al principio di corrispondenza tra funzioni e risorse, o con la richiesta di contributi aggiuntivi o con il trasferimento di ulteriori funzioni, in tal modo “recuperando”, sia pure in maniera conforme alle garanzie costituzionali della specialità, i principi dell’art. 119 Cost. al fine di favorire un’autonomia politicamente responsabile di fronte alle collettività. Tutto ciò ha consentito alle autonomie speciali di assumere l’esercizio di ulteriori funzioni e dei relativi costi, evitando riduzioni dei finanziamenti e, soprattutto, di subire la logica dei c.d. “tagli lineari” [60]; o, sul versante opposto, di recuperare gli arretrati talvolta dovuti dallo Stato, come nel caso delle accise sui prodotti energetici, oggetto dell’ultimo accordo del settembre 2023 delle Province autonome di Trento e di Bolzano (periodo 2010-2022). Inoltre, gli accordi di natura transattiva hanno avuto un effetto deflattivo sul contenzioso costituzionale[61].
In altri casi, invece, il ricorso all’accordo è stato quantomeno anomalo.
Negli ultimi anni, ad esempio, la Sicilia ha utilizzato questo strumento in maniera combinata con una norma di attuazione[62] – poi dichiarata costituzionalmente illegittima[63] – per derogare ai principi generali sull’armonizzazione dei bilanci al fine di spalmare il ripiano del disavanzo in dieci anni anziché nel triennio del bilancio di previsione o entro il limite dei cinque anni della legislatura regionale. Infatti, l’illegittimo utilizzo della norma di attuazione praeter statutum, ben lungi dal costituisce svolgimento della fonte costituzionale di autonomia speciale, che non include la “contabilità” e il “bilancio” tra le materie di potestà regionale esclusiva e concorrente (artt. 14 e 17 dello statuto di autonomia), eccede, invece, dai limiti individuati dalla giurisprudenza costituzionale per le norme di attuazione[64].
In questo caso, come già osservato in dottrina nella fase anteriore alla declaratoria di incostituzionalità[65], la norma sembra costituire piuttosto attuazione dell’art. 81 Cost. al fine di disciplinare la finanza regionale in deroga ai principi contabili sull’armonizzazione dei bilanci, ponendosi, quindi, in contrasto con i principi della responsabilità politica e della responsabilità di mandato affermati dalla giurisprudenza costituzionale[66]. In effetti, come affermato dalla Corte costituzionale, «il riassorbimento del disavanzo in periodi che vanno ben oltre il ciclo di bilancio ordinario comporta una lesione a tempo indeterminato dei precetti costituzionali […] che finisce per disincentivare il buon andamento dei servizi e scoraggiare le buone pratiche ispirate a una oculata e proficua spendita di risorse della collettività»[67], sicché «la disciplina temporale del rientro dal disavanzo non può che correlarsi allo specifico esercizio nel quale ciascuna componente di tale aggregato si è prodotta, così da consentire che, pur nella continuità degli esercizi, questa venga recuperata nel periodo massimo consentito»[68].
La Corte costituzionale, quindi, viene a censurare ogni forma di illegittimo ampliamento della capacità di spesa regionale e di incentivo ad effettuare nuove spese senza prevedere l’adeguata copertura, quale effetto, nel caso di specie, di un illegittimo utilizzo combinato delle norme di attuazione e dello strumento dell’accordo. Il Giudice delle leggi tenta così di assicurare stabilità e certezza anche alle relazioni finanziarie tra Stato e autonomie speciali.
Inoltre, nella perdurante crisi economico-finanziaria, il concorso delle autonomie speciali è stato garantito soprattutto mediante l’istituto dell’accantonamento, che consiste nella determinazione unilaterale del contributo complessivo dovuto – “accantonato” appunto – in favore dello Stato sino all’emanazione delle norme di attuazione previste dall’art. 27 della legge n. 42 del 2009 per il «conseguimento degli obiettivi di perequazione e di solidarietà».
