SUL COGNOME 

SPUNTI DI RIFLESSIONE TRA AUTOMATISMO A PROTEZIONE DEL DIRITTO ALLA IDENTITA’ E VOLONTA’ DEI GENITORI*

ANTONELLA ANSELMO**

I diversi disegni di legge all’esame della Commissione di Giustizia del Senato[1] si inseriscono all’interno di un contesto sociale sensibilmente mutato grazie al percorso “trasformativo” della Consulta.

Sebbene tale percorso abbia avuto il merito di eliminare l’ultimo tassello di un retaggio patriarcale che ancora viziava la legge italiana, la riforma organica della materia è indifferibile.

Già l’Ordinanza della Consulta 11 febbraio 2021 n. 18 ne ribadiva l’indifferibilità.

Con la citata ordinanza la Consulta sollevava innanzi a sé la questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto l’art. 262 primo comma c.c. nella parte in cui, pur a seguito della sentenza 286 del 2016 della medesima Consulta, imponeva che – in mancanza di diverso accordo tra i genitori – il figlio acquisiva il cognome paterno anziché i cognomi di entrambi i genitori.

Come si sa, in seguito all’Ordinanza, la Consulta ha emanato altre due sentenze: la n. 131 del 2022 e la n. 135 del 2023 delineando uno scenario nuovoche il legislatore ha il compito di completare. In particolare il legislatore dovrà precisare i criteri di attribuzione del cognome evitando il rischio di moltiplicazione nel succedersi delle generazioni e garantendo che sorelle e fratelli possano avere lo stesso cognome.

Nell’opera di completamento credo che il legislatore debba valutare tutti gli interessi in gioco, semplificare e rendere chiari i criteri, evitare il contenzioso.

Ora, le sentenze 286/2016, 131/2022 e 135/2023 si basano su due principi fondamentali:

  1. l’eguaglianza dei coniugi, quale elemento solidaristico alla base dell’unità familiare sancita dagli artt. 3 e  29 Cost. e
  2.  il diritto pieno all’identità da parte della persona fin dalla sua nascita, necessario complemento dello status unitario della filiazione.

In particolare la sentenza n. 31/2022 si propone di rendere effettiva la «legalità costituzionale»: per l’effetto dichiara  l’illegittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma, del codice civile, nella parte in cui prevede, con riguardo all’ipotesi del riconoscimento effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori, che il figlio assume il cognome del padre, anziché prevedere che il figlio assume i cognomi dei genitori, nell’ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l’accordo, al momento del riconoscimento, per attribuire il cognome di uno di loro soltanto.

Detta regola è estesa ad altre norme, riferibili ai figli nati fuori dal matrimonio e a quelli adottivi, considerata l’unitarietà dello status filiationis.

Tra le argomentazioni della sent. 131 si legge che “La proiezione sul cognome del figlio del duplice legame genitoriale è la rappresentazione dello status filiationis: trasla sull’identità giuridica e sociale del figlio il rapporto con i due genitori. Al contempo, è il riconoscimento più immediato e diretto «del paritario rilievo di entrambe le figure genitoriali» (sentenza n. 286 del 2016).”

Alla regola del doppio cognome si affianca la diversa volontà dei genitori, elementovolontaristico: “rispetto dell’imprescindibile legame fra il cognome del figlio e lo status filiationis, il «diverso accordo» resta circoscritto al cognome di uno dei due genitori e incarna la loro stessa volontà di essere rappresentati entrambi, nel rapporto con il figlio, dal cognome di uno di loro soltanto.

Su tali premesse, deve ritenersi costituzionalmente illegittima la mancata previsione della citata regola derogatoria, poiché impedisce ai genitori di avvalersi, in un contesto divenuto paritario, di uno strumento attuativo del principio di eguaglianza, qual è l’accordo, per compendiare in un unico cognome il segno identificativo della loro unione, capace di permanere anche nella generazione successiva e di farsi interprete di interessi del figlio.

Ebbene, i vari disegni di legge propongono[2] una diversa combinazione tra il criterio automatico ope legis del doppio cognome e quello volontaristico, con una preferenza, in via di massima[3], per quest’ultimo.

