GIOVANNA RAZZANO*
Riuniti nella reggia di Versailles, lo scorso 4 marzo i parlamentari francesi hanno votato a larga maggioranza per l’inserimento dell’aborto in Costituzione. Il testo si inserisce nell’art. 34, che garantisce i diritti e le libertà fondamentali, e prevede che «la legge determina le condizioni nelle quali si esercita la libertà garantita alla donna di far ricorso a una interruzione volontaria di gravidanza».
Circa un mese dopo, l’11 aprile, è stata la volta di Bruxelles, che ha votato – anche qui con ampia maggioranza – una risoluzione che auspica che «il diritto all’aborto sia aggiunto alla Carta dei diritti fondamentali dell’Ue».
I due fatti sono fra loro collegati sotto diversi profili.
La Francia non è solo il primo Paese ad aver incluso la libertà di abortire fra i valori costituzionali, ma è anche il primo in Europa per numero di aborti: 234.300 solo nel 2022. Su 1.000 nati, vi sono 119 aborti in Germania, 159 in Italia e 300 in Francia. La modifica costituzionale in funzione dell’agevolazione degli aborti, pertanto, non era necessaria.
Quanto alla risoluzione dell’Europarlamento, oltre al fatto che il tema fuoriesce dalle competenze delle istituzioni europee, l’auspicio che contiene non ha alcuna chance di successo, dato che per modificare la Carta occorre l’unanimità degli Stati membri e l’aborto non è considerato «diritto» da tutti gli Stati europei (compresa l’Italia, dove l’aborto, alle condizioni indicate dalla legge n. 194/1978, è lecito ma non è qualificato «diritto», tanto è vero che vengono previste misure per prevenirlo; e i diritti non si prevengono).
Entrambe le votazioni presentano dunque un significato eminentemente simbolico. Si tratta insomma di bandiere, ed è lecito dubitare che il vento che le muova soffi davvero in favore delle donne, e non piuttosto di qualche interesse politico (maschile), come fra un attimo si dirà.
Entrambe le iniziative, in secondo luogo, nascono come reazione alla sentenza Dobbs della Supreme Court degli Stati Uniti del 24 giugno 2022. Quest’ultima, com’è noto, ha annullato la storica sentenza la Roe del 1973, che era giunta, sulla base del right to privacy, a sua volta desunto in via interpretativa dal XIV Emendamento, a qualificare l’aborto come un diritto addirittura di rango costituzionale. In tal modo la Corte americana aveva imposto agli Stati Usa, per 50 anni, una disciplina – totalmente scritta in via giurisprudenziale – basata sui trimestri di gravidanza. E ciò in base all’assunto per cui il nascituro sarebbe stato per sei mesi un «essere umano potenziale», rispetto a cui doveva prevalere la volontà della donna, salvo che dal settimo mese di gravidanza (terzo trimestre), quando gli Stati USA avrebbero potuto, a discrezione, tutelarne la vita, in quanto il feto potrebbe sopravvivere anche fuori dall’utero materno.
La sentenza Dobbs, invece, dopo aver confutato il fondamento costituzionale del diritto di aborto, ha dichiarato che, in base alla Costituzione americana, compete piuttosto ai Parlamenti degli Stati e non alla Supreme Court disciplinare la materia, trattandosi di scelte politiche che attengono al bilanciamento di interessi, che spettano ai legislatori sulla base del mandato elettorale e delle valutazioni dei cittadini e delle cittadine (queste ultime, fra l’altro, in maggioranza proprio nel Parlamento dello Stato del Mississippi, che aveva approvato una legge sull’aborto più restrittiva della disciplina Roe, all’origine della vicenda).
Il punto però è soprattutto il seguente: la sentenza Dobbs ha qualificato l’aborto «una grave questione morale» (a profound moral issue), e ha affermato che occorre ponderare e disciplinare una pluralità di interessi, oltre alla volontà della donna: la protezione della vita prenatale ad ogni livello di sviluppo, la stessa protezione della salute e della sicurezza della madre, l’eliminazione di procedure mediche orribili o barbare, la mitigazione del dolore fetale, la preservazione dell’integrità della professione medica, la prevenzione di discriminazioni sulla base della razza, del sesso o della disabilità.
Il voto francese e quello di Bruxelles, in risposta, tornano a considerare l’aborto unicamente in termini di «libertà della donna», rifiutando così la complessità della questione.
Non è un caso, quindi, che il Consiglio di Stato francese, chiamato a esprimersi sulla riforma costituzionale in itinere, abbia voluto menzionare la sentenza Dobbs per definirla «un’onda d’urto per le libertà in tutto il mondo». È vero che, al contempo, ha anche parlato di equilibrio fra due valori costituzionali: la libertà della donna e la salvaguardia della dignità della persona umana. Ma non ha precisato se al nascituro vada riconosciuta tale dignità. Ha tralasciato, inoltre, qualsiasi considerazione degli altri problemi, come il rispetto della coscienza medica e l’attenzione alla giustizia sociale e alle discriminazioni; incluse quelle riguardanti le donne che non vorrebbero abortire ma non trovano aiuto ai loro problemi sociali ed economici (emarginazione, solitudine, violenza, indigenza, ignoranza, etc.).