La giurisprudenza costituzionale ha fatto “salvo” tale meccanismo, sul rilievo che esso determina l’accantonamento “transitorio” di quote di compartecipazioni ai tributi erariali[69], allo scopo di ridurre per un importo corrispondente il livello delle spese, e quindi può ritenersi distinto dalla “riserva” che, invece, sottrae definitivamente all’ente territoriale risorse che gli spetterebbero[70]. Il meccanismo in parola non altererebbe, dunque, il principio di corrispondenza tra funzioni e risorse ai fini dell’erogazione delle prestazioni[71]. Tale orientamento giurisprudenziale è sorretto dai seguenti argomenti: a) la necessità di garantire il tempestivo adempimento degli obblighi circa la sostenibilità delle finanze pubbliche che non consente di attendere l’esito dei negoziati con ciascun ente territoriale[72]; b) l’esigenza di assicurare la proporzionalità dei sacrifici imposti nel sostenere gli oneri finanziari[73].
In un sistema a finanza prevalentemente derivata, comune a tutti gli enti sub-statali, di fronte alla crisi economica ci si potrebbe però chiedere come la limitazione delle risorse, disposta dalla legislazione finanziaria statale, possa essere adeguatamente rivolta a garantire che i diritti dei singoli cittadini non siano eccessivamente differenziati in base all’appartenenza territoriale, sino a pregiudicare l’invalicabile soglia di omogeneità costituzionalmente necessaria a garantire il finanziamento dei livelli essenziali delle prestazioni (che, in periodo di crisi, tendono ad appiattirsi sul contenuto essenziale dei diritti).
In questo senso, paiono particolarmente incisive alcune affermazioni della giurisprudenza costituzionale con le quali è stata espressamente riconosciuta la responsabilità che «incombe su tutti i cittadini, a prescindere dalle istituzioni che li rappresentano», di assicurare il proprio contributo al risanamento[74], poiché «autonomia non significa potestà di deviare rispetto al comune percorso definito dalla Costituzione, sulla base della condivisione di valori e principi insensibili alla dimensione territoriale, tra i quali spicca l’adempimento da parte di tutti dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale»[75]. In caso contrario – sembra avvertire il Giudice costituzionale – l’inosservanza dei doveri costituzionali di solidarietà potrebbe tradursi in eccessive differenziazioni tra i diritti dei cittadini, valicando la soglia di diseguaglianza ragionevolmente tollerabile.
Non molto di più può essere chiesto innanzi alla Corte costituzionale.
Essendo ancora inattuato il modello costituzionale di autonomia finanziaria ed essendo state interpretate nel senso dell’accentramento le variabili che lo connotano, la stabilità delle relazioni finanziarie tra Stato e Regioni e la “certezza” delle risorse dovrebbe essere garantita in via politico-legislativa, valorizzando gli istituti collaborativi e soprattutto adeguando la legislazione finanziaria statale alle prescrizioni costituzionali.
In conclusione, in un sistema a finanza ancora largamente derivata in cui lo Stato controlla le variabili che condizionano l’attuazione del modello costituzionale di autonomia finanziaria sono le scelte allocative del legislatore statale a condizionare le scelte di indirizzo regionali e a limitare l’autoidentificazione delle funzioni e l’esercizio dei poteri legislativi e amministrativi.
In questo contesto, la compiuta attuazione dei precetti dell’art. 119 Cost. potrebbe limitare il disallineamento tra i principi costituzionali e le tendenze della legislazione finanziaria statale, salvaguardare la prescrittività delle disposizioni costituzionali e rinsaldare il nesso tra autonomia finanziaria e principio democratico.
* Professore ordinario di Diritto costituzionale – Università degli studi di Padova.
[1] C. Esposito, Autonomie locali e decentramento amministrativo nell’art. 5 della Costituzione, in Id., La Costituzione italiana. Saggi, Padova, Cedam, 1954, 80 s. (cui appartengono le espressioni virgolettate; cors. ns.).
[2] Cfr. C. Esposito, Autonomie locali e decentramento amministrativo, cit., 78.
