UGO ADAMO*
D’altro lato, i nuovi regolamenti parlamentari hanno previsto e
disciplinato i procedimenti opportuni per stimolare il legislatore
a prendere atto al più presto delle decisioni della Corte
ed a provvedere in conseguenza[1]
1. Nonostante i forti, continui e pressanti moniti, rimasto inalterato l’immobilismo spiazzante del Parlamento in tema di questioni inerenti ai diritti dei pazienti che chiedono, al verificarsi di precise circostanze di malattia e di sofferenza, di terminare in modo dignitoso la propria esistenza, la Corte costituzionale è stata chiamata ancora una volta a pronunciarsi in tema di fine vita. Lo ha fatto con la sentenza n. 135 del 2024, che è la quarta decisione in tema che la Corte deposita in sei anni.
Prima di richiamare i punti cardine di quella che è una sentenza interpretativa di rigetto (mascherata) con la quale si avalla una interpretazione di tipo estensivo di uno dei requisiti richiesti dalla giurisprudenza costituzionale pregressa, pare quanto meno opportuno ricapitolare le conclusioni giurisprudenziali in tema di aiuto al suicidio.
Con la prima decisione (ordinanza 207/2018) il giudice delle leggi ha cercato una leale collaborazione con il Parlamento, il quale, però, ha “risposto” con un silenzio insofferente che ha riattivato il processo costituzionale portando alla sentenza n. 242/2019 e con essa a un parziale accoglimento della questione. All’interno di una precisa «procedura medicalizzata» non è più punibile chi agevola il suicidio di colui che, affetto da una patologia irreversibile e oppresso da sofferenze psico-fisiche che ritiene insopportabili, rimane comunque capace di esprimere un libero consenso. A queste tre condizioni, si aggiunge quella per la quale la persona sopravvive esclusivamente grazie a trattamenti di sostegno vitale.
Con tale conclusione, la Corte ha assunto l’irragionevolezza del divieto assoluto dell’aiuto al suicidio trattato in un disposto codicistico fascista che accoglieva la ratio della indisponibilità della vita, messa poi in discussione con l’entrata in vigore della Costituzione e interpretata in un tempo in cui la sofisticazione dell’arte medica ha raggiunto una tecnicizzazione tale da renderne l’uomo suo oggetto.
Da ciò solo, comunque, non si può desumere un’assolutizzazione del principio di autodeterminazione in un ordinamento in cui, seppur non esista il dovere di vivere, l’interesse primario da garantire è non solo il rispetto di tale principio ma lo stesso diritto alla vita; è nella ricerca di un costante bilanciamento tra diritti che si deve assicurare la difesa (anche) dei soggetti più vulnerabili, intorno ai quali, id est, lo stesso ordinamento deve mantenere una «cintura protettiva».
2. La Corte, per non farsi Legislatore, con la sent. n. 242/2019 si posiziona dietro le “rime possibili” e, anche al fine di depositare una sentenza auto-applicativa, impiega come tertium comparationis per lo scrutinio dell’art. 580 c.p. la normativa già disponibile nell’ordinamento e, così facendo, rileva una disparità di trattamento tra chi può rinunciare autonomamente ai trattamenti sanitari e giungere al proprio fine vita (secondo la l. n. 219 del 2017) e chi, invece, non può farlo senza l’intervento di un terzo (vietato in modo assoluto dall’art. 580 c.p.). Per questo, l’accoglimento parziale della questione con una additiva di regola è parso come una risoluzione “appiattita” sul caso concreto e, di conseguenza, incompleta. Ciò è quanto si evinceva da quanto accadeva a Massa proprio negli stessi giorni in cui veniva depositata la sentenza del 2019, alla luce di un altro “caso” rappresentato in modo idealtipico dalla vicenda umana e di malattia di Davide Trentini, malato che come Fabiano Antoniani (dalla cui vicenda sono scaturite le decc. 207/2018 e 242/2019) chiedeva una morte dignitosa, ma che, a differenza di quest’ultimo, non era dipendente da alcun trattamento sanitario. Il “caso” di Davide Trentini, che non rientrava nella tipizzazione di quelli ammissibili così come “costruita” dalla Corte (per l’appunto, sulla base delle condizioni di malattia di Fabiano Antoniani), rimaneva irrisolto e chiedeva di essere preso in considerazione e dalla politica e dalla giurisdizione.
