Riscrivere i testi normativi al femminile? Provocazione o cambiamento necessario?

STEFANIA CAVAGNOLI*

Ha fatto discutere, anche in modo violento, come sempre avviene con le innovazioni linguistiche, la pubblicazione di un regolamento universitario scritto con forma al femminile, al posto dell’atteso maschile. Si tratta del Regolamento generale di Ateneo dell’Università di Trento[1], approvato in data 28.3.2024 dal consiglio di amministrazione. In Italia, si tratta del primo caso di un tale atto redatto al femminile ‘sovraesteso’.

Se ormai tutte le università posseggono delle linee guida per l’uso del linguaggio adeguato (e non solo al genere), la normativa universitaria resta al maschile (che era definito ‘neutro’ mettendo in evidenza l’assurdità linguistica dell’ossimoro, poi ‘inclusivo’, con la concezione che il maschile includesse, come atto di accoglienza, anche il femminile, e infine ‘sovraesteso’, aggettivo meno connotato e meno discriminante).

Il testo normativo prevede, all’articolo 1, comma 5, del titolo 1, che «I termini femminili usati in questo testo si riferiscono a tutte le persone».

Si tratta di una scelta fortemente simbolica, ma allo stesso tempo pragmatica, come spesso sono, o dovrebbero essere, le scelte linguistiche. La lingua è uno strumento di costruzione e rappresentazione della realtà, e le donne sono molto presenti in ambito universitario. Nel caso trentino, la scelta è la conseguenza dell’applicazione delle linee guida dello stesso ateneo “Per un uso del linguaggio rispettoso delle differenze”, attive dal 2017, che prevedono il raddoppiamento delle cariche, se non personalizzate, con il femminile e il maschile (professoressa e professore). Nella prima stesura, il regolamento applicava le norme delle linee guida, ma esse provocavano l’appesantimento del testo giuridico e rendevano più complessa la comprensione. Per questo motivo, l’ateneo trentino ha scelto di formulare il testo normativo al femminile. La ‘stranezza’ del documento ha colpito il rettore Flavio Deflorian, che così si è espresso: «Leggere il documento mi ha colpito. Come uomo mi sono sentito escluso. Questo mi ha fatto molto riflettere sulla sensazione che possono avere le donne quotidianamente quando non si vedono rappresentate nei documenti ufficiali. Così ho proposto di dare, almeno in questo importante documento, un segnale di discontinuità. Una decisione che è stata accolta senza obiezioni».

In questa osservazione sta il fulcro del cambiamento linguistico come cambiamento sociale e culturale. La lingua è arbitraria, e le scelte linguistiche lo sono altrettanto. Il fatto che il maschile, in italiano, sia considerato la norma, il non marcato, a cui si adegua il femminile, come marcato, cioè non ‘normale’, un’eccezione, riporta una concezione patriarcale in cui al centro trova posto l’uomo e con cui tutto si confronta.

Se per l’Italia la scelta dell’ateneo trentino rappresenta una novità, non è così all’estero. Una scelta simile era stata effettuata, infatti, undici anni prima, dall’università di Lipsia per il regolamento generale dell’ateneo. La frase, inserita come nota all’inizio del documento, recitava: «In dieser Ordnung gelten grammatisch feminine Personenbezeichnungen gleichermaßen für Personen männlichen und weiblichen Geschlechts. Männer können die Amts- und Funktionsbezeichnungen dieser Ordnung in grammatisch maskuliner Form führen» (Nel presente regolamento, le denominazioni personali grammaticalmente femminili si applicano ugualmente alle persone di sesso maschile e femminile. Gli uomini possono utilizzare la forma grammaticalmente maschile dei titoli ufficiali e funzionali previsti dal presente regolamento)[2]. Anche in quel caso, le reazioni furono estreme, nonostante l’attenzione alla lingua di genere in Germania sia molto più estesa rispetto all’Italia. La allora rettrice disse di non aver previsto una tale risonanza e un tale sconcerto. La presenza all’università del 60 % di studentesse sostenne però la decisione, volta a mostrare la presenza delle donne. Oggi, dieci anni dopo, il discorso, anche all’università di Lipsia, si è ulteriormente allargato, trovando una modalità di utilizzo del linguaggio che non escluda le persone non comprese nel sistema binario (per esempio introducendo, nella parola, i due puntini: Dozent:in, che comprende maschile, femminile e cosiddetto terzo genere). Le reazioni ad ulteriori tentativi di modifica, in senso ampio, del linguaggio nelle istituzioni sono forti e hanno portato il ministero della cultura della Sassonia[3] nel giugno del 2023 ad emanare un decreto contro l’uso del genere nella comunicazione scolastica (abolizione di schwa, asterischi, doppi punti), così come il Land bavarese[4], nel marzo del 2024.