[3] Con le parole della sent. C. cost. n. 106 del 2002, punto n. 3 del Considerato in diritto.
[4] Cfr. G. Berti, Considerazioni sul principio di sussidiarietà, in Jus, 1994, 405 ss.
[5] Cfr. sent. n. 303 del 2003, punto n. 2.2 del Considerato in diritto; v. anche sentt. n. 6 del 2004 e n. 285 del 2005.
[6] Il punto è efficacemente sottolineato da S. Pajno, La sussidiarietà e la collaborazione interistituzionale, in R. Ferrara – M.A. Sandulli, Trattato di Diritto dell’ambiente, vol. II., I procedimenti amministrativi per la tutela dell’ambiente, a cura di S. Grassi e M.A. Sandulli, Milano, Giuffrè, 2014, 408, cui appartengono le espressioni virgolettate, il quale richiama i noti passaggi di H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, trad. it. Milano, Ed. Comunità, 1952, 288 ss.
[7] Cfr. D.L. Shapiro, Federalism. A Dialogue, Evanston (Illinois), Nothwestern University Press, 1995, 91 ss.
[8] Cfr. S. Pajno, La sussidiarietà e la collaborazione interistituzionale, cit., 408 s.
[9] Come risulta dai lavori preparatori delle norme costituzionali originarie e, ancora prima, dal Rapporto della Commissione economica per l’Assemblea Costituente, presieduta da Giovanni Demaria: al riguardo, cfr., per tutti, S. Bartole, Art. 81, in Commentario alla Costituzione. La formazione delle leggi. Art. 76-82, a cura di G. Branca, vol. II, Bologna-Roma, Zanichelli-Il Foro Italiano, 1979, 198 s.; M. Bertolissi,L’autonomia finanziaria regionale. Lineamenti costituzionali, Padova, Cedam, 1983, 196 ss.; M. Luciani, L’equilibrio di bilancio e i principi fondamentali: la prospettiva del controllo di costituzionalità, in Corte costituzionale, Il principio dell’equilibrio di bilancio secondo la riforma costituzionale del 2012, Atti del Seminario svoltosi in Roma, Palazzo della Consulta, 22 novembre 2013, Milano, Giuffrè, 2014, 20 s.; nonché G. Rivosecchi, L’indirizzo politico finanziario tra Costituzione italiana e vincoli europei, Padova, Cedam, 2007, 221 ss.
[10] Cfr. M.S. Giannini, In principio sono le funzioni, in Amministrazione Civile, n. 1/1957, 11 ss., spec. 13 s.
[11] Cfr., tra le altre, sentt. n. 188 del 2015; n. 10 del 2016; n. 137 del 2018; n. 155 del 2020.
[12] Cfr. V. Bachelet, voce Coordinamento, in Enc. dir., X, Milano, Giuffrè, 1962, 631 ss.; A. Brancasi, Il coordinamento della finanza pubblica nel federalismo fiscale, in Diritto pubblico, n. 2/2011, 451 ss.
[13] Sul punto, cfr. D’Atena, Profili costituzionali dell’autonomia finanziaria delle Regioni, in Il federalismo fiscale in Europa, a cura di S. Gambino, Milano, Giuffrè, 2014, 62.
[14] Come già osservato da M.S. Giannini, In principio sono le funzioni, cit., 11 ss., spec. 13 s.
[15] Cfr. A. D’Atena, Le Regioni, tra crisi e riforma, in Quale, dei tanti federalismi?, Atti del Convegno internazionale organizzato dalla Facoltà di giurisprudenza dell’Università “La Sapienza”, Roma, 31 gennaio-1 febbraio 1997, a cura di A. Pace, Padova, Cedam, 1997, 16.
[16] Dalla sent. n. 370 del 2003 alla sent. n. 87 del 2018.
[17] Cfr. sentt. n. 370 del 2003 e n. 16 del 2004.
[18] Tra le tante, cfr. sentt. n. 423 del 2004; n. 51, n. 77 e n. 160 del 2005; n. 137 del 2007; n. 45, n. 50 e n. 63 del 2008; n. 142 e n. 168 del 2008; n. 168 del 2009.
