Riflessioni attorno al Libro bianco per la formazione

Aurora Maggi*

Il Libro bianco per la formazione – elaborato dal Comitato tecnico-scientifico dell’Osservatorio sul fenomeno della violenza nei confronti delle donne – rappresenta un importante tentativo del Governo italiano per il contrasto alla violenza di genere. Il volume si propone di perseguire due obiettivi fondamentali: da un lato, promuovere il riconoscimento della violenza maschile attraverso il potenziamento della capacità di individuare le dinamiche insite nel fenomeno; dall’altro, valorizzare la formazione delle diverse figure professionali che, a vario titolo, entrano in contatto con situazioni di violenza di genere.

Il documento offre una ricostruzione delle matrici storiche, culturali e sociali della violenza di genere, muovendo dalla consapevolezza che la parità è ancora un obiettivo da raggiungere e che l’eguaglianza formale (art. 3, co. 1 Cost.) non trova sempre traduzione in una effettiva eguaglianza sostanziale, come richiede il co. 2 dello stesso articolo. Il testo riconosce che la violenza di genere è espressione di un assetto strutturale di potere, radicato in secoli di subordinazione femminile e consolidato attraverso stereotipi, asimmetrie e rapporti sociali di tipo gerarchico. Tuttavia, nel Libro bianco sembra avvertirsi una certa reticenza nell’affrontare concretamente situazioni quotidiane in cui la violenza prende forma, o nell’individuare con chiarezza i modelli educativi che contribuiscono alla sua riproduzione. Si tratta di modelli pericolosi perché interiorizzati e pervasivi che andrebbero decostruiti in un’ottica trasformativa e promozionale di una cultura della parità. In questo quadro, risuonano con forza le parole di Mary Wollstonecraft: «Io non mi auguro che [le donne] abbiano potere sugli uomini, ma su se stesse». Il diritto all’autodeterminazione, infatti, costituisce il nucleo essenziale di ogni altro diritto, ponendosi come fondamento irrinunciabile della dignità umana. Come è stato efficacemente osservato da Stefano Rodotà, «l’autodeterminazione è l’esito di una proiezione nel futuro di un insieme di considerazioni accumulate nel corso della vita, irriducibili a una sorta di minimo denominatore […] è un atto che si fonda sulla biografia». In questa prospettiva, il consenso nelle scelte personali si configura come un elemento decisivo, capace di tracciare la linea di confine tra diritto e violenza. La volontà, dunque, è il parametro con cui si può evitare di «costruire delle ‘non persone’» (S. Rodotà).

Appare utile ricordare come la mobilitazione delle persone nella lotta per la parità non è un fenomeno improvviso e nuovo, ma si radica anch’esso nella storia, nel reclamo delle donne del riconoscimento del proprio diritto all’autodeterminazione. Nel Libro bianco viene richiamato il ruolo assunto a livello internazionale dalla Conferenza di Pechino del 1995, che ha rappresentato uno strumento per rendere udibile la voce delle donne. In quell’occasione si affermò che «i diritti fondamentali delle donne includono il loro diritto ad avere il controllo e a decidere liberamente e responsabilmente circa la propria sessualità, […] senza coercizione, discriminazione e violenza». Tuttavia, non viene richiamato né ricostruito il complesso processo che ha condotto a tale Conferenza. La Conferenza mondiale delle Nazioni Unite tenutasi a Città del Messico nel 1975 rappresenta un momento cruciale nel processo di internazionalizzazione dei diritti delle donne, ponendosi in continuità con lo Statuto dell’ONU del 1945, il cui articolo 55 sanciva «il rispetto e l’osservanza universale dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti, senza distinzione di sesso, lingua o religione». Tuttavia, è con il progressivo affermarsi del pensiero femminista che si assiste a una rilettura critica di tale universalismo, originariamente declinato in chiave androcentrica. Le rivendicazioni delle donne mirano a ridefinire l’angolo visuale dei diritti umani, includendo in essi i diritti sessuali e riproduttivi come dimensione essenziale dell’autodeterminazione femminile.

