Abulia legislativa e necessità di garanzie sostanziali in tema di diritti in carcere: l’attività di supplenza del giudice costituzionale nella decisione n. 10 del 2024

LAURA FABIANO*

In data 31 gennaio è stata pubblicata la decisione n. 10 del 2024 con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 della legge sull’ordinamento penitenziario «nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del suo comportamento in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie».
La detta sentenza è stata accolta con grande interesse dalla dottrina e dall’opinione e pubblica nazionale e si rivela particolarmente stimolante da analizzare sia in relazione alla questione di merito sia con riguardo ai profili processuali ed argomentativi che la caratterizzano.
In relazione al primo aspetto, infatti, la decisione rappresenta una svolta significativa nella questione carceraria italiana aprendo essa ad un diritto dei ristretti, quello all’affettività (ed alla sessualità), sancito come da garantire necessariamente (ed attraverso soluzioni concrete) e da non considerarsi più quale “interesse cedevole” : difatti, precedentemente, a fronte della difficile gestione delle carceri italiane, segnate da numerose gravi problematiche in termini di sovraffollamento e tutela delle garanzie più basiche (in relazione a cui il nostro Paese è stato anche sanzionato dalla Corte EDU nella nota sentenza Torreggiani v. Italia nel 2013), il diritto ai rapporti affettivi ed alla sessualità intramuraria per i detenuti è stato spesso percepito come un surplus sottovalutabile (se non, addirittura, come un’inopportuna pretesa) o, al più, in considerazione della complessità della questione carceraria, è stato subordinato a scelte legislative futuribili.
In relazione al secondo aspetto, la decisione è particolarmente importante in termini processuali in quanto si propone come una sentenza additiva di principio che si inserisce in un trend giurisprudenziale oramai da considerarsi piuttosto sviluppato e corrisponde ad una significativa tendenza della Corte costituzionale ad attribuire a se stessa, nel sistema dei poteri (e particolarmente nel rapporto con il legislatore), un ruolo attivo incidendo, dunque, considerevolmente sul tema della separazione dei poteri.
La sentenza è infine significativa sotto il profilo argomentativo giacché è fra quelle decisioni ove la valutazione dei profili di costituzionalità della normativa italiana è realizzata valorizzando oltre che diritto convenzionale anche il diritto comparato. I richiami al diritto straniero (in particolare i riferimenti sono ai parlatori familiari -parloirs familiaux- e alle unità di vita familiare -unités de vie familiale- previsti nel codice penitenziario francese; alla possibilità delle comunicaciones íntimas disciplinate dal regolamento penitenziario spagnolo e alle visite di lunga durata -Langzeitbesuche-, ammesse dalla legislazione penitenziaria di molti Länder tedeschi) così come la valorizzazione, nella parte motiva della decisione, delle osservazioni avanzate dall’associazione Antigone (attiva nella promozione dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario) in qualità di amicus curie, segnalano certamente la volontà da parte del giudice costituzionale di sottolineare, al di là della necessità che vi sia rigore giuridico nel rapporto interpretativo fra oggetto e parametro, l’esigenza sociale sottostante alla decisione assunta ed il fatto che esistono possibili soluzioni legislative al problema denunciato dal giudice remittente; questione che, secondo la Corte, non può più attendere.
Il tema oggetto della decisione, in effetti, non è nuovo: nell’ambito della giurisprudenza costituzionale la sentenza numero 10 rappresenta infatti l’epilogo di una vicenda annosa della quale la medesima Corte era già stata interessata nel 2012. In quell’occasione il giudice costituzionale aveva adottato una sentenza monitoria (la numero 301) nella quale pur affermando che «permettere alle persone sottoposte a restrizione della libertà personale di continuare ad avere relazioni affettive intime, anche a carattere sessuale» costituisce «una esigenza reale e fortemente avvertita» e rappresenta «un problema che merita ogni attenzione da parte del legislatore», aveva sancito l’inammissibilità della questione (prospettata dall’allora giudice remittente di Firenze) sottolineando l’inadeguatezza degli strumenti processuali a disposizione della medesima Corte a fronte della complessità della problematica la cui risoluzione richiedeva un intervento normativo articolato e caratterizzato da scelte discrezionali tipicamente proprie del legislatore.