[19] Cfr. sentt. n. 201 del 2007, punto n. 6 del Considerato in diritto; n. 63 del 2008; n. 142 del 2008; n. 168 del 2008; n. 124 del 2009, punto n. 3.1 del Considerato in diritto; n. 27 del 2010; n. 211 del 2016; n. 61 del 2018, punto n. 3.2 del Considerato in diritto; n. 71, n. 78 e n. 87 del 2018; n. 56 del 2019.
[20] Si confrontino, ad esempio, da un lato, la sent. n. 36 del 2004, in cui la Corte ha motivato, con diffusi argomenti, la possibilità per il legislatore statale di limitare il disavanzo e, contestualmente, la spesa corrente complessiva delle Regioni (limitazioni, cioè, non particolarmente incisive), e, dall’altro lato, la giurisprudenza successiva alla sent. n. 182 del 2011 – pronuncia significativa ai fini della richiamata trasformazione della funzione di coordinamento finanziario – secondo la quale limitazioni puntuali e dettagliate alle singole voci di spesa si applicano integralmente alle amministrazioni statali, mentre vincolano le Regioni, comparto per comparto, come obiettivo complessivo di riduzione della spesa; da ciò discende la giurisprudenza successiva che rende costantemente opponibili agli enti sub-statali vincoli e limiti alle singole voci di bilancio per il conseguimento di puntuali obiettivi di finanza pubblica (tra le tante, in quanto particolarmente esemplificative, sentt. n. 139 e n. 262 del 2012; n. 22 del 2014).
[21] Cfr. M. Cecchetti, Legge costituzionale n. 1 del 2012 e Titolo V della Parte II della Costituzione: profili di contro-riforma dell’autonomia regionale e locale, in Federalismi.it, n. 24/2012, 4 ss.
[22] V., in particolare, sentt. n. 88 e n. 188 del 2014.
[23] Cfr. L. Paladin, Fondamenti costituzionali della finanza regionale, in Dir. soc., 1973, 852.
[24] Cfr. L. Paladin, Fondamenti costituzionali della finanza regionale, in Dir. soc., 1973, 852.
[25] In tema, cfr. M. Bertolissi, La delega per l’attuazione del federalismo fiscale: ragionamenti in termini di diritto costituzionale, in Federalismo fiscale, n. 2/2008, 96 s.
[26] Cfr. M. Luciani, I diritti costituzionali tra Stato e Regioni (a proposito dell’art. 117, comma 2, lett. m) della costituzione), in Pol. dir., 2002, 352 s.
[27] P. Carrozza, Il Welfare regionale tra uniformità e differenziazione: la salute delle regioni, in I principi negli statuti regionali, a cura di E. Catelani – E. Cheli, Bologna, il Mulino, 2008, 32 s.
[28] G. Scaccia, Legge e diritti fondamentali nell’art. 117 della Costituzione, in Quad. cost., 2003, 541.
[29] La giurisprudenza costituzionale si riferisce costantemente alla dimensione quantitativa delle prestazioni da assicurare sull’intero territorio nazionale, senza che la legislazione regionale possa limitarle o condizionarle: cfr. sentt. n. 282 del 2002; n. 88 del 2003; n. 120, n. 285, n. 383 e n. 467 del 2005; n. 134 del 2006; n. 80, n. 162 e n. 387 del 2007; n. 45, n. 166, n. 203 e n. 271 del 2008; n. 99, n. 200 e n. 322 del 2009; n. 10, n. 121e n. 207 del 2010; n. 248 del 2011; n. 115 e n. 207 del 2012; n. 111 del 2014; n. 125 del 2015; n. 87 del 2018; n. 9 e n. 197 del 2019; n. 62 e n. 157 del 2020; n. 132, n. 142 e n. 220 del 2021.