Questa ridefinizione implica una rottura rispetto alla prospettiva assunta, ad esempio, dalla Conferenza sui diritti dell’uomo di Teheran del 1968, nella quale la titolarità del diritto alla procreazione era ancora ricondotta alla coppia genitoriale, e non al singolo individuo. In tale modello si privilegiava il principio della responsabilità coniugale, anziché riconoscere il diritto individuale alla scelta e all’autonomia in ambito sessuale e riproduttivo.

Una svolta significativa si registra con la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna (CEDAW, 1979), che afferma con chiarezza la necessità di rimuovere gli ostacoli culturali e tradizionali che perpetuano ruoli di genere diseguali. In particolare, gli articoli 12 e 16 riconoscono la parità tra uomini e donne nell’accesso ai servizi di assistenza sanitaria e nella pianificazione familiare, promuovendo un modello che pone la salute sessuale e riproduttiva tra le condizioni essenziali per l’emancipazione femminile.

A sei anni da tale passo avanti, la Conferenza di Nairobi (1985) ribadisce con forza che «la capacità delle donne di controllare la propria fertilità costituisce una base importante per il godimento degli altri diritti», individuando così nel governo del corpo e della sua capacità generativa il presupposto imprescindibile per la piena cittadinanza femminile. Da questo momento in poi, il discorso sui diritti delle donne assume un approccio di genere, superando la visione settoriale e frammentaria: secondo il principio del mainstreaming, la prospettiva di genere deve essere integrata trasversalmente in tutti gli ambiti della politica, dell’economia, dell’educazione e della salute.

La Conferenza del Cairo (1994) segna un ulteriore avanzamento, con il riconoscimento formale dei diritti riproduttivi come parte integrante dei diritti umani. Tuttavia, è nella Conferenza di Pechino (1995) che si registra la piena affermazione del diritto delle donne all’autodeterminazione sessuale e riproduttiva. Il paragrafo 96 della Piattaforma d’Azione stabilisce che «i diritti fondamentali delle donne includono il loro diritto ad avere il controllo e a decidere liberamente e responsabilmente circa la propria sessualità, inclusa la salute sessuale e riproduttiva, senza coercizione, discriminazione e violenza». Si afferma altresì che relazioni paritarie tra donne e uomini, anche in materia sessuale e riproduttiva, richiedono rispetto reciproco, consenso e condivisione di responsabilità. Dunque, la Conferenza di Pechino registra un cambio di direzione sostanziale: tuttavia, pur riconoscendosi il ruolo rivoluzionario da essa assunto, si ritiene che una corretta lettura di tale fase della storia dei diritti possa essere condotta solo attraverso una consapevole ricostruzione delle diverse fasi che sono state attraversate per giungere alla conquista di Pechino. L’eliminazione di ogni forma di violenza e discriminazione nei confronti di tutte le donne integra l’Obiettivo 5 dell’Agenda ONU 2030 dedicato alla parità di genere. Quest’ultima non è solo una questione di giustizia sociale, ma una condizione essenziale per l’empowerment femminile, per la crescita economica e per la costruzione di società sostenibili, inclusive e pacifiche. L’empowerment delle donne e delle ragazze, ovvero la loro piena partecipazione e autonomia in ambito educativo, lavorativo, sanitario, politico e decisionale, rappresenta una leva fondamentale per il progresso globale. Garantire alle donne e alle ragazze pari diritti e opportunità – nell’istruzione, nel lavoro, nella salute, nella rappresentanza politica ed economica – è fondamentale per il benessere dell’intera comunità. 

Tornando all’analisi della realtà odierna, oggi quel che si registra, e che viene sottolineato nel Libro bianco, è una superiore disponibilità a far fronte comune, una maggior visibilità delle donne e del loro bagaglio di sofferenze, ma non si tratta di una sveglia suonata improvvisamente. Come si ricorda nel documento che si sta analizzando, il percorso verso la consapevolezza deve essere collettivo: un cammino di passi condivisi, non sempre lineari, ma orientati necessariamente verso una trasformazione comune. 