La decisione del 2024 rappresenta una sorta di secondo atto rispetto a tale prima presa di posizione e costituisce in effetti una necessaria premessa processuale per le decisioni che in essa si assumono.
Nella sentenza numero 10, infatti, il giudice costituzionale valuta, fra gli elementi che avvallano la necessità di una pronuncia di accoglimento della questione, proprio il lungo trascorrere del tempo fra la decisione del 2012 è il caso in corso di valutazione in relazione al quale rileva che il quadro normativo di riferimento si è in effetti evoluto e non ha tuttavia conseguito gli obiettivi, in termini di garanzie normative di alcuni importanti diritti fondamentali, definiti nella decisione monitoria del 2012.
Ciò considerando, la Corte decide di “rompere ogni indugio” e non solo accoglie la questione ma, «al fine di garantire l’effettività dei principi di cui si è detto…», si dilunga a «rimarcare alcuni profili conseguenti alla sentenza» pronunciata fornendo una serie di indicazioni pratiche concernenti le modalità attraverso cui garantire, in concreto, il principio enucleato nella decisione. Tali indicazioni (che riguardano questioni anche molto pratiche come la durata dei colloqui intimi e la caratterizzazione dei luoghi ove gli stessi dovrebbero avvenire) sono rivolte certamente al legislatore che voglia in futuro intervenire sul tema (la cui discrezionalità viene, tuttavia, con una classica formula di stile, fatta salva dalla Corte in chiusura); nondimeno è evidente come le medesime indicazioni sono esplicitamente finalizzate a consentire l’immediata esecutività della sentenza da parte di tutti coloro che, ad ogni livello, sono coinvolti in tale ambito.
La n. 10 del 2024 risulta dunque una sentenza particolarmente significativa in termini di “esecutività” del giudicato e si pone in linea con una serie di recenti decisioni (le sostitutive e le additive “a rime non obbligate”, le decisioni con “doppia pronuncia”, le additive di principio con effetti differiti) considerate proprie di una (oramai “relativamente recente”) stagione giurisprudenziale nella quale la Corte, reagendo con energia all’inerzia legislativa ed al mancato ascolto dei precedenti moniti rivolti al Parlamento dalla Corte, ridefinisce gli stessi confini del sindacato costituzionale.
La caratterizzazione applicativa della detta sentenza si pone in stretta connessione e altresì valorizza la dimensione dialogica multilaterale nella quale la Corte opera; rapporto dialogico che, inizialmente instaurato con il legislatore, diviene successivamente “polifonico” andando a coinvolgere tutti i soggetti eventualmente coinvolti nella vicenda giuridica sottostante al caso (e dunque, il giudice a quo, ma anche l’amministrazione carceraria e la magistratura di sorveglianza) oltre che, inevitabilmente, l’opinione pubblica che assiste (e, sotto alcuni limitati profili, attraverso lo strumento degli amici curiae, partecipa) all’evoluzione dinamica della vicenda processuale.
Siamo dunque ben oltre la strutturazione originaria del procedimento sorto in via incidentale talché è evidente che ai due fondamentali rapporti dialogici più tradizionalmente concepiti (con il legislatore e con i giudici a quibus) la giurisdizione costituzionale ha ritenuto di associare a sé stessa nuovi interlocutori spingendosi finanche, in questo specifico caso, a rivolgersi al personale di pubblica amministrazione (penitenziaria). Anche tale risvolto rientra certamente in una tendenza giurisprudenziale, propria di questi anni, di valorizzazione della dimensione “ipersostanziale” del controllo di costituzionalità giustificata dall’abulia del legislatore e dalla improcrastinabile esigenza di tutela oramai maturata da alcuni diritti fondamentali negati, di fatto, per troppo tempo.

*Professoressa associata di Diritto pubblico comparato presso l’Università degli Studi di Bari

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