L’eguaglianza tra i coniugi, espressione della più ampia eguaglianza di genere, richiamata più volte dalla Consulta, è un valore trasversale che a norma dell’art. 3 Cost., primo e secondo comma, non comporta una mera equiparazione, con rischio di omologazione e appiattimento delle personalità e dei ruoli sociali, ma semmai, garantito il principio della non discriminazione, la valorizzazione del principio della differenza che si esprime, rimossi gli ostacoli di ordine sociale, economico ecc., nel riconoscimento dell’unicità della persona, secondo la propria personale interpretazione del sé, anche nella proiezione sociale: madre, padre, figlio e figlia, se ci limitiamo al solo contesto familiare.

Un ruolo sociale, si, ma inteso non come gabbia o stereotipo, quanto come riconoscimento di un contesto sociale nel quale esercitare concretamente e in modo personale i diritti e le libertà garantite dalla Carta costituzionale.

La riforma che sollecita da tempo la Consulta deve guardare alla parità dei coniugi come valore solidaristico dei vincoli familiari capace di garantire, al figlio e alla figlia, attraverso il riconoscimento del cognome al momento della nascita, il diritto pieno all’identità e quindi alla cittadinanza.

I nessi individuati dalla Consulta mi sembrano allora inscindibili e incomprimibili: non è casuale che cittadinanza, capacità giuridica e diritto al nome siano legati dall’art. 22 della Costituzione come elementi essenziali del riconoscimento giuridico della persona; che l’art. 1 del c.c stabilisca che la capacità giuridica si acquista al momento della nascita; che il successivo art. 6 c.c. stabilisca che ogni persona ha diritto al nome che “le è per legge attribuito, comprendendo nel nome sia il prenome che il cognome”.

I diritti civili e politici – promanazione dello status di cittadinanza – debbono essere riconosciuti e garantiti in quanto tali, e non necessitano di giustificazioni né possono essere condizionati da altrui diritti potestativi. I diritti al nome e alla pienezza identitaria, inquadrabili come diritti fondamentali della persona (dunque riconoscibili dal diritto contestualmente all’acquisizione dello status di cittadina/o), si radicano nella visione personalistica e solidaristica degli ordinamenti sovranazionali e costituzionali.

Punto focale dell’ordinamento democratico contemporaneo è la persona, la sua dignità, individuale e sociale, posta come fine ultimo delle garanzie e degli apparati del sistema politico e democratico.

In questa diversa prospettiva il diritto al nome e il diritto all’identità sono diritti assoluti; diversamente tornerebbe in vita l’istituto dell’autorizzazione maritale, espressione – nell’ambito dei rapporti familiari – della potestas dell’uomo e alla corrispondente subordinazione sia della moglie che della prole.

Se è vero questo presupposto, il legislatore dovrebbe tener conto degli aspetti pubblicistici e dell’interesse prioritario del minore, rimuovendo tutti gli ostacoli, anche quelli riconducibili ad un retaggio storico e legislativo.

È per questa ragione che ritengo prioritario garantire un meccanismo automatico di attribuzione del doppio cognome, regola attenuata e derogabile in relazione alla diversa volontà dei genitori.

L’automatismo del doppio cognome è innanzitutto espressione della riserva di legge relativa prevista dall’art. 6 comma 1 cc (che le è per legge attribuito); garantisce la doppia linea genitoriale che si riflette sul/sulla minore e al contempo l’eguaglianza genitoriale; inoltre semplifica il procedimento di dichiarazione dell’atto di nascita e di iscrizione nei registri di stato civile.

Ma non solo.

L’automatismo come regola generale garantisce il riconoscimento sociale e la dignità della madre e sarà fattore di superamento di un retaggio culturale che ancora non è stato del tutto superato.

D’altronde la storia sullo status della cittadinanza, vista dal punto di vista diacronico, è un’offesa alle donne italiane.

Mi sia consentita una breve digressione.