Interessante risulta l’attenzione rivolta alla tipizzazione delle diverse forme e livelli di violenza di genere, con l’inclusione, tra l’altro della cyberviolenza (ad esempio, il revenge porn, stalking online). Tuttavia, manca una definizione chiara ed esplicita di violenza ostetrica, lacuna non secondaria, soprattutto laddove si adotti un’accezione ampia e relazionale del fenomeno violento, specie alla luce del passaggio fondamentale del riconoscimento della violenza come responsabilità pubblica, condivisa, da sottrarre alle strumentalizzazioni e agli scontri politici. La violenza ostetrica, infatti, a differenza delle altre forme di violenza costituisce una forma di abuso istituzionale (F. Rescigno). Nessuna attenzione è stata, inoltre, posta sulla mancata attuazione della Legge n. 194 del 1978 sull’interruzione volontaria di gravidanza, in particolare per ragioni legate all’abuso del diritto di obiezione di coscienza, previsto dall’art. 9 della stessa legge. Si tratta di una violenza troppo spesso sottaciuta, che consolida l’idea secondo cui l’interruzione di gravidanza sia una scelta superficiale, mossa da leggerezza o opportunismo, anziché una decisione consapevole e spesso dolorosa, assunta nell’esercizio della propria libertà.

In un documento volto a delineare strategie di riconoscimento e formazione sulla violenza maschile contro le donne, appare una lacuna rilevante l’assenza di qualsiasi riferimento al diritto all’aborto negato: un fenomeno che costituisce a tutti gli effetti una violenza di genere istituzionalizzata, espressione di un persistente sospetto verso la capacità femminile di autodeterminazione. Tale omissione rispecchia, ancora una volta, le difficoltà – culturali, sociali e giuridiche – nel riconoscere alle donne la piena titolarità decisionale sul proprio corpo.

Inoltre, ulteriore punto di debolezza si rinviene nel paragrafo dedicato alla vittimizzazione secondaria. Appare parziale la riflessione sul tema, in quanto non si denuncia uno dei meccanismi più insidiosi e diffusi della cultura patriarcale: la tendenza a spostare la responsabilità sulla modalità di apparire della vittima e sui suoi comportamenti – ad esempio, soffermandosi sull’abbigliamento o sulle sue abitudini di vita – piuttosto che sull’agito del carnefice. Infatti, il Libro bianco affronta il tema dell’abbigliamento solo in riferimento ai contesti in cui esso diventa strumento di controllo e di imposizione, ma tace su questo aspetto specifico della colpevolizzazione. È invece fondamentale ribadire che tra abiti e violenza non esiste alcun nesso di causalità: la libertà di disporre del proprio corpo e della propria immagine è parte integrante della libertà personale e del diritto all’inviolabilità personale.

Una riflessione che suscita la lettura del Libro bianco riguarda il diverso ruolo che in esso sembra assumere  l’educazione sessuale rispetto alle disposizioni in materia di consenso informato preventivo contenute nel disegno di legge approvato dal Consiglio dei Ministri su proposta del Ministro dell’Istruzione e del merito, Giuseppe Valditara (comunicato del 30 aprile 2025), presentato alla Camera il 23 maggio 2025, e attualmente assegnato alla VII Commissione (Cultura) alla Camera in sede referente.  Il disegno di legge prevede che, per qualsiasi attività legata all’educazione affettiva e sessuale, sia richiesto un consenso informato preventivo: da parte dei genitori, se gli studenti sono minorenni, o da parte delle/degli stesse/i studentesse e studenti se maggiorenni. Tuttavia, se si comprende la ragione del consenso quando si tratta di attività extracurricolari (art. 1, co. 2, del ddl) che costituiscono incontri aggiuntivi, e non obbligatori, rispetto alle lezioni previste dall’offerta formativa – per così dire – ordinaria, non si comprende quale sia la necessità della richiesta del consenso preventivo in forma scritta quando si tratti di attività rientranti nell’offerta formativa ‘ordinaria’. Cosa distingue, in questo caso, l’educazione sessuale dalle altre discipline scolastiche?