Prescindendo dalla soluzione poi adottata dalla giurisprudenza di merito, da subito è parso evidente che il requisito del trattamento del sostegno vitale (TSV) fosse ultroneo rispetto alla tutela del bene vita e dei soggetti vulnerabili, e che fosse solo servito alla Corte per rilevare una diseguaglianza fra situazioni (di non facere e di facere) non equiparabili, potendosi far derivare l’incostituzionalità dalla irragionevolezza intrinseca del divieto assoluto di aiuto al suicidio e dall’assenza totale di bilanciamento tra beni costituzionali (autodeterminazione e vita) a tutto favore di uno solo di essi (vita) presente nell’art. 580 c.p.
L’aver intrapreso la strada della disparità di trattamento ha determinato una impostazione assai restrittiva e vincolante la Corte, i cui limiti giurisprudenziali si palesano con chiarezza nella sentenza n. 135, e sono vieppiù accentuati dalla sent. n. 50/2022 (pronunciata in tema di giudizio referendario e su altra fattispecie), con la quale la Corte ha ribadito non solo che è «dovere dello Stato di tutelare la vita umana» ma anche che questa, in quanto valore, «si colloca in posizione apicale nell’ambito dei diritti fondamentali della persona».
3. Che la sentenza n. 135 fosse una pronuncia importante lo si poteva facilmente evincere, tra l’altro, dalla nomina di due giudici relatori (e poi redattori); dalla dichiarazione di ammissibilità degli interventi di L.S. e M.O. nel giudizio costituzionale, pur non essendo questi parti del giudizio principale; dalla presentazione di innumerevoli scritti di amici curiae; dal parere del CNB su ciò che si doveva intendere per trattamento di sostegno vitale, depositato il 20 giugno 2024 (il giorno dopo l’udienza pubblica tenutasi il 19) in risposta a un quesito presentato il 3 novembre 2023.
Fra le tante questioni (sulle altre, almeno, A. Ruggeri; P. Veronesi); se ne tratteranno solo due: quella inerente alla mancata assunzione della irragionevolezza della presenza del requisito dei trattamenti salva vita e quella della richiamata collaborazione del Parlamento.
Se la ratio dei precedenti in materia è stata quella di ritenere irragionevole precludere l’accesso al suicidio assistito di pazienti che già avevano il diritto di decidere di porre fine alla propria vita rifiutando il trattamento necessario ad assicurarne la sopravvivenza (subendo, però, un processo più lento di una morte comunque certa), la conseguenza – per la Corte – è che essa non si possa estendere a pazienti che non dipendano da trattamenti di sostegno vitale. Ma tale modo di procedere ha precluso al giudice delle leggi di prendere in considerazione la disposizione (e la norma) – e non già la ratio della propria giurisprudenza – che valendo la presenza del TSV era invece parsa al giudice a quo (e a parte della dottrina) in violazione del principio di non discriminazione per «condizioni personali» nei confronti di chi, pur in assenza di un tale trattamento sanitario, e mantenendo la capacità di autodeterminarsi, richieda un medesimo aiuto medicalizzato alla propria fine a causa di una patologia irreversibile che provoca sofferenze intollerabili. La Corte, in assenza di un intervento legislativo, chiarisce che in materia non può spingersi oltre. Ha dinanzi a sé un limite, che è invalicabile.
Ma per come abbiamo cercato di argomentare, si tratta di un limite scaturente dai precedenti.
4. Il requisito del TSV rimane, e non viene rimosso per come richiesto dal giudice a quo (sull’ordinanza di rimessione del giudice fiorentino si v. A. D’Aloia) ma è sottoposto a una chiara interpretazione dalla portata estensiva (G. Azzariti), che produce, data l’impostazione della pronuncia, significativi passi in avanti. Significativi in quanto risolvono tutta una serie di “casi” rimessi finora alla decisione “parziale” dell’amministrazione sanitaria e della magistratura. Per la Corte, anche alla luce di una copiosa ma non granitica giurisprudenza in tal senso, il TSV è non solo quel trattamento che è sostitutivo delle funzioni vitali, ma un qualsiasi trattamento sanitario «praticato sul proprio corpo, indipendentemente dal suo grado di complessità tecnica e di invasività. Incluse, dunque, quelle procedure che sono normalmente compiute da personale sanitario, e la cui esecuzione richiede certo particolari competenze oggetto di specifica formazione professionale, ma che potrebbero essere apprese da familiari o “caregivers” che si facciano carico dell’assistenza del paziente» (p.to 8 cons. in dir.). La Corte richiama, alla luce dei “casi”, l’evacuazione manuale dell’intestino del paziente, l’inserimento di cateteri urinari, l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali, ovverosia tutte quelle procedure che, assicurando l’espletamento di funzioni vitali del paziente, comportano che la loro omissione o interruzione determini «prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo».