Il patriarcato – strettamente legato all’attribuzione del cognome per via patrilineare – è stato addirittura accentuato dalle rivoluzioni borghesi dell’ottocento, all’esito delle quali si sono edificati gli stati moderni.

La cittadinanza, come già precisato, è la condizione giuridica di appartenenza della persona a una comunità politica, dalla quale discende il riconoscimento dei suoi diritti e doveri. La L. 91/1992, attualmente vigente, abroga la precedente L. 555/1912 che riconosceva alle donne del Regno una semi-cittadinanza, subalterna, instabile e condizionata, che si rifletteva anche nella filiazione (artt. 1 e 10[4]).

Il quadro di riferimento era il seguente.

Lo Statuto Albertino riconosceva sì l’eguaglianza, ma solo per tutti i regnicoli, considerato che le donne non avevano alcuna soggettività politica, perché sottomesse alla patria potestas del padre e poi del marito: nessun diritto di voto, di accesso alle carriere pubbliche, alle professioni, alla gestione del proprio patrimonio.

Il Codice Civile del 1865 sanciva formalmente che è cittadino il figlio di padre cittadino.

La Carta costituzionale sanciva finalmente l’ingresso delle donne nella comunità, con pari diritti e doveri, e soprattutto il diritto di voto attivo e passivo. Tuttavia molte leggi, espressioni del patriarcato, rimanevano in vigore.

Con la sentenza n. 87 del 1975 la Corte costituzionale dichiarava irragionevole la discriminazione in materia di cittadinanza nei confronti delle donne che contraggono matrimonio con lo straniero. Per tale ragione, nell’ambito della riforma del diritto di famiglia fu introdotta una disposizione riparatoria (art. 219 Legge 151 del 1975) di “riconoscimento” della cittadinanza per le donne che l’avevano persa in applicazione della disposizione di legge dichiarata incostituzionale. Con la sentenza n. 30 del 1983 la Corte costituzionale si pronunciava per l’illegittimità dell’art. 1, n.1 della Legge 555 del 1912 “nella parte in cui non prevede che il figlio di moglie cittadina che abbia conservato la cittadinanza pur dopo del matrimonio con lo straniero abbia la cittadinanza italiana”. L’incompatibilità costituzionale veniva riscontrata in relazione agli artt. 3 e 29 della Costituzione.

Dopo ben ottanta anni dalla Legge del 1912 il legislatore ha riformato la disciplina sulla cittadinanza. L’art. 1 comma 1 lett a) della legge 91/1992 sancisce che acquistano di diritto alla nascita la cittadinanza italiana coloro i cui genitori, anche solo il padre o la madre, siano cittadini italiani. La cittadinanza jure sanguinis è effetto automatico che si realizza al momento della nascita. Inoltre la stessa è acquisita anche per riconoscimento della filiazione o a seguito dell’accertamento giudiziale della filiazione. Detto criterio è poi completato in via residuale dal criterio alternativo dello jus soli.

Dunque la cittadinanza delle donne non può che implicare, finalmente, il diritto delle stesse a trasmettere ai propri figli il proprio cognome, ma nella prospettiva identitaria di completa rappresentazione di entrambe le linee genitoriali.

Questo il piano valoriale tracciato dalla Costituzione, al quale si affianca il compito del legislatore di semplificare ed evitare contenziosi.

Analogamente a quanto può avvenire per il nome (prenome), il cognome, per effetto delle pronunce della Consulta, cambia la sua composizione e diventa, di regola, composto da due elementi onomastici, l’uno per il riconoscimento matrilineare, l’altro per quello patrilineare.

Quindi, è bene evidenziarlo, tale meccanismo non è affatto nuovo, ma già presente nell’ordinamento.

L’art.  35/1 (Nome) del DPR 396/2000 Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127, sancisce infatti che “Il nome imposto al bambino deve corrispondere al sesso e può essere composto da uno o da più elementi onomastici, anche separati, non superiori a tre. In quest’ultimo caso, tutti gli elementi del prenome dovranno essere riportati negli estratti e nei certificati rilasciati dall’ufficiale dello stato civile e dall’ufficiale di anagrafe”.  