[30] Cfr., ad esempio, sentt. n. 88 del 2003; n. 134 del 2006; n. 162 del 2007; n. 124 e n. 322 del 2009; n. 121 e n. 309 del 2010; n. 8 e n. 330 del 2011; n. 297 del 2012; n. 65 del 2016, punto n. 5.3.1 del Considerato in diritto.
[31] Cfr., ad esempio, R. Balduzzi, Un inusitato intreccio di competenze. Livelli essenziali e non essenziali, in Verso il decentramento delle politiche di Welfare. Incontro di studio “Gianfranco Mor” sul diritto regionale, a cura di L. Violini, Milano, 2011, 84 ss.
[32] Un esame della giurisprudenza amministrativa sui livelli essenziali conferma l’esigibilità e l’azionabilità del diritto alle prestazioni fondato sull’art. 117, secondo comma, lett. m), Cost.: cfr. Cons. St., sez. III, 2 gennaio 2020, n. 1; Cons. St., sez. III, 7 febbraio 2022, n. 860; Cons. St., sez. III, 12 aprile 2022, n. 2728; Cons. St., sez. III, 20 aprile 2022, n. 2979. Ciò indica come il parametro costituzionale in parola non incida soltanto sul riparto delle competenze tra Stato e Regioni, ma costituisca garanzia delle situazioni giuridiche soggettive azionabili davanti al giudice come pretese nei confronti dei pubblici e privati poteri, in relazione alle scelte del legislatore sulle prestazioni esigibili.
[33] In questa prospettiva, la giurisprudenza costituzionale ha costantemente ribadito la necessità di procedere alla determinazione e all’aggiornamento dei LEP, perché ciò offrirebbe alle Regioni, «un significativo criterio di orientamento nell’individuazione degli obiettivi e degli ambiti di riduzione delle risorse impiegate, segnando il limite al di sotto del quale la spesa – sempreché resa efficiente – non sarebbe ulteriormente comprimibile» (sent. n. 65 del 2016, punto n. 5.3.1 del Considerato in diritto). In altre parole, la mancata determinazione dei livelli essenziali non può precludere l’esercizio della funzione statale di coordinamento finanziario, ma l’aggiornamento dei livelli stessi costituirebbe prezioso punto di riferimento per il finanziamento delle prestazioni. Sul punto, cfr. anche sentt. n. 154 e n. 169 del 2017; n. 103 e n. 117 del 2018; n. 62 del 2020.
[34] Cfr. sentt. n. 154 del 2017 e n. 103 del 2018.
[35] Cfr., ancora, sentt. n. 154 e n. 169 del 2017; n. 103 e n. 117 del 2018; n. 62 del 2020.
[36] Per lo sviluppo di questa tesi, cfr. G. Rivosecchi, Poteri, diritti e sistema finanziario tra centro e periferia, in Associazione Italiana dei Costituzionalisti, Annuario 2018. La geografia del potere. Un problema di diritto costituzionale, Atti del XXXIII Convegno annuale, Firenze, 16-17 novembre 2018, Napoli, Editoriale Scientifica, 2019, 404 ss., spec. 406.
[37] Per lo sviluppo di questa prospettiva, cfr. G. Rivosecchi, voce Poteri, diritti e sistema finanziario (tra Stato e Regioni), in Enciclopedia del diritto, I tematici, V, Potere e Costituzione, diretto da M. Cartabia e M. Ruotolo, Milano, Giuffrè, 2023, 768 ss.
[38] Cfr. sentt. n. 188 del 2015 e n. 10 del 2016 che hanno dichiarato costituzionalmente illegittime leggi regionali di bilancio che avevano ridotto risorse alle Province ad invarianza di funzioni; n. 6 del 2019 sulla c.d. «vertenza entrate» tra la Regione Sardegna e lo Stato relativa ai criteri di calcolo delle compartecipazioni tributarie sulle imposte sui redditi e sull’IVA, che ha dichiarato costituzionalmente illegittima una disposizione della legge di bilancio per il 2018 nella parte in cui non garantisce alla Regione Sardegna «adeguate risorse», rispetto alle funzioni ad essa assegnate, per il triennio 2018-2020 nelle more della definizione dell’apposito accordo di finanza pubblica; n. 197 del 2019 e n. 62 del 2020 sul costituzionalmente necessario finanziamento dei livelli essenziali di assistenza della Sicilia.