Tali misure mostrano due elementi: il primo, che nello sviluppo linguistico della lingua di genere si è passati dalla necessità di mostrare le donne nelle loro cariche e professioni ad un approccio che coinvolge tutte le persone nella comunicazione, almeno per quel che riguarda altri paesi, mentre per la lingua italiana, soprattutto in ambito di comunicazione giuridica, il dibattito è ancora binario; il secondo, che si interviene con atti normativi contro l’uso della lingua nelle istituzioni. Il tema è dibattuto, sia in ambito linguistico che in ambito giuridico. Per la parte linguistica va considerato che non esistono sanzioni nel caso di uso non previsto, se non in ambito didattico di apprendimento. Ma va comunque fatta una distinzione fra l’uso personale della lingua e l’uso istituzionale. Il secondo, dal mio punto di vista, acquisisce un peso maggiore, in quanto diventa punto di riferimento, esempio per la cittadinanza. In tal senso, potrebbe essere davvero una via più veloce per un cambiamento più adeguato alla realtà odierna.

Tale parere era sostenuto, già nel 1987, da Alma Sabatini, che con la sua ricerca “Il sessismo nella lingua italiana” analizzò testi e indicò la via per il cambiamento. Nonostante la pubblicazione fosse quasi governativa, edita per i tipi della presidenza del consiglio dei ministri, ancora oggi chi si occupa di questi temi linguistici si trova ad essere aggredita, o a dover quasi combattere per dimostrare semplici regole grammaticali. La discussione sulle cosiddette leggende legate alla lingua di genere, come il benaltrismo, o la cacofonia, dimostrano quanto la lingua sia determinante e fortemente culturale, legata alla comunità di riferimento.

Per questo motivo, la scelta della redazione del regolamento dell’ateneo trentino è una scelta culturale. È stata definita provocatoria, ma per la cura delle parole preferirei usare il termine riflessivo, o consapevole. Se la lingua rappresenta la realtà, o secondo il costruzionismo sociale la costruisce, la negazione della presenza del genere femminile nelle istituzioni, nella formazione, nella sanità va contro la realtà. Le donne ci sono, e sempre più anche in posizioni considerate prestigiose. E quindi vanno nominate, devono diventare normalità linguistica. Il punto centrale della discussione è infatti legato proprio al potere e alle posizioni alte. Nessuno/a discute sul nominare al femminile le donne in professioni di cura o di servizio. Nessuno/a userebbe mai il maschile per denominare un’infermiera o una maestra. Eppure, queste formazioni linguistiche sono le stesse di ingegnera e di ministra, parole che vengono spesso utilizzate al maschile con motivazioni che non reggono. Oltre alle leggende sopra nominate, è diffusa l’idea che la lingua non si trasformi, non si adatti. Il ‘si è sempre detto così’ manifesta un errore linguistico. La lingua è dinamica e in continuo cambiamento, al servizio delle necessità comunicative dei e delle parlanti. La lingua italiana fornisce tutte le possibilità di creare nuove parole, di comunicare concetti non preesistenti, attraverso il sistema linguistico. Ma con la forma del femminile non è necessario creare nuove parole, è sufficiente declinare secondo le regole. Che non si tratti di neologismi al femminile, lo dimostrano i vocabolari; uno per tutti, il Tommaseo Bellini, 1860, il dizionario dell’unità di Italia, che riporta lemmi come avvocata (attestato dal XIV secolo) e medica.

La questione linguistica è spesso una questione identitaria, che viene rafforzata in momenti di cambiamento politico o sociale, come quello che stiamo vivendo con la transizione politica. È una questione che tocca più piani, quello politico, in primo luogo, quello giuridico e quello linguistico, ma tocca altresì l’emotività e la questione identitaria di chi parla o scrive.

Nel caso della pubblicazione del regolamento dell’ateneo trentino, e delle veementi reazioni contrarie, ci si deve interrogare su questi tre piani. Essendo quello linguistico sostenibile nella concezione dell’arbitrarietà della lingua, e quello giuridico altrettanto, per la clausola di estensione (se nel passato il maschile riguardava entrambi i generi, oggi può essere il femminile a comprendere anche il maschile), resta in evidenza il piano politico. Dal punto di vista dell’università di Trento, una scelta per il cambiamento, adeguandosi alla realtà.

* Professoressa ordinaria di linguistica applicata e glottodidattica. Vice coordinatrice del centro di ricerca Grammatica e sessismo, Università di Roma Tor Vergata


[1] Regolamento generale università di Trento https://pressroom.unitn.it/alfresco/download/workspace/SpacesStore/a63572e3-8d23-47e4-ac25-160f9eb7a5b5/cs%20Regolamento%20generale%20al%20femminile.pdf

[2] Università di Lipsia https://www.uni-leipzig.de/fileadmin/ul/Dokumente/Grundordnung_UL_130806.pd

[3] Decreto Kultusministerium https://fragdenstaat.de/anfrage/erlass-zum-verbot-der-gendersprache-an-saechsischen-schulen/

[4] Baviera https://www.bayern.de/herrmann-bayern-beschliesst-verbot-der-gendersprache/

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