Pertanto non vi è alcuna difficoltà a riconoscere, ope legis, che il cognome sia di norma composto da due elementi onomastici e che ogni genitore, madre e padre, indichi l’elemento onomastico di propria pertinenza, scegliendo, se già in possesso di doppio cognome, un   solo elemento da trasmettere al figlio e alla figlia.

Il che eviterebbe qualsiasi rischio di moltiplicazione dei cognomi nel succedersi delle diverse generazioni, e al contempo la conflittualità tra i genitori, autonomamente e reciprocamente responsabili circa la modalità di riconoscimento della propria linea genitoriale, e di questa soltanto.

Un meccanismo automatico così concepito dovrebbe includere anche l’ordine dei cognomi seguendo, in termini di ragionevolezza, il fatto naturale oggetto della dichiarazione di nascita, nella sua progressione cronologica di manifestazione fenomenica. In primis il parto e il nome della puerpera come espressamente previsto dall’’art. 30, commi 2 e 3, DPR 396/2000[5] .

Conseguentemente, il primo elemento onomastico dovrebbe essere quello matrilineare, legato all’evento parto che è il primo e imprescindibile contenuto della dichiarazione di nascita, il secondo, quello patrilineare, espressione del riconoscimento della paternità, generalmente contestuale al momento della medesima dichiarazione. In tal modo sarebbe assicurata, in via presuntiva, anche la funzione di riconoscibilità sociale della doppia linea genitoriale e delle rispettive famiglie di appartenenza.

Un sistema automatico, ope legis, rispettoso dell’eguaglianza e della piena identità non può essere rigido, dovendo il legislatore garantire tutti gli adattamenti che scaturiscono dalle vite concrete delle persone. In tal senso la giurisprudenza della Corte dei Diritti dell’Uomo censura sì il criterio automatico, ma solo nella misura in cui lo stesso risulti rigido, non derogabile.

L’opzione eventuale e alternativa, rimessa alla diversa e concorde volontà dei genitori, potrebbe ricadere o sul diverso ordine da dare ai due elementi onomastici, ovvero sulla scelta di attribuzione di un solo elemento onomastico, indifferentemente patrilineare ovvero matrilineare.

Dal momento che la deroga presupporrebbe l’accordodei genitori, in assenza del quale opererebbe l’automatismo, – regola generale – si eviterebbero anche le ipotesi di conflitto e dunque di contenzioso.

Il criterio automatico e derogabile, così delineato, sarebbe anche speculare rispetto al regime patrimoniale legale tra i coniugi, previsto dall’art. 159 c.c. (L. 151/1975), regime legale che opera in mancanza di diversa convenzione.

In questo modo si completerebbe la riforma del diritto di famiglia del 1975, riforma organica che pur attuando il principio dell’eguaglianza morale e giuridica dei genitori, ha lasciato per anni una discriminazione identitaria e simbolica inaccettabile, nei confronti della madre, dei figli e delle figlie                                                                         


* Il presente scritto prende spunto dall’intervento al Convegno tenutosi il 7 marzo 2024 a Roma, presso la Sala degli Atti parlamentari del Senato, “Il lungo percorso delle pari opportunità. Quali priorità per il cambiamento?”, organizzato dal Consiglio Nazionale del Notariato e dall’Associazione Rete per la Parità. 

[1] Senato, 19° Legislatura, Commissione Giustizia, in sede redigente (2) Julia UNTERBERGER.  Disposizioni in materia di attribuzione del cognome ai figli;  (21) Simona Flavia MALPEZZI e altri.  Modifiche al codice civile in materia di cognome; (131) Alessandra MAIORINO.  Disposizioni in materia di attribuzione del cognome ai figli (918) Ilaria CUCCHI e altri.  Nuove disposizioni in materia di attribuzione del cognome ai coniugi e ai figli

[2] Si vedano in proposito le diverse formulazioni dell’art. 143 quater cc.