[39] Significativa, in questo senso, la sent. n. 103 del 2018, punto n. 6.4.2 del Considerato in diritto; nonché, tra le tante, sentt. n. 193 del 2012; n. 141 del 2016; n. 154 e n. 169 del 2017; n. 6 del 2019, punto n. 2 del Considerato in diritto.
[40] Cfr. sent. n. 103 del 2018, punto n. 6.4.2 del Considerato in diritto.
[41] Cfr. sentt. n. 49/2018, punto n. 3.4 del Considerato in diritto; n. 18/2019, punto n. 5.3 del Considerato in diritto; n. 235/2021, punto n. 6.1 del Considerato in diritto.
[42] Sent. n. 184/2016, punto 3 del Considerato in diritto.
[43] Cfr. sentt. n. 18 del 2019, punto 5.3 del Considerato in diritto; n. 4/2020, punto n. 5 del Considerato in diritto; n. 115 del 2020, punto n. 7 del Considerato in diritto; n. 80/2021, punto n. 6.1 del Considerato in diritto; n. 235 del 2021, punto n. 6.1 del Considerato in diritto; n. 246/2021, punto n. 6.5 del Considerato in diritto; n. 184 del 2022, punto n. 5.3 del Considerato in diritto. Sul punto, in dottrina, cfr. M. Luciani, La “giurisprudenza Carosi”, in Scritti in onore di Aldo Carosi, a cura di G. Colombini, Napoli, Editoriale Scientifica, 2021, 577 s.; G. Rivosecchi, Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus, ovvero: disvelata natura giurisdizionale della parificazione dei rendiconti ed effetti sull’autonomia regionale, in Le Regioni, n. 6/2022, 1257 ss., spec. 1270 s.
[44] Al riguardo, cfr. già A. Brancasi, Continua l’inarrestabile cammino verso una concezione statalista del coordinamento finanziario, in Le Regioni, 2008, 1235 ss.
[45] Cfr. sentt. n. 148 e n. 151 del 2012 e n. 99 del 2014.
[46] Tra le tante, sentt. n. 169 e n. 179 del 2007; n. 289 del 2008; n. 69 del 2011; n. 139 del 2012; n. 88 del 2014; n. 143 del 2016.
[47] V. soprattutto la già richiamata sent. n. 36 del 2004.
[48] Cfr., in particolare, il decreto-legge n. 77 del 2021 (Governance del Piano nazionale di ripresa e resilienza e prime misure di rafforzamento delle strutture amministrative e di accelerazione e snellimento delle procedure).
[49] Cfr. sent. n. 235 del 2017.
[50] Cfr. sentt. n. 235 e n. 237 del 2017.
[51] Da sent. n. 184 del 2016 a sent. 101 del 2018.
[52] Cfr. sentt. 247 del 2017 e n. 101 del 2018.
[53] Per un approfondimento, cfr. G. Rivosecchi, Profili di diritto tributario nel contenzioso Stato-regioni (luglio 2016), www.issirfa.cnr.it, Studi e interventi.
[54] Sui limiti della c.d. “riserva di presupposto” che vieta alle Regioni di istituire tributi propri se non in relazione a presupposti di imposta che non siano già assoggettati ad imposizione sulla base di una legge statale, cfr. L. Salvini, voce Federalismo fiscale (dir. trib.), in Enc. dir. Annali, X, Milano, Giuffrè, 2017, 426.
[55] Cfr. sentt. n. 220 del 2021 e n. 71 del 2023 sul fondo di solidarietà comunale. Per un approfondimento, cfr. G. Rivosecchi, La tutela dei principi della finanza locale nella giurisprudenza costituzionale, in Dir. soc., n. 2/2022, 373 ss.
[56] Sul punto, cfr. M. Carli, Diritto regionale. Le autonomie regionali, speciali e ordinarie, Torino, Giappichelli, 2018, 179.