Va osservato, ancora, che le due iniziative hanno la stessa matrice politica. Sono state incoraggiate da Emmanuel Macron, che aveva promesso agli attivisti pro aborto una risposta alla «reazionaria» sentenza Dobbs. Il Presidente francese ha cercato così di intestarsi una battaglia popolare e simbolica nel mondo «progressista», per rimediare alla sua popolarità in calo. A promuovere la medesima battaglia a Bruxelles, sono stati, ancora, i liberali-macroniani di Renew (oltre a Socialisti e Democratici, Verdi e Sinistra).
Né va dimenticato quel fatto, senza precedenti nella storia americana, del trafugamento della sentenza Dobbs quando ancora era in bozza, con successiva pubblicazione su Politico. Chissà cosa emergerà dall’inchiesta in corso. Quel che va ricordato è che, a seguito alla fuoriuscita del documento riservato, avvenuta il 2 maggio 2022, il Parlamento europeo, con risoluzione del successivo 9 giugno, senza neppure aspettare la pubblicazione della sentenza, volle esprimere tutta la sua preoccupazione per una futura sentenza USA che potesse ledere i diritti delle donne e si sentì in dovere di incoraggiare fortemente il governo d’oltreoceano a rimuovere gli ostacoli all’aborto. Per non parlare delle violenze e degli atti di vandalismo esplosi negli Stati Uniti – sempre ancor prima della pubblicazione della sentenza – al punto che si dovette recintare la Supreme Court e proteggere l’incolumità dei giudici costituzionali.
La pacatezza, su questo tema, dovrebbe invece essere d’obbligo, per favorire il dialogo e la riflessione anziché lo scontro ideologico.
A quest’ultimo riguardo, lascia perplessi, al di là della strumentalizzazione del tema per finalità elettorali (deluse), che documenti costituzionali possano considerare addirittura «fondativo» l’aborto. Questo infatti, a prescindere da come lo si veda, significa in ogni caso la rottura della relazione umana primordiale fra madre e figlio; significa quindi assurgere a principio dell’ordinamento giuridico una divisione, un conflitto, anzi la rottura del rapporto umano in assoluto più fondante e originario.
Sull’unicità della relazione fra l’embrione e il corpo materno, che lo riconosce come se stesso e, contemporaneamente, come altro da sé, coniugando identità e relazione nel rispetto dell’una e dell’altra, si sono scritte pagine molto belle, proprio nell’ambito del pensiero femminista (cfr. fra le altre L. Irigaray; L. Muraro). Lo stesso vale per la narrazione del legame simbiotico, totale e profondissimo, fisico e psichico, fra madre e figlio, lacerato dalla pratica della maternità surrogata, dove l’obbligo di consegna implica, all’opposto, disintegrazione (S. Niccolai, E. Olivito, F. Angelini, fra le altre).
Con l’aborto viene interrotta la stessa relazione. Con questa consapevolezza andrebbe allora promossa, in un’ottica di solidarietà, e a partire proprio dall’universo femminile, ogni azione di prevenzione delle cause che portano all’aborto. La stessa Simone Veil lo qualificava «un dramma», nella consapevolezza della sofferenza che genera, e che solo le donne possono comprendere pienamente. In Italia la prevenzione è richiesta dalla stessa legge 194; mentre la Costituzione promette di proteggere la maternità favorendo gli istituti necessari a tale scopo.
La prevenzione, intesa innanzitutto come ascolto dei problemi e come comprensione delle situazioni, è proprio quello che esigono i valori di liberté, égalité e fraternité. Se si impone un’unica soluzione non c’è libertà. Non c’è neppure quando le pressioni – talvolta di un uomo – gravano su una donna vulnerabile. I dati mostrano poi dappertutto che sono le donne straniere quelle che vi fanno maggiore ricorso. E che pertanto le condizioni sociali ed economiche sono fattori che influiscono sulla decisione di abortire.
È vero, le maggioranze che hanno votato a favore dell’inserimento dell’aborto nella Costituzione francese e nella Carta dei diritti UE sono state molto elevate. Ma occorre anche tenere conto di quanto è emerso da alcuni sondaggi promossi proprio in Francia, dall’IFOP, nel 2020: l’88% dei francesi si aspetta che i poteri pubblici lancino una vera prevenzione dell’aborto e conducano uno studio per analizzarne le cause, le condizioni e le conseguenze; il 73% pensa che la società dovrebbe aiutare maggiormente le donne ad evitare il ricorso all’IVG, e il 92 % ritiene che un aborto lascia segni psicologici difficili da vivere per le donne.
*Professoressa Ordinaria di Istituzioni di Diritto pubblico – “La Sapienza” Università di Roma; componente del Comitato Nazionale di Bioetica.
Sul medesimo argomento vedi anche il contributo di Giacomo D’Amico
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