[3] Il DDL Maiorino privilegia infatti il doppio cognome, come regola generale a protezione della piena identità del/della minore

[4] Art. 24 Statuto Albertino.  Artt. da 4 a 5 del Codice del 1865. Sent. Corte costituzionale 87/1975 che dichiara l’illegittimo l’art. 10 terzo inciso L. 555/1912: L’art. 10 si ispira, come risulta dalla dottrina e dai commenti susseguenti alla sua emanazione, alla concezione imperante nel 1912 di considerare la donna come giuridicamente inferiore all’uomo e addirittura come persona non avente la completa capacità giuridica (fra l’altro a quel tempo non erano riconosciuti alla donna diritti politici attivi e passivi ed erano estremamente limitati i diritti di accedere a funzioni pubbliche), concezione che non risponde ed anzi contrasta ai principi della Costituzione che attribuisce pari dignità sociale ed uguaglianza avanti alla legge di tutti i cittadini senza distinzione di sesso e ordina il matrimonio sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi. È indubbio che la norma impugnata, stabilendo nei riguardi esclusivamente della donna la perdita della cittadinanza italiana, crea una ingiustificata e non razionale disparità di trattamento fra i due coniugi. La differenza di trattamento dell’uomo e della donna e la condizione di minorazione ed inferiorità in cui quest’ultima è posta dalla norma impugnata si evidenzia ancora maggiormente per il fatto che la perdita della cittadinanza, stato giuridico costituzionalmente protetto e che importa una serie di diritti nel campo privatistico e pubblicistico e inoltre, in particolare, diritti politici, ha luogo senza che sia in alcun modo richiesta la volontà dell’interessata e anche contro la volontà di questa. La norma impugnata pone in essere anche una non giustificata disparità di trattamento fra le stesse donne italiane che compiono il medesimo atto del matrimonio con uno straniero, facendo dipendere nei riguardi di esse la perdita automatica o la conservazione della cittadinanza italiana dall’esistenza o meno di una norma straniera, cioè di una circostanza estranea alla loro volontà.

La norma viola palesemente anche l’art. 29 della Costituzione in quanto commina una gravissima disuguaglianza morale, giuridica e politica dei coniugi e pone la donna in uno stato di evidente inferiorità, privandola automaticamente, per il solo fatto del matrimonio, dei diritti del cittadino italiano. Come rileva il giudice a quo, la norma non giova, rispetto all’ordinamento italiano, all’unità familiare voluta dall’art. 29 della Costituzione, ma anzi è ad essa contraria, in quanto potrebbe indurre la donna, per non perdere un impiego per cui sia richiesta la cittadinanza italiana o per non privarsi della protezione giuridica riservata ai cittadini italiani o del diritto ad accedere a cariche ed uffici pubblici, a non compiere l’atto giuridico del matrimonio o a sciogliere questo una volta compiuto.3. – Pertanto è in contrasto con la Costituzione non dare rilievo alla volontà della donna di conservare l’originaria cittadinanza italiana, salva la discrezionalità del legislatore di disciplinare le relative modalità. Devesi quindi dichiarare, in riferimento agli artt. 3 e 29 della Costituzione, la illegittimità costituzionale della disposizione di cui al terzo comma dell’art. 10 della legge n. 555 del 1912 nella parte in cui prevede che la donna cittadina, che si marita ad uno straniero, perde, indipendentemente dalla sua volontà, la cittadinanza, sempreché il marito possieda una cittadinanza che per effetto del matrimonio a lei si comunichi.

[5] 30 commi 2 e 3: Ai fini della formazione dell’atto di nascita, la dichiarazione resa all’ufficiale dello stato civile è corredata da una attestazione di avvenuta nascita contenente le generalità della puerpera nonché le indicazioni del comune, ospedale, casa di cura o altro luogo ove è avvenuta la nascita, del giorno e dell’ora della nascita e del sesso del bambino. 3. Se la puerpera non è stata assistita da personale sanitario, il dichiarante che non è neppure in grado di esibire l’attestazione di constatazione di avvenuto parto, produce una dichiarazione sostitutiva resa ai sensi dell’articolo 2 della legge 4 gennaio 1968, n. 15.

**Avvocata del Foro di Roma – Rete per la Parità 

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