[57] Per un approfondimento, cfr. G.C. De Martin e G. Rivosecchi, Coordinamento della finanza territoriale e autonomie speciali alla luce della legge n. 42 del 2009 (Commento all’art. 27), in Il federalismo fiscale, a cura di V. Nicotra, F. Pizzetti, S. Scozzese, Roma, Donzelli, 2009, 335 ss.; S. Pajno e G. Rivosecchi, La problematica riforma costituzionale delle autonomie speciali, in Le Regioni, n. 2/2016, 267 ss.
[58] Cfr. i rilievi critici della Corte dei conti – Sezione autonomie, Audizione sulle forme di raccordo tra Stato e autonomie territoriali e sull’attuazione degli statuti speciali alla Commissione parlamentare per le questioni regionali, 23 marzo 2017, spec. 31 ss.
[59] Come posto in rilievo dall’utilissima indagine conoscitiva condotta dalla Commissione parlamentare per le questioni regionali nel 2015: cfr. Camera dei deputati – Senato della Repubblica, XVII legislatura, Doc. XVII-bis, n. 3, Documento approvato dalla Commissione parlamentare per le questioni regionali a conclusione dell’Indagine conoscitiva sulle problematiche concernenti l’attuazione degli statuti delle Regioni ad autonomia speciale, con particolare riferimento al ruolo delle commissioni paritetiche previste dagli statuti medesimi, seduta del 4 novembre 2015, 37.
[60] Cfr. R. Bin, Autonomia speciale e integrazione: la giurisprudenza costituzionale, in Le Regioni, n. 3/2022, 412.
[61] Per un approfondimento, cfr. G. Rivosecchi, Finanza delle autonomie speciali e vincoli di sistema, in Rivista AIC, n. 1/2016, 15 ss., spec. 24 s.
[62] Art. 7 del d.lgs. n. 158 del 2019.
[63] Cfr. sent. n. 9 del 2024, spec. punti n. 6.2.1, n. 6.3 e n. 6.3.1 del Considerato in diritto”.
[64] Cfr. sentt. n. 353 del 2001 e n. 227 del 2003.
[65] Cfr. G. Verde, Le trasformazioni dello Stato regionale. Spunti per una ricerca, Napoli, Editoriale Scientifica, 2022, 62 s.
[66] Cfr., ad esempio, sentt. n. 18 del 2019; n. 235 del 2021 e n. 168 del 2022, con le quali la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittime norme che consentivano il riassorbimento del disavanzo in periodi eccedenti il ciclo di bilancio ordinario degli enti sub-statali. Al riguardo, v. anche sentt. n. 80 e n. 274 del 2017; n. 246 del 2021; n. 268 del 2022; n. 165 del 2023.
[67] Sent. n. 9 del 2024, punto n. 6.3.1 del Considerato in diritto.
[68] Cfr. sent. n. 168 del 2022, spec. punto n. 10.3.1 del Considerato in diritto; nonché, letteralmente, sent. n. 9 del 2024, punto n. 6.3.1 del Considerato in diritto.
[69] Cfr. sentt. n. 77 e n. 82 del 2015.
[70] Cfr. sent. n. 188 del 2016.
[71] Ex plurimis, cfr. sentt. n. 198 del 1999, n. 97 del 2013, n. 145 del 2014.
[72] Tra le tante, in maniera significativa, sent. n. 82 del 2015, punto n. 7.4 del Considerato in diritto.
[73] V., in particolare, sent. n. 154 del 2017, punto n. 4.4.1 del Considerato in diritto.
[74] Cfr. sentt. n. 141 del 2015, punto n. 7.4 del Considerato in diritto e n. 154 del 2017, punto n. 4.4.1 del Considerato in diritto.
[75] Cfr. sent. n. 219 del 2013, punto n. 14.4 del Considerato in diritto. V. anche sentt. n. 221 del 2013, n. 23 e n. 88 del 2014; n. 19 del 2015; n. 154 del 2017; n. 103 del 2018.