Così come i “casi” hanno pressato la giurisprudenza commentata, essi continueranno a farlo per una nuova casistica perché naturaliter si pongono fuori dal perimetro tracciato da una decisione che non è esercizio della funzione nomopoietica. E allora, i “casi” costringeranno il giudice (stante il divieto del non liquet) a rispondere, per esempio, a quale sia la concretizzazione di un lasso di tempo «breve».
Eccoci ritornati al limite della giurisprudenza in tema di aiuto al suicidio: senza una organica legge sul fine vita (aiuto medicalizzato a morire) che riscriva gli artt. 579 e 580 c.p., la normativa di risulta della giurisprudenza costituzionale sarà pur sempre “limitata” ad accorciare il tempo di una fine certa, che è qualcosa di (molto) diverso dal poter decidere come e quando porre fine alle proprie sofferenze in un contesto eutanasico.
5. Il Legislatore, al quale è rivolto nuovamente e «con forza l’auspicio» che intervenga «prontamente ad assicurare concreta e puntuale attuazione ai principi fissati» (p.to 10 cons. in dir.) dalla giurisprudenza costituzionale, dovrebbe – in un sistema che vuole dirsi fisiologico – «prendere atto al più presto delle decisioni della Corte» (Crisafulli in epigrafe) evitando il richiamo ai valori che costituiscono un rinvio al meta-normativo, diversamente da quanto accade quando, con la loro positivizzazione in principi e in diritti, essi risultano retti non in puro solipsismo ma in continuo e vicendevole bilanciamento. Solo così, rifuggendo qualsiasi gerarchizzazione assiologica, i diritti riescono a non essere tirannici gli uni sugli altri e a garantire una logica di relatività tale che i beni costituzionali in rilievo (autodeterminazione e vita) vengano tutelati entrambi e secondo ragionevolezza. Detto in altri termini, il Legislatore potrebbe anche giungere a una conclusione che la Corte (allo stato) ha ritenuto esserle preclusa (dati i precedenti in materia), cioè che di fronte a una malattia incurabile che provoca sofferenze insopportabili la presenza di un trattamento salvavita non protegge alcun valore (così come dimostra il diritto comparato ampiamente citato in sentenza). E questo – almeno così parrebbe – è sostenuto, tra le righe, dalla stessa Corte quando chiarisce che l’aver esteso oltremodo il requisito del TSV non può comportare alcun timore di pendio scivoloso, dal momento che tale requisito deve essere accertato, «unitariamente, assieme a quello di tutti gli altri requisiti fissati dalla sentenza n. 242 del 2019» (p.to 8 cons. in dir.).
Solo se il Parlamento si determinasse a procedere per come più sopra auspicato e il SSN e i giudici facessero propria la nozione di TSV, frutto della interpretazione autentica della Corte (S. Curreri)– seppur in una decisione che rimane di infondatezza (A. Pugiotto), che dovrebbe, nel caso, essere “doppiata” da una interpretativa di accoglimento –, i passi in avanti di cui si è detto sarebbero concreti; diversamente, dalla casistica scaturiranno questioni nuove e la Corte costituzionale sarà nuovamente investita, con la consapevolezza, per i giudici a quibus, che (alla luce del fatto che la sentenza qui commentata è entrata nel merito della quaestio) l’eventuale accoglimento delle questioni non implicherebbe una surrettizia violazione del giudicato costituzionale. Giudicato non rispettato, invece, da quel ddl, presentato lo scorso 26 marzo e ora in discussione in commissione al Senato, in cui si escludono dai TSV l’idratazione e l’alimentazione artificiale (AS 1083, art. 2).
*Professore associato di Diritto costituzionale e pubblico – Università della Calabria.
[1] V. Crisafulli, La Corte costituzionale ha vent’anni, in La Corte costituzionale tra norma giuridica e realtà sociale, a cura di N. Occhiocupo, Padova, 1984, p. 86.