Il nodo sembra essere proprio nella percezione sociale e politica dell’educazione sessuale, ancora considerata un contenuto opzionale, anziché come una componente essenziale del diritto all’educazione e alla salute.  Eppure, proprio la natura di questa materia – che tocca aspetti cruciali dell’identità, della salute, delle relazioni e della prevenzione – dovrebbe sottrarla alla logica del consenso: se manca la consapevolezza, si avrà anche una difficile adesione a corsi aventi ad oggetto qualcosa di cui si sconosce il bisogno. Se, come è chiarito nel Libro bianco, la cultura è colma di discriminazioni, stereotipi, dinamiche violente, che condizionano le persone che dovrebbero ricevere una educazione volta al riconoscimento della violenza, alla valorizzazione del rispetto reciproco, all’accettazione delle scelte altrui, alla valorizzazione del diritto all’autodeterminazione, non può ritenersi ovvia la loro consapevolezza rispetto alla frequentazione di corsi incentrati sul rispetto reciproco e sulla lotta alla violenza. 

Dunque, rimettere alla volontà, non sembra rispettare la libertà di scelta individuale, e rischia di ridurre la portata innovativa che l’educazione sessuale può assumere se trova uno spazio effettivo nelle scuole. Il carattere facoltativo riduce il valore, non aumenta la libertà. Allontana dalla consapevolezza, illudendo di aver scelto liberamente. Ma se non si conosce, non si può scegliere davvero in modo libero. Dunque, imporre l’educazione sessuale obbligatoriamente nell’offerta formativa senza consenso ulteriore rispetto a quello reso al momento dell’iscrizione, non risulta una scelta liberticida ma un’assunzione di responsabilità formativa in capo allo Stato al pari di quella assunta nella selezione di altre materie già parte dell’offerta formativa. 

Inoltre, il comma 4 del disegno di legge prevede l’esclusione delle «attività aventi ad oggetto temi attinenti all’ambito della sessualità» nelle scuole dell’infanzia. A parere di chi scrive, l’educazione, nella sua complessità, proprio in quanto elemento fondamentale nella costruzione dell’identità della persona, è tanto più efficace quanto più precocemente viene avviata.

Il punto, infatti, non è (solo) l’educazione alla sessualità strictu sensu, ma una più ampia educazione al rispetto reciproco.

Il bisogno di un’educazione fondata sul rispetto reciproco risponde al ruolo attribuito dalla Costituzione al principio guida dell’uguaglianza sostanziale.

Per questo motivo, escludere tali percorsi nella prima infanzia, solo sulla base dell’idea che bambine e bambini non siano ancora a contatto con il mondo dell’intimità interpersonale, rischia di spostare il focus. Il tema dell’educazione, infatti, nasce dalla necessità di agire ex ante nella lotta alla violenza di genere, la quale – come indicato anche nel Libro Bianco e in numerosi altri documenti – rappresenta un problema sistemico.

Come si afferma nel Libro bianco, «per cambiare occorre agire in profondità, lavorare per il riconoscimento della violenza sul terreno dell’educazione e della formazione: solo così è possibile davvero prevenirla e combatterla». Nell’affermare ciò, viene ricordato che il riconoscimento del ruolo chiave dell’educazione è oggetto dell’art. 14 della Convenzione di Istanbul, che valorizza l’introduzione dell’educazione sessuale nei programmi scolastici. 

Vengono, inoltre, richiamate le Linee Guida Nazionali “Educare al rispetto: per la parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le forme di discriminazione”, varate dal Miur in seguito all’approvazione della Convenzione di Istanbul. 

Pertanto, alla luce degli elementi analizzati possiamo ritenere sufficiente l’educazione sessuale nelle scuole subordinata al consenso di alunne e alunni maggiorenni, o dei genitori? 

In conclusione, il Libro bianco per la formazione costituisce senza dubbio un tentativo apprezzabile di sistematizzazione della violenza di genere, sebbene permanga una certa timidezza nel prendere una posizione chiara sul tema. La lettura di questo documento risulta comunque utile per continuare a interrogarsi sulla necessità di valorizzare interventi educativi ex ante, e può costituire un punto di partenza significativo per le operatrici e gli operatori del diritto. In particolare, esso offre uno spunto importante per riconoscere l’urgenza di un’educazione sesso-affettiva obbligatoria, intesa come strumento di prevenzione e di promozione di una cultura del rispetto, dell’uguaglianza e della non violenza.

*Dottoranda in Diritto Pubblico Comparato presso l’Università degli Studi di Siena e Socia di Rete per la